Il titolo Multifilter richiama immediatamente la sigaretta e la sigaretta richiama per molti di noi ormai maturi in età la figura del padre. Quasi tutti i nostri padri fumavano e tanti di loro, come il mio, se ne sono andati proprio per enfisema polmonare. In tutto questo i miti di Hollywood, e Humphrey Bogart in particolare, hanno le loro colpe.
Per questo Multifilter è anche il titolo di un bellissimo libro introdotto e organizzato da Sergio Secondiano Sacchi ed edito da Squilibri che racconta proprio i nostri padri, quelli del Novecento, attraverso gli scritti e le musiche di tanti figli più o meno noti. Il libro contiene anche due cd, infatti, zeppi di canzoni legate alla figura del padre, da Guccini a Bob Dylan, da Alessio Lega a Lu Colombo, da Sighanda a Peppe Voltarelli etc.
Il prossimo 11 settembre, nel tardo pomeriggio, lo presenteremo allo spazio Flower nel panoramico piazzale Michelangelo di Firenze.
Qui ne riporto un racconto, quello di Fabio Zanchi, figlio Attilio, segretario della federazione PCI di Mantova nel dopoguerra e poi impiegato a Botteghe Oscure. Mi piace trascrivere qui questa testimonianza perché tocca aspetti della storia dei comunisti italiani non molto frequentati. Già il titolo è tutto un programma: il padre collettivo.
Sergio
Il padre collettivo – Fabio Zanchi
Non tutti hanno avuto la fortuna di avere un padre collettivo. Io sì. Sono uno dei pochi, fortunati, figli del Partito. Merito di mio padre.
Lui, Attilio, era un dirigente del Partito. Un uomo con la schiena dritta. Da giovane, giovanissimo, aveva fatto la Resistenza. Poi divenne un capo delle lotte per le terre demaniali, mettendosi alla testa dei braccianti della Bassa mantovana. Subì una ventina di processi, ma li vinse tutti. Lottava in nome della libertà, dei diritti, dei valori della democrazia. Era un gigante, per me. Ma anche per tutti quelli che lo conoscevano, compagni e avversari che fossero.
Nel ’56 condannò pubblicamente l’intervento sovietico in Ungheria. Lo fecero in pochi in Italia: sette Federazioni del Pci, tra cui la sua, quella di Mantova, e un altro gigante, Giuseppe Di Vittorio, il leader della Cgil. Mio padre subì un altro processo, interno al Partito. Pietro Secchia, inviato da Roma, gli intimò di fare autocritica. Allora usava così. Attilio non cedette: “Io non faccio nessuna autocritica. Falla tu, semmai”.
Andò a finire che, siccome “non era il momento di mettersi contro i compagni sovietici”, fummo deportati a Roma: mio padre, mia madre e io. Attilio a lavorare a Botteghe Oscure, insieme a Giancarlo Pajetta; mia madre a lavorare all’Ambasciata di un Paese dell’Est (era l’unico modo che c’era per fare entrare un misero stipendio, a quei tempi); io a scuola, in prima elementare.
Fu allora che compresi di essere figlio del Partito. Abitavamo al quarto piano di una dignitosa palazzina in via Pavia, dalle parti del Policlinico. La portineria era presidiata dal compagno Santini, una specie di guardia rossa, inflessibile, che non faceva passare nessuno che non fosse conosciuto. Non avevamo il frigorifero, a quei tempi. Così mia madre lasciava la mia “schiscetta” (a Roma non si chiamava così) dalla Edera, al secondo piano: lei ce l’aveva, il frigorifero.
Non avevamo neppure il televisore. E come noi non l’avevano le famiglie di Mario, Nino e degli altri figli del Partito, che abitavano in via Pavia. Ma non c’era problema. Ogni giorno, alle 17, quando c’era la Tv dei ragazzi, al primo piano si apriva una porta. Noi ragazzini entravamo in fila indiana, in silenzio, salutavamo Rita Montagnana, la moglie di Palmiro Togliatti, che ci faceva accomodare in salotto e ci ospitava per tutto il tempo della trasmissione dedicata ai più piccoli.
Nei pomeriggi romani spesso godevo della compagnia di un baby sitter d’eccezione. Era un signore alto, anziano, con la faccia severa e dai modi molto sobri. Era Paolo Robotti, il cognato di Togliatti sopravvissuto alle torture alla Lubianka.
Robotti, appassionato fotografo, mi accompagnava in giro per Roma e scattava immagini che poi sviluppava e stampava nella sua camera oscura. Conservo ancora le sue foto: a Villa Borghese, ai Fori, sul terrazzo della casa di via Pavia. L’immagine che mi piace di più è quella in cui mi si vede seduto a una scrivania, tra le mani l’ultima meraviglia sovietica, un modellino dello Sputnik. Gli anni di Roma, appena due purtroppo, furono per me formidabili. Lì conobbi da vicino i maggiori dirigenti del Partito, in una dimensione umana e familiare. Quella dimensione che, tornato successivamente a Mantova, mi capitò di vivere in tutti i rapporti con il popolo che incontravo ai comizi di mio padre. Lì lui era Zanchi (con la zeta dolce, nella parlata bassopadana, quasi una esse) e io ero Zanchén, zanchìno, una specie di patronimico riservato ai discendenti delle personalità importanti. Ancora adesso, da quelle parti e per quella gente, sono Zanchén.
Oggi Attilio, mio padre, non c’è più. Non c’è più neanche il Partito, quel Partito. Rimane un bel ricordo, almeno per me. Se sia stata una bella storia, lo dirà “l’ultima riga del libro”.
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