EM. MA. Sull’Unità, un tempo, e su Facebook adesso, Emanuele Macaluso si firmava così. Aveva 96 anni. Quasi 97. Un anno è importante, è tantissimo, da bambini e da vecchi. In mezzo, invece, sembra niente. Macaluso era nato poco tempo dopo la scissione di Livorno, di cui ricorre il centenario proprio adesso. Quella da cui nacque il PCI, separandosi dal partito Socialista. Aprendo una storia, una ferita mai più rimarginata. Se a suo tempo (nella seconda metà degli anni Ottanta) ho scelto di votare il PCI, finché è esistito, un po’ è merito (o colpa, dipende dai punti di vista) proprio di Macaluso. Dal Partito Comunista mi allontanavano molte cose.
Mi sentivo libertario e il PCI, almeno in parte, non lo era. Per il mondo del cosiddetto socialismo reale, sinceramente, provavo orrore. Avevo comprato “Il primo cerchio” di Solzhenitsyn in cartoleria. (Da noi, in periferia, i libri si trovavano lì). Il cartolaio mi aveva guardato: “Solzhenitsyn. Un reazionario”. Leggevo Milan Kundera, i “racconti della Kolyma” di Salamov, che descrivevano il socialismo reale come un incubo concentrazionario. Mi allontanava l’aria da chiesa (rossa), in cui il partito aveva sempre ragione, anche quando aveva torto. E il moralismo di Berlinguer. L’idea, mutuata da Pasolini, del PCI come “un paese pulito in un paese sporco”. Della politica non come lotta tra visioni opposte, ma tra guardie (se stessi) e ladri (gli altri). Quel tarlo moralista, che ha sostituito alla lotta di classe quella tra sedicenti onesti e presunti ladri, da lì in poi è divenuto egemonia culturale. Per poi trasformarsi nella sua caricatura con il Movimento Cinque Stelle. (Prima tragedia e poi farsa, come la storia per Marx).
Dal PCI mi separava tutto questo, ed era molto. Però c’erano anche ragioni per sentirlo vicino, quel mondo. Sapevo bene che, senza la presenza dei comunisti nella storia, quelli della razza mia sarebbero rimasti molto più a lungo dove erano: a fare da mano d’opera a basso costo per la borghesia. Mentre io avevo avuto una sorte diversa, ero andato a scuola. Addirittura (primo della mia famiglia) al liceo. E poi sapevo che i comunisti erano stati fondamentali nel fondare l’Italia repubblicana. La Costituzione. Paradosso sublime: i comunisti, mentre guardavano al modello sovietico, avevano avuto una parte decisiva nella costruzione e difesa delle istituzioni di democrazia liberale del nostro paese. E poi nel PCI c’erano tante persone in gamba. Miriam Mafai. Pietro Ingrao. Ed Emanuele Macaluso, che mi piaceva particolarmente. Perché aveva sposato il socialismo (la causa dei lavoratori, della « povera gente ») con lo stato di diritto (come strumento di difesa dalle violenze e prepotenze del potere). Quel connubio era anche il mio. Il socialismo nella libertà. La legalità senza giustizialismo. La sua Unità, prima, e il suo Riformista, poi, erano giornali bellissimi.
Macaluso scriveva con semplicità e capacità di sintesi estrema, da mondo classico. Pascal diceva: “Je vous écris une longue lettre parce que je n’ai pas le temps d’en écrire une courte.” (Scrivo una lettera lunga, perché non ho il tempo di scriverne une breve). È la semplicità che è difficile a farsi, diceva Brecht. Macaluso sapeva essere semplice e breve. Infatti, nonostante l’età, si era adattato brillantemente anche al mondo delle reti sociali. Macaluso era per me la politica intesa come umanità, intelligenza, valori e realismo. E non potere, apparato, furbizie, velleitarismo.
A volte, di fronte agli avvenimenti, mi chiedevo: cosa ne penserà Macaluso? Cosa scriverà? E andavo a cercarlo. Sui giornali, sulla rete. Poi arriva un giorno in cui resta il silenzio. Il tempo e l’età hanno delle ragioni che la nostra ragione non conosce o non sempre sa accettare: e la conclusione della vita a 96 anni non è certo qualcosa che può sorprendere. Eppure, eppure. Con Macaluso scompare un altro pezzo della storia del nostro Novecento, e si affievolisce ancora la voce delle sue ragioni: quelle del socialismo e della libertà. E a noi cosa resta? Addio, compagno.
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