Il mondo si è accorto di Aeham Ahmad per una foto, lui che suona il pianoforte in mezzo alle macerie dei palazzi bombardati di Yarmouk, il quartiere dei profughi palestinesi di Damasco. Suonava per distrarre gli abitanti, loro gli portavano poesie e lui le metteva in musica. Niente versi eroici, voleva che scrivessero «su quello che sta succedendo qui, su questa vita di merda».
I bambini cantavano, lui li accompagnava e un amico fotografo fece lo scatto (e poi il video) che commosse il mondo. Durerà poco, fino a che una piccola corista verrà centrata da un cecchino e un soldato dell’Isis darà fuoco al pianoforte. Beethoven, Mozart e il rap della gente erano diventati un grido inaccettabile sia per il governo sia per i fondamentalisti, e «il pianista delle macerie» troppo famoso per restare lì. Così la famiglia raccolse il denaro per farlo scappare. Lui arrivò a Lesbo coi gommoni e puntò alla Germania attraverso la rotta balcanica. Sopravvisse, e raccontò tutta la sua storia nel suo primo libro, dalla nascita da genitori palestinesi rifugiati in Siria, allo studio matto e disperatissimo del pianoforte per volere del padre cieco, dagli anni spensierati dell’infanzia alle rivolte del 2000 al disastro della guerra nel 2011.
Ora ha pubblicato un altro libro, è scritto in prima persona ma la voce è quella di un tassista suo amico che vive ancora là; racconta quel che vede e sente mentre fa le sue corse grame in una città per metà perfetta (a favor di propaganda) e per metà distrutta. Ma prima del nuovo libro, a Aeham Ahmad chiediamo del suo presente in Germania, da cui ci parla.
La storia si ripete, ha visto il video della signora ucraina che suona il piano nella casa sventrata? Tra l’altro quello che lei aveva a Yarmouk era marca Ukraina;come si è sentito?
«Onorato e ispirato da qualcuno che forse lo è stato da me. Credo che quella signora avesse visto il mio video, il New York Times ha esplicitamente collegato le due performance e in effetti incarnano la stessa idea di lotta alla guerra con la musica. Poi non solo il mio piano era un Ukraina, era ucraina anche la mia insegnante, e la guerra colpisce tutti, siriani e ucraini, ma anche i russi».
Lei è un esempio di rinascita dopo la guerra grazie all’arte, la sua storia può essere utile ai ragazzi ucraini che vedono le loro città distrutte?
«La storia del pianista siriano non parla solo di me ma è di ispirazione per tutti, così come la donna che suona nella casa devastata e la violinista nelle cantine di Kharkiv non servono solo al popolo ucraino, sono immagini che chissà cos’altro ispireranno e chissà dove».
L’amico che ha scattato la famosa foto è morto di torture in carcere. Come l’ha saputo?
«La famiglia è andata a chiedere di lui e hanno detto che era morto; senza tante spiegazioni hanno solo restituito il tesserino di plastica che fa da documento d’identità. Sua madre non crede sia morto ma questo le han detto. Anche di mio fratello non sappiamo nulla da dieci anni, e così di Mahmud Tamin, il ragazzo che ha scritto per me tante poesie trasformate in canzoni. Abbiamo oltre un centinaio di migliaia di prigionieri in Siria di cui non si sa più niente».
Ora vive di concerti? Mai pensato di riaprire una scuola di musica?
«Sì, sono sempre in tournée, tra poco anche in Italia. La scuola l’ho aperta a Wiesbaden nel 2018, davo lezioni gratis ai bambini ma è durata sei mesi perché l’affitto costava 650 euro e ho pensato che quei soldi, mandati in Siria, avrebbero aiutato di più».
Perché suo padre ha insistito per farle studiare il pianoforte, strumento – lo dice lei – pensato e costruito per la musica europea, che mal si adatta a quella orientale?
«Voleva darmi una sorta di pass internazionale perché come profughi palestinesi in Siria non abbiamo mai avuto un passaporto per andare all’estero. Io non ero d’accordo ma intuivo che aveva ragione».
I suoi nonni fuggirono dalla Palestina, lei e i suoi figli siete nati in Siria. Che senso ha la parola patria per voi?
«Patria sono le persone, la comunità, dove si vive insieme. Il campo profughi di Yarmouk era patria perché la mia grande famiglia era là. La Palestina non l’ho mai vista, la conosco solo dai racconti di mio nonno. Ora vivo vicino a Warburg e Kassel, al centro della Germania, e cerco di fare comunità qui, tedeschi mescolati a siriani, persone che cercano di essere positive e di tenere fuori negatività e razzismo».
Un rifugiato come fa con la memoria? Si lascia andare ai ricordi dei tempi buoni o si impone di non farlo?
«I ricordi sono le uniche cose belle in una mente piena di brutte immagini; come la polizia segreta, mio fratello che scompare e le distruzioni delle guerra. Tutto questo porta alla depressione, così per proteggermi mi butto nei bei ricordi».
La lingua: ha dovuto imparare anche il tedesco. Difficile?
«Il tedesco è difficile ma i tedeschi mi hanno aiutato dicendomi sempre “Oh come lo parli bene” anche quando facevo degli errori. In Germania ci sono un sacco di italiani che parlano con l’accento italiano e siriani con l’accento siriano così quei poveri tedeschi devono sentirsi tutti questi accenti ma non si lamentano. Devo dire che è meglio imparare il tedesco in Germania che l’arabo in Siria dove tutti ti prendono in giro se fai un errore. Certo pure qui c’è qualche razzista che ti dice “parli male, torna al tuo Paese”, ma devo dire pochi».
I suoi figli si sentono un po’ tedeschi?
«Loro non ricordano nulla della Siria e noi non ne parliamo perché sarebbe un trauma, invece gli piace dove stiamo in Germania, hanno un sacco di amici e giocano a calcio in una squadretta».
Quindi restate in Germania?
«Credo di sì, si pagano le tasse e il sistema sanitario è buono; il governo ha gestito bene anche il Covid, per esempio nel supporto agli artisti. Io ho ricevuto molto aiuto economico durante il periodo in cui non ho lavorato e non è stato così per gli artisti in Canada o in America. Ora ho un permesso di soggiorno di validità illimitata ma non è un passaporto; al posto del mio luogo di provenienza ci sono delle X, spero un giorno ci sia scritto “Kassel”».
È riuscito a portare altri lì o in un luogo sicuro?
«Ho provato con i bambini che cantavano con me e si vedono nei video ma è stato impossibile farli venire in Europa così sono riuscito a farli andare in un altro campo profughi in Siria dove cerco di spedirgli denaro ogni mese attraverso una organizzazione che li aiuta. Quel che guadagno dai concerti deve servire anche a loro che sono ancora là e combattono per la sopravvivenza».
Chi è rimasto in Siria della sua famiglia? E lei deve stare attento a quel che dice nelle interviste per paura di ritorsioni?
«Certo, perché l’80% della mia famiglia è ancora lì. Zii, cugini materni e paterni, in tutto 80 persone che non hanno la libertà di dire e fare quello che pensano. Per questo in Taxi Damasco racconto storie di chi vive in Siria facendo attenzione a non compromettere nessuno, senza dire il nome di chi me le ha raccontate, il tassista a cui ho dato nome Ahmed».
Ecco, parliamo del nuovo libro, il tassista e le sue storie. Che cosa si può dire di lui?
«Che è un mio amico. E che le sue sono storie vere, che capitano ogni giorno, non è fiction. Anche le foto sono sue, fatte col telefonino, e di un altro amico che me le ha mandate. Mi ha pregato di raccontarle perché il mondo sappia che cosa succede davvero là, al di fuori del racconto della propaganda».
Ci sono storie terribili, il chirurgo che ha perso un braccio nell’ospedale bombardato e ora può solo prescrivere ricette; l’uomo che torna dal lavoro e trova moglie e figli agonizzanti per un attacco con i gas tossici. Quanti racconti così ha raccolto ?
«Ho scritto questo libro con il giornalista tedesco Andreas Lukas e le storie orribili che abbiamo raccolto avrebbero riempito 800 pagine. Ci siamo fermati a 300 escludendo i racconti più crudi perché avrebbero depresso e basta, mentre il nostro intento è ripristinare un po’ di verità su una situazione che non è riportata in modo onesto, per esempio per quel che riguarda le armi chimiche».
Una costante del paesaggio desolato dei viaggi del tassista è la presenza silenziosa degli orfani di guerra, che spuntano come fantasmi ai bordi delle strade. Sono tanti?
«Tantissimi, piccoli e disorientati, vivono un’esistenza indegna e possono contare solo su se stessi. Alcuni si stordiscono sniffando colla, altri già tentano il suicidio».
Uno dei clienti è un funzionario a caccia di ladri di energia elettrica. Prende nota dei luoghi dei furti e promette punizioni. Poi come finisce?
«La corruzione funziona perché sanno loro per primi che questa gente non può pagare la corrente ma solo chi nasconde il loro il furto. La classe media guadagna 50 euro al mese, come fa a pagarne 25 per l’elettricità? Così rischiano e se vengono beccati pagano un funzionario corrotto che li copra».
Ci sono clienti impiegati che nel taxi litigano e il tassista dice che la vita nella città in guerra distrugge anche le famiglie. Invece di stare unite si dividono, perché?
«Dopo undici anni di confusione e guerra la classe media, come ho già detto, vive con 50 euro al mese e scarica la rabbia su chi ha vicino: mogli, fratelli, sorelle, il tassista. Tutti vogliono andarsene ma è estremamente costoso e ogni famiglia deve decidere chi far partire per primo. Ma quando questo arriva in Europa si rende conto che non è facile portare qui anche altri; perché non trova lavoro, perché non sa bene la nuova lingua eccetera. Ma la famiglia che è ancora in Siria si chiede perché dopo averlo aiutato a fuggire non viene aiutata».
C’è l’ingegnere siriano che ha fatto fortuna all’estero e si vanta del suo successo mentre si fa scarrozzare nella città devastata. Il tassista dice che sono in tanti a provare questo piacere, perché?
«Sì, vedono gli orfani di guerra sulle rive del fiume e sentono comunque il bisogno di parlare della fortuna fatta in America. Non è che non si possa parlare della propria carriera, è non avere rispetto del contesto. Sarebbe come, in Germania o in Italia, lanciare una Porsche o una Ferrari in zona 30».
Si dice che la speranza viene dai bambini. Ma la ragazzina che il tassista accompagna a musica è molto conscia della sua superiorità sociale. I bambini crescono trovando normali queste differenze abissali tra ricchezza e miseria?
«I bambini siriani che vanno a scuola con l’autista vedono i bambini poverissimi in strada e con la loro ingenuità chiedono spiegazione ai genitori, ma ricevono risposte false. Anche quella ragazzina sicuramente avrà chiesto perché altri come lei dormono per terra, e il padre le avrà risposto che è colpa dei loro genitori. Lo fa perché non può dire perché loro invece sono così ricchi. Prima della guerra c’era molta ricchezza perché i siriani sono bravi negli affari, ma in questa situazione catastrofica c’è un 85% di dirty rich, gente estremamente ricca che ha guadagnato dalla guerra e dalla corruzione».
Fra i clienti ci sono turisti stranieri che si fanno portare solo dagli alberghi di lusso all’Opera e poi raccontano che in Siria tutto funziona. Che cosa dovrebbero fare, invece?
«Per stare fuori dal gioco della propaganda dovrebbero spingersi nei quartieri distrutti e dove vive la povera gente. Qualche anno fa una delegazione dell’Afd, partito tedesco della destra populista, è andata in Siria e al ritorno ha detto che va tutto bene e i profughi possono tornare tranquillamente nel loro Paese. Ma loro sono stati solo nel centro di Damasco e hanno veicolato fake news».
Ha avuto difficoltà a far pubblicare questo libro, vero?
«In Germania sì, il mio editore mi ha detto che se non era su di me non avrebbe venduto così ho dovuto trovare un altro canale. In Italia invece sono grato a Elisabetta Sgarbi e alla casa editrice perché hanno accettato il libro subito».
Il tassista racconta di una gita al mare in tempi di pace in cui ha imparato a nuotare, e dice: “Chi immaginava che questo avrebbe salvato la vita a tanti siriani?”. È la sua storia.
«Sì, la mia e di tanti siriani che quando attraversano il mare sono grati a chi ha insegnato loro a nuotare. Ci sono molti profughi siriani morti annegati ma non con i numeri degli emigrati africani che vengono da Paesi che non hanno il mare e tanto meno le piscine. Noi un pezzo di mare lo abbiamo ed era bello come quello della Sicilia, ma ora ci scaricano di tutto e si nuota fra gli escrementi».
La situazione attuale in Siria. Il nunzio di Damasco ha detto al Papa che dopo Covid e guerra in Ucraina è uscita dai radar. La chiesa e il Papa, le ong sono le uniche realtà a ricordare le guerre dimenticate?
«È stato fantastico sentire il Papa dire di non dimenticare la Siria, ma le organizzazioni cristiane sono le uniche autorizzate a ricevere e dare aiuti mentre ce ne sono altre non religiose che raggiungono molte persone, come Molham Team che è fatta di volontari; ma non se ne sente parlare».
Anni fa lei diceva di sentirsi in colpa. Succede ancora?
«Sì, come a tutti quelli che sono in una situazione migliore di chi è rimasto là, ma questo senso di colpa lo giro in positivo come sprone a tenere concerti con cui aiutare la mia comunità, o a scrivere un libro come Taxi Damasco, per dare voce a chi soffre e non può parlare. Così mi sento meno colpevole e più efficace».
E sua moglie che cosa fa? La supporta sempre?
«Fa la pittrice freelance e vende su Internet. Non sarei dove sono senza il suo aiuto, fin dall’inizio. Suonare il piano fra le macerie era stata un’idea sua». —
TuttoLibri, La Stampa 9 luglio 2022
3 Comments
Caro Sergio,
voglio ringraziarti per avermi fatto conoscere l’intervista al pianista siriano Aeham Ahmad, una intervista che, con la profonda umanità che traspare dal protagonista, la sua mitezza, la pazienza che non è rassegnazione ma il precipitato di una grande sofferenza generatrice di forza calma, non aggressiva, non vendicativa, ci porta all’interno della guerra, delle sue ferite, del suo dolore quasi impossibile da raccontare. “Patria sono le persone, le comunità, dove si vive insieme”, ci dice Aeham. Una grande lezione di civiltà. Ancora grazie.
Grazia Valente
Il paradosso della vita sembra essere il seguente: quando non abbiamo problemi gravi da risolvere soffriamo per le scemenze, ma difronte al pericolo reagiamo con grande coraggio che non sapevamo di avere. Poche volte però vinciamo con l’aiuto determinante della fortuna.
Proprio come è successo al pianista siriano uno dei “mille che è arrivato” e che permette agli altri 999 di sperare. Serena giornata a chi legge Antonio De Matteo. H
La notizia della morte del dottore Eugenio Scalfari, fondatore e primo direttore di uno dei più grandi giornali italiani, “La Repubblica”, campeggia su tutti i mass media e non poteva essere diversamente. Era un grande giornalista, spesso anche contestato, ma rispettato ed ammirato dai lettori/trici per la sua grande professionalità e soprattutto per la sua inventiva. Tant’è che il suo giornale era spesso il primo giornale italiano nella vendite di copie. Per me leggere i suoi articoli voleva dire imparare qualcosa che mi aiutava e mi aiuta nella vita. Come tutti gli esseri umani sbagliava, ma era capace di chiedere scusa e cambiare. Con grande tristezza do’ l’addio al grande uomo ed artista ed invio le mie più sentite condoglianze ai suoi famigliari ed amici. Addio Eugenio! e che ti accolga con dolcezza la terra. Serena giornata a chi legge Antonio De Matteo Milano