Dopo “soli” tre anni mi è arrivata, al fine di correzioni, la trascrizione di un mio intervento ad un convegno della Crusca sulla lingua toscana. Il testo non è per nulla imperdibile ma lo posto perché, rileggendolo, mi è venuto più volte da sorridere. E’ una cosina “di famiglia” che però potrebbe suscitare un sorriso anche a voi.
Riguardo a quanto detto fino a ora mi viene da dire che io ho sempre distinto molto il fiorentino della città di Firenze e il toscano delle campagne; a mio avviso ci sono delle profonde differenze. Il toscano delle campagne ha un fascino in più, ha un fascino di dolcezza, di tenerezza, di ironia, ma in genere non sarcastica, è il toscano del canto in ottava, per esempio, perché il canto in ottava si sviluppa tra i mezzadri; c’è una dignità dei protagonisti dell’agricoltura toscana, questa coscienza di avere in mano il know-how della produzione agricola, una conoscenza della terra. A differenza dei cafoni meridionali (cafoni tra virgolette, ovviamente), che fanno dei lavori senza sapere il fine del lavoro e senza conoscere, perché sono costretti al solo bracciantato, o almeno lo erano all’epoca. Noi abbiamo avuto, soprattutto grazie alla mezzadria, questo contadino che invece conosce il mestiere, sa che terra è, cosa può produrre, quali sono i momenti buoni per la semina, quando è il momento di vangare, quando è il momento di fare altri lavori e così via. Questa conoscenza dà la sensazione netta della superfetazione dei parassiti, perché anche senza nessun altro potrebbe tranquillamente far produrre questa terra, il bracciante meridionale no, non saprebbe da che parte incominciare: per questo la sua è una mentalità già succube da un punto di vista dei rapporti sociali e di lavoro. Il contadino toscano, al contrario, vede il prete, il nobile, l’esercito, la magistratura come una superfetazione, gente che sta mangiando sulle sue spalle, e lui è costretto a far la fame per mantenerli tutti. Questo gli dà un’autostima che a Firenze, in città, non esiste perché lì prevale naturalmente il commercio, il bottegaio, la professione, e quindi la chiacchiera con fini di guadagno e non sempre onesta. Questa caratteristica delle campagne tinge di saggezza, di intelligenza, di profondità e gentilezza anche l’espressione linguistica. Io sono molto affascinato dalla campagna, i canti in ottava a mio avviso sono antesignani proprio di una dignità nei confronti del padrone che arriva diritto diritto fino alle nostre vignette o a Benigni e a tutte le varie forme di contestazione del potere.
La dignità si manifesta anche nelle figure femminili. Io sono da parte di mamma di Scandicci, i contadini di Scandicci sono il lato femminile della mia famiglia; mia mamma era una biondina timidissima, timidissima come erano la maggioranza delle contadinelle e tuttavia si è sposata con un meridionale, un carabiniere venuto proprio dal bracciantato del sud, dalla fame, da un paesino vicino a Matera dove si viveva andando l’estate a tagliare il grano nelle Puglie e da questa miseria terribile si poteva sfuggire soltanto in due modi: o prete o carabiniere. Mio padre ha fatto il carabiniere, è venuto al nord, ha fatto una serie di guerre coloniali prima, e poi a Firenze ha conosciuto mia madre e si sono messi insieme. Mio nonno comunista da sempre, anarchico, poi socialista, poi comunista, si è sentito pugnalato alle spalle, insomma proprio non so se avrebbe preferito che sua figlia si fosse fatta monaca piuttosto che mettersi con un carabiniere e in più meridionale. Non è che fosse razzista, però i meridionali erano i meridionali, insomma si sa, “non hanno voglia di lavorare, attaccano il cappello al chiodo, mangiano a tradimento”, erano tutti quei luoghi comuni che conosciamo. Mia mamma è stata la prima che ho avuto accanto appena nato, anzi l’unica perché lui fu trasferito, in questo paesino di Piancastagnaio in cui io sono nato l’8 giugno del ‘40 e lui ha appena fatto in tempo a segnarmi in Comune che l’hanno richiamato al fronte. Io l’ho conosciuto nel ’45, quando fortunatamente è tornato: dei 15.000 della divisione Venezia con cui era partito nei Balcani ne sono tornati 1.500.
Mia mamma è stata sola con me piccolino, in un paese che non conosceva, in cui aveva fatto pochissime amicizie, e ha passato ore e ore e ore con me passandomi la tenerezza, la dolcezza, questo toscano dolce delle nostre campagne intorno a Firenze, trecentesco, no? Carducci parla del linguaggio della costa come quello di «un sirventese del trecento, / pieno di forza e di soavità». Io mi sono sempre molto riconosciuto in questa dolcezza, che però non è mai disgiunta da una dignità enorme che arrivava fino alla ripicca. “Capito? Che tu credi? Ora vi piglio…” Anche la piccola e dolce contadinella sapeva ribellarsi, spesso soffriva, magari era uno sforzo proprio enorme doversi liberare, ma si ribellava. Nel ’48 lei quando è andata a confessarsi… Il ’48 è un anno, lo dico per i più giovani che non ricorderanno o lo hanno studiato, fu un anno proprio simbolico per la storia recente dell’Italia, si andava a votare per la prima volta, votavano anche le donne… Mia mamma arrivò alla chiesetta di San Quirico a Legnaia, e quando toccò il suo turno, invece del solito parroco trovò un pretino giovane giovane del Nord, tutto molto saccente, perché avevano “commissariato” le parrocchie troppo a sinistra, troppo attente al popolo, e lì avevano mandato dei pretini preparati apposta per fare propaganda politica a favore della Democrazia Cristiana, che allora era il primo baluardo contro i comunisti. Allora è arrivata là e questo pretino ascoltava i suoi peccati, dopo di che le ha chiesto «Ma lei il 18 aprile vota?», «Eh, sì, certo che voto, finalmente si vota anche noi donne», «E per chi pensa di votare?», «Mah – ha detto la mia mamma un po’ imbarazzata – io so che il voto è segreto…”, «Sì, segreto per gli uomini, ma non per Dio, perché se lei non mi dice per chi vuol votare, io non le posso dare l’assoluzione, perché se dovesse votare per i comunisti…» e giù e giù contro i comunisti… Lei se l’è presa molto contro questo pretino giovane che le veniva a fare la lezione e in un fiorentino meraviglioso gli ha detto «Se non me la può dare, sa come si fa? La se la tiene», e andò via. È tornata inviperita, inviperita a casa. Ha fatto una scena «Quella carogna! Quella…» – lei non bestemmiava, era per benino…
Hendel – Ma questa l’hai raccontata a Papa Francesco?
Staino – Sì, sì. Due anni fa, una sera mi chiama Carlin Petrini, quello di Slow Food, e mi dice «Ciao Sergio, sono a Parigi, lo sai chi mi ha telefonato?», «Chi?», e lui «Il Papa». La cosa mi colpì molto perché era una delle prime volte che telefonava, poi ovviamente ci abbiamo fatto l’abitudine, anzi, adesso si rischia, se ti chiama: “Dio bonino, un’altra volta!”. Carlin mi raccontò di averci parlato a lungo e, oltre che di Slow Food e Terra Madre, avevano parlato anche di mia mamma. Gli aveva raccontato la scenetta del confessionale e il Papa, dopo averci riso su, gli aveva raccomandato di farmi saper che, nel caso mio madre volesse, gliel’avrebbe data lui l’assoluzione negata.
E questa lingua l’ho sempre sentita… ancora oggi una signora di Lastra a Signa, che viene a fare le pulizie a casa, io starei ore e ore ad ascoltarla perché parla questo fiorentino, toscano, toscano-fiorentino, dalla pronuncia dolcissima, ha ancora la t etrusca, credo sia etrusca, «ho vorzuho», con un suono gutturale al posto della “t”. È bellissimo, “ho vorzuho”, che l’è proprio il senso popolano, da piccino dicevo «ho vorzuho» E ’un si dice! “Vorzuho”, non è mica facile? Bello, no? E le buccole… «E no, io le collanine non mi piacciano, io mi metto solo le buccole». È molto bello… Contrapposto al fiorentino che non ho mai amato da ragazzo. Io che sono cresciuto quasi col terrore inconscio di parlare fiorentino, mi piacevano molto le voci fiorentine colte, cioè mi piaceva Giorgio Albertazzi, per esempio, che era un fiorentino che si sentiva nella cadenza, in certe inflessioni, ma non era una cosa… Il fiorentino presuntuoso come quello della barzelletta, abbastanza odiosa «una signora bolognese che va al bar dice “mi fa un caffè, per favore?” Poi questa scaccia le mosche e dice “Sorbole, ma qua a Firenze siete pieni di mosche?” “Sa, e’ le vengono a studiare la lingua”». Pezzi di merda sono i fiorentini e poi l’ho capito il perché, l’ho capito molti anni dopo insomma il perché, dice “tu sei testone!”, ma io non sono mai andato da un’analista, anzi da buon stalinista e noi comunisti-comunisti eravamo contro Freud e contro l’analisi, tutte seghe… oh, scusate… Tutte baggianate piccolo borghesi… ed era successo questo che quando avevo tre anni, nel ’43 ero a Piancastagnaio nella parte alta della piazza del castello, c’erano i giardinetti, ed eravamo a questi giardinetti con la mamma, io stavo giocando, probabilmente era d’estate, l’estate del ’43, e avevano ammazzato un fascista lì al Monte Amiata e arrivano due camion carichi di fascisti da Firenze, con i fucili. Sono arrivati nella piazza del castello e hanno cominciato un carosello sparando in aria e urlando in un fiorentino sboccato, come si dice: «Pezzi di merda, vi si rompe il culo a tutti, bucaioli, vi si ammazza, venite fuori, pezzi di merda, sudici, bucaioli» e io ho preso una paura tale e ho associato a questa enorme paura il fiorentino. E poi ho capito perché tutte le volte che andavo al cinema e magari vedevo Andrea Checchi, attore che andava forte negli anni del fascismo, con film tipo L’assedio dell’Alcazar ambientato nella guerra di Spagna, oppure sempre con lui Luciano Serra pilota, ambientato durante la guerra di Etiopia, mi venivano i brividi. Ma anche lo stesso Franco Cardini come parla mi faceva terrore ancora fino ad anni fa, perché c’era associata una sonorità un po’ troppo sicura di se stessa e con una intonazione che personalmente sembrava quasi beffarda. Attenzione, dico tutto questo con una grande simpatia verso Franco Cardini, il problema era mio. È un fiorentino che volge al sarcasmo, che è una cifra che non mi appartiene. Però è vero che questi fiorentini io li ho odiati molto, diciamo fino alla scoperta di Paolo Poli e poi all’arrivo di Benigni, degli Ugo Chiti, dei Pieraccioni… che con la loro ironia mi hanno riappacificato con il dialetto fiorentino.
Ora sto invecchiando, e mia moglie dice «Io non ti amo mica più tanto perché io ti ho amato tanto per la voce che avevi, così bella, senza inflessioni, mi dicevi le poesie perfettamente, ora me le dici con l’accento fiorentino, non mi piacciono più»… Però si vede che con la vecchiaia ho superato questi traumi… Sento che giorno per giorno queste cadenze del toscano vengono fuori. Ho tentato anche di metterle nel fumetto, alcune costruzioni mi escono senza volere; ad esempio spesso uso il fo invece del faccio e me lo fanno correggere quelli delle altre regioni, pensano a Dario Fo, pensano ad altre cose con il fo. E poi c’è un’altra parola, invece, un epiteto da campagna, che mi piaceva tantissimo, forse limitata alla zona di Scandicci, è un’offesa molto carina, ma nemmeno proprio un’offesa: popone: «Va ’ia popone». A me piace tanto perché popone sarebbe il melone, e quindi non sei proprio uno zuccone, una zucca, un pochino dolce lo sei, e allora popone va bene. L’ho portato un po’ di volte sulle mie strisce, poi Altan mi ha detto un giorno «Guarda per favore a me dà fastidio che tu metta quel popone». Perché lui vive ad Aquileia e la strada principale di Aquileia è dedicata a un vescovo che si chiama Popone IV. E ora chiudo con un ricordo di un grande attore fiorentino, si chiamava Alfredo Bianchini. Diceva così: «E canto, canto, canto che son pazzo perché ne vengo da casa pazzia: l’è pazza la mi’ mamma che m’ha fatto, l’è pazza la mi’ nonna e la mi’ zia. L’è pazza tutta quanta la mi’ gente. L’è pazzo chi mi ascolta, e chi mi sente».
9 Comments
Te l’ho sempre detto che c’era qualcosa sotto sotto, nel tuo rapporto conflittuale col fiorentino Matteo Renzi …!
Ah ah ah!
Caro Sergio,
Il tuo scritto, sopra pubblicato, mi ha fatto meditare sull’Italia e gli italiani/e. Quindi mi permetto di sintetizzare, qui di seguito, le mie conclusioni con le relative spiegazioni. Partiamo dalle conclusioni.
1 ) L’ Italia è un territorio protetto dal mare e dalle Alpi che tante popolazioni esterne vogliono conquistare per sfida e curiosità. Qualcuno ci provò con gli elefanti ed ora ci provano con i “barconi” spinti, come sempre, dalla fame e dalla disperazione. Ci sono riusciti i primi e lo faranno anche secondi.
2 ) il popolo italiano è un miscuglio di civiltà, ma soprattutto di settentrionali e meridionali, nordici, ed è più difficile dire sudici ( anche se i settentrionali pensano e dicono sudici con un altro senso ). Il suddetto insieme di persone si può paragonare ad miscuglio di acqua ed olio difficilmente emulsionabile. Da cosa deriva questa eterogeneità? Secondo me le più grandi civiltà umane sono nate e cresciute al sud del nostro paese. Gli egizi, i greci, i romani, sono tutti meridionali. Poi sono arrivati i “barbari“, nordici, settentrionale, che hanno preso il comando del mondo civilizzato con la forza e la violenza, senza conoscere la civiltà precedenti; ma anzi odiandola e cercando di appropriarsi delle sue scoperte e dei suoi algoritmi facendoli passare come loro invenzioni. Non era difficile affermare, per i “barbari“, nordici settentrionali, la loro superiorità, utilizzando l’intelligenza delle vecchie civiltà e la loro forza e superiorità numerica: le vecchie e gloriose civiltà non erano più in grado di difendersi, visto la loro inferiorità numerica e la loro Cupidigia nel considerare chi aveva fame, cioè i ‘barbari” non umani e da distruggere. Quindi diventa una lotta fra “barbari“ meno sviluppati intellettualmente e vecchie civiltà evanescenti che continua nel tempo ed ancora adesso prolifera. Chi si sente “barbaro” considera le vecchie civiltà opulente, affamatrice e sfruttatrice di popoli interi. Coloro che continuano a tifare per gli egizi, i greci, i romani e si sentano loro eredi e più intelligenti dei “barbari “ non collaboreranno mai con quest’ultimi, considerandoli inferiori. La storia umana però ci racconta che gli inferiori affamati sono stati , sono e saranno più forti e motivati e la spunteranno come sempre. Per raggiungere la vittoria screditeranno, come sempre, le civiltà trascorse utilizzando epiteti come cafone, terrone, gente che non ha voglia di lavorare. Di solito le nuove civiltà arretrano , ma poi i vecchi algoritmi, le vecchie scoperte un po’ alla volta verranno rivalutate e riconosciute. La civiltà terrestre continuerà a progredire, sia pure rallentato momentaneamente. Gli umani non hanno scelte e gli italiani/e in particolare: continueranno a combattersi ed ad odiarsi “barbari” ed eredi delle vecchie civiltà,
Le parole “terrone“ e “polentone” continueranno ad essere usate sotto forma di scherzo ma sostanzialmente con odio profondo ben nascosto, ma non impediranno agli esseri umani di progredire sia pure lentamente. Caro Sergio, secondo me, però tra tua madre e tuo padre il più intelligente è stato il tuo Papà, nonostante fosse (se ho capito bene) un “cafone passato “allarma benemerita”. Scusami l’impertinenza è il campanilismo: io sono nato nel profondo sud in un paese vicino a quello di tuo papà dove, come scrisse il grande Carlo Levi, Cristo non era ancora arrivato e per incontrarlo mi sono spostato al Nord e tifo per le vecchie civiltà. Sono a Milano da cinquant’anni e passa, ma non mi aspettavo che arrivassero ancora i “ barbari “della lega di Salvini ad invadere la grande Roma e la sua millenaria civiltà. Non dispero però: Salvini sarà civilizzato. Scusatemi le mie imprecisioni e le mie considerazioni forse sbagliate ed opinabile sicuramente: non sono uno storico e la storia, pur amandola, non la conosco abbastanza. Mi piacerebbe però conoscere, oltre al tuo parere caro Sergio, quello del professor Guido Clemente che sicuramente avrà qualcosa da insegnare a me e quelli come me. Un Grande abbraccio a tutti Antonio De Matteo Milano
Caro Sergio,
Antonio De Matteo gentilmente chiede il mio parere di storico sulla questione dei barbari, vecchi e nuovi. Ne sono lusingato, ma temo che De Matteo sia stato troppo fiducioso. Studio da circa 60 anni questi problemi, e non ho certezze. Ma questo è il bello della ricerca storica, ogni generazione ricostruisce il passato per capire il presente, e capisce il passato alla luce delle esperienze di questo presente. E questa è la cosa più importante, capire analogie e differenze. Per farla breve: i romani, ma anche gli egiziani, i greci, gli assiri, i babilonesi, i fenici non erano certo esenti da difetti, colpe e crimini. I romani, per citare il caso che più ci riguarda, di generazione in generazione hanno fatto guerre sanguinose e crudeli per conquistare un impero. Alla fine, però, ci hanno dato alcuni secoli di pace, il periodo più lungo della storia umana, quando neanche in Medio Oriente si combattevano guerre. Gli antichi popoli “mediterranei”, quel che è fondamentale comprendere e ricordare, pur tra guerre e travagli di tutti i generi, hanno “inventato” alcuni valori, concetti, principi, pratiche di vita comune, che sono acquisizioni permanenti, o dovrebbero esserlo per le moderne società: la democrazia, la legge come fondamento della civile convivenza, il diritto privato che regola i rapporti, la riflessione filosofica sul rapporto tra l’utile e l’onesto nell’arte di governare, il gusto del bello, una letteratura che ha fondato tutte quelle successive, la storiografia come strumento per capire il passato e quindi noi stessi. Poi sono venuti gli arabi, i popoli germanici, gli slavi etc., in un incessante turbinio di civiltà e popoli. Vi sono state guerre, incontri e scontri, durate per secoli. ma i valori che consideriamo nostri, nati nel meridione, possiamo dire con De Matteo, sono stati alla lunga fatti propri ad esempio da quei popoli del nord che hanno imparato la democrazia e oggi sono di esempio. I passaggi non sono stati lineari, ma qui sarebbe sciocco e presuntuoso fare una lezione di storia del mondo.
La grande responsabilità che dobbiamo sentire oggi, e questa è una grande differenza rispetto ai vecchi barbari, è che noi sppiamo cosa è meglio, sappiamo che vi sono appunto valori e idee e modi di vivere in una comunità di uomini che ci sono stati tramandati. Allontanarsi da questo, negare che abbia un valore permanente e superiore, è la nuova barbarie, colpevole perché non è inconsapevole di ciò che l’umanità ha conquistato; anche s enon a quanto pare in modo permanente. Possiamo civilizzarli? Forse, ma ogni processo storico è diverso. E in ogni caso ci vuole tempo, il tempo della storia che non è quello della vita umana. Possiamo però combattere, perché sappiamo cosa è bene per la nostra società; dobbiamo combattere con le armi della cultura e della scuola, appunto.
Leggere il discorso di Pericle in Tucidide sulla democrazia, le opere di Cicerone, i dialoghi socratici di Platone, e quindi gli illuministi, era abbastanza normale per la mia generazione, anche se non sempre li capivamo o amavamo. Ma a volte ci sono tornati utili per orientarci. Io non so se persone come Salvini possono essere “civilizzate”. A differenza dei vecchi barbari, hanno scelto di imbarbarirsi, non sono nati barbari, quindi la cosa può essere più difficile, o inutile. Ma so che dobbiamo provarci, e per fortuna non dobbiamo combattere con le armi, basterebbe il voto, e magari, come direbbe Gaber, un partito….
Bello, compagno Clemente.
Sergio
Grazie professor Clemente e sono d’accordo con lei: per battere i “barbari attuali “ guidati da Salvini non abbiam bisogno di armi ma di studiosi come lei che diffondendo la cultura nella scuola e nella nostra società aiutino i popoli a fare delle scelte umane concrete e giuste puntando sui valori acclarati fondamentali dalle società civili e cioè: libertà, uguaglianza, fraternità. Coraggio: la fiducia nella nostra cultura ed in coloro che la diffondono ci permetterà di “civilizzare” chiunque scelga volutamente di diventare barbaro per convenienza personale. Buona serata a tutti. Antonio De Matteo Milano
Grazie per queste riflessioni che mi hanno strappato un sorriso di speranza.
Grazie Sergio per il tuo scritto : se ne usciva, come sempre, bagnati di storia e anche di ironia. Che non fa certo male, soprattutto oggi. Anzi, ci può salvare, insieme alla cultura.
Massimiliano
Ah! Volevo condividere con voi, riguardo alla bellissima immagine della politica come “civilizzare” il “nemico” antidemocratico, le parole di Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata democratica USA espressione della minoranza dei latinoamericani, rivolte ai sostenitori di Trump e a tutti i sedotti dalle sirene del suprematismo, immaginando un loro passo indietro, un loro ritorno sui propri passi, un minimo ripensamento o un voltarsi di un attimo : “Vi ameremo di nuovo, non siete andati troppo lontano”.
A mio avviso sono parole che illuminano la storia. La politica è speranza che chi si è disumanizzato ritorni indietro, é speranza di recuperare nella nostra rete quei pesci divenuti draghi sbavanti. Non abbattere, ma civilizzare, come dicevano Antonio e il professor Clemente.
È difficile, quasi utopico pensare di farlo con i leaders. Ma con la gente, gli elettori?
Dobbiamo pensare che la nostra dialettica, quando si pone obiettivi umanizzanti, abbia limiti insuperabili? Che le parole non possano convincere e avvincere?
Ma ci sono politici che si rivolgono a tutti, nel parlare, anche agli elettori “avversi”?
E noi, sappiamo “convincere” pacificamente? Argomentare, conquistare, praticando la speranza che l’altro, lontano e “avverso”, cambi? .. Che l’ “imbarbarito” si volti a guardarci? Non lo so, io ad esempio credo di esser capace solo di litigare, come in questi anni mì é capitato spesso, con tanti amici di parte “avversa”.
Ma la Ocasio-Cortez ha praticato tale speranza, rivolgendosi “solo” ai suprematisti . Come una sorella o una amica d’infanzia, o una madre.
Dobbiamo pensare che siano una dialettica e un linguaggio per noi impossibili, da american dream della retorica? Come se noi fossimo invece realisti, disincantati, non così ingenui da parlare “direttamente” ai salviniani, ai sovranisti spaventati dallo straniero, ai giovani conquistatì dall’identitarismo?
Perchè in Italia pensiamo d’istinto che un leader possa parlare solo “al proprio gregge”, e non possa rivolgersi a tutti, sperando che le proprie parole sfiorino le menti dei “nemici”?
Forse l’America è diversa perchè ha avuto un Luther King che parlò a tutti, soprattutto ai “nemici”?
Noi ricordiamo solo attacchi e strali ed odio nella storia dei nostri discorsi politici?
Da quando ho coscienza politica, dai miei diciassette anni, ho udito sempre comizi “dal gioco offensivo”, come fosse l’unico modulo vincente possibile, come in uno sport.
Ma se usassimo anche (dico “anche”, non masochisticamente e ottusamente “solo”) la “tenerezza” del discorso – di per sè potentissimo e di parte! – della Ocasio-Cortez? La speranza che il “totalmente altro” politicamente (il salvinista, lo xenofobo, lo spaventato) si possa voltare anche solo per un attimo, colpito da una parola, una parola “per lui”?
Non so, forse sto vaneggiando.
Ma il vostro discorso sul “civilizzare il barbaro, l’imbarbarito” mi ha fatto respirare. E tornare alla mente queste parole di tenerezza. Cioè di ficcante potenza : “Vi ameremo di nuovo, non siete andati troppo lontano”.
Tra l’altro le ho trovate su Strisciarossa : grazie Sergio!
Vi abbraccio, con i polmoni che riprendono a pompare aria, dopo l’asfissia dell’angoscia di oggi, grazie alle parole del vostro dialogo.
Massimiliano
Bellissimo, Massimiliano, bellissimo. Mi piacerebbe riprendere il tuo discorso in una tavola a fumetti, vediamo, chissà se ce la faccio.
Sergio
Bravo Massimiliano: “la parola e più efficace della spada” . Le idee che inneggiano alla libertà, alla fraternità ed alla uguaglianza non moriranno mai fino a quando ci saranno persone come la deputata Americana che tu citi e noi del PD insieme a tanti altri abitanti della terra. Buona giornata a tutti Antonio Milano