Scrivo il 24 aprile, alla vigilia della data più amata del mio calendario civile e famigliare. Un giornalista di telegiornale ha appena detto che “Salvini ha parlato in tono vagamente minaccioso di una ‘passeggiata su Roma’ ”. Collegare le “vaghe minacce” di Salvini al 25 aprile? Qual è il momento in cui un buffone smette di essere un resistibile buffone e diventa un pericolo pubblico?
Dedico le righe del 25 aprile 2018 all’avvocato curdo Selahattin Demirtaş, 44 anni, recluso in un’orrenda galera di massima sicurezza della Turchia di Erdogan per aver fondato e co-presieduto, con la signora Figen Yüksekdağ, anche lei impavida prigioniera, il Partito democratico dei popoli, HDP, che in un’elezione cruciale sbarrò la strada al sultanismo presidenzialista di Erdogan e divenne poi il bersaglio impudente dell’accusa di terrorismo. Oggi sono quasi 15 mila i dirigenti e militanti, compresi molti parlamentari e sindache e sindaci eletti, del HDP in Turchia. Demirtaş è detenuto dal 2016 con un comportamento luminoso, di quelli da guardare il 25 aprile se si vuole ricordare a che costo si può scegliere di impegnare la propria esistenza nella politica. La propria e quella della propria famiglia: Demirtaş ha una moglie che gli è compagna fin dal tempo del liceo, e con lei ha due figlie. In galera ha scritto dei racconti, al centro dei quali sta la questione essenziale per lui e per il nuovo movimento curdo, la libertà delle donne, il tramonto di una cultura fondata sulla sopraffazione, il compiacimento e l’autocommiserazione del maschio. Si chiama “Alba” la raccolta dei racconti, in turco Seher, che è anche il nome femminile di una loro protagonista, violentata da maschi d’altri e finita dai maschi suoi. In Turchia il libro ha avuto una gran diffusione, da noi l’ha tradotto Nicola Verderame per Feltrinelli (pp.123,14 euro), con i disegni di Bahar, sorella di Selahattin. Senza leggerlo, avrei consigliato il libro nella data di oggi. L’ho letto e sono felice di conoscere tanto meglio un uomo cui già andava la mia ammirata solidarietà, e di conoscere meglio anche me stesso, attraverso l’insofferenza e la ribellione che alcuni brutali esiti delle storie di Demirtaş suscitano: come una notizia su una ragazza italiana tornata a salutare in Pakistan. Questi racconti sono anche dei manifesti civili resi in forma letteraria. A volte ne fanno a meno lasciando solo la figura libera dello scrittore prigioniero: raccomando le paginette della “Lettera alla Commissione per la lettura delle lettere dal carcere”, libere come il discorso di Anton Čechov sui danni del tabacco. Buon 25 aprile, Selahattin Demirtaş. E stiano lontani dalle passeggiate romane i nostri buffoni, quelli cui viene in mente la marcia su Roma invece che Stendhal.
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