La stima che ho per Guido Clemente e la lunga amicizia che mi lega ormai a lui sono state alla base della sofferenza che ho provato a leggere il suo ultimo messaggio. Ancora una volta, contrariamente a quanto da lui richiesto e a rischio di farlo arrabbiare davvero, pubblico questa sua posta perché credo sia bene, almeno tra compagni, non nascondersi nulla tentando, al contrario, di chiarire le incomprensioni e anche quelle considerazioni che dette superficialmente diventano spesso offese.
Mi ha colpito molto il discorso che lui fa sull’uso distorto della sua professione usando il termine “professore” come elemento caratteristico negativo. Mi ha colpito soprattutto per antiche esperienze personali legate proprio a questa pratica. Io vengo da una famiglia contadina: mio padre, da giovane, era bracciante come il 98% degli abitanti di Stigliano nella povera provincia di Matera che aspettavano giugno per migrare nelle Puglie a tagliare il grano o per altri lavori di fatica. Da questa situazione si poteva sfuggire solo attraverso due strade: o andando in seminario o entrando nei Carabinieri. Lui fu instradato nell’Arma e subito iniziato inviandolo in Spagna al fianco del generalissimo Franco e poi in Etiopia a trucidare popoli. Spedito poi a Firenze conobbe mia madre, figlia di contadini passati dalla mezzadria a coltivatori diretti. Mia madre aveva fatto la seconda della scuola di avviamento professionale, gli altri, al massimo, la terza elementare. Mio padre non aveva fatto neanche quella e prese la licenza di terza elementare sotto l’Arma imparando a leggere alcuni capitoli dei Promessi Sposi. Nella campagna fiorentina la cultura veniva comunque dalla Casa del Popolo e in casa nostra si leggevano a volte la Nazione, la domenica sempre l’Unità e poi il Radiocorriere. Da mia madre avevo preso l’amore per il disegno e per la lettura, grazie a questo feci le scuole elementari con grande facilità, saltando addirittura la quinta perché, essendo in una pluriclasse, avevo già esaurito il programma. Fra la sorpresa del mio ambiente feci l’esame di ammissione alle medie e passai. Fu lì che conobbi cosa significava la società divisa in classi. Immediatamente i professori, formatesi nel ventennio fascista, mi percepirono come il classico pulcino nero da espellere al più presto. Uno di loro, quello di lettere, un infame di nome Ferdinando Pagni, ebbe l’impudenza di dirlo chiaramente a mia madre: “come si fa a pensare che un figlio di contadini possa frequentare la scuola media Giosuè Carducci di Firenze?”. Con un dolore immenso fui ritirato da scuola e mandato a lavorare.
Ho fatto due anni e mezzo in una fabbrica di ceramiche dove ho conosciuto da vicino la classe operaia: la bellezza e la ferocia della classe operaia. Io avevo 12 anni e gli operai parlavano solo di “fica”. Me li sentivo padri e fratelli e spesso lo erano ma spesso erano anche spie del padrone e pronti a tradirmi per paura di perdere il proprio posto di lavoro. Fortunatamente, tramite la Camera di Commercio diretta allora dall’illuminato Giacomo Devoto (sì, lui, il linguista) ero entrato in contatto con alcuni professori socialisti, in primo luogo Giunio Gatti, un italo-francese molto vicino a Calamandrei, a Enriques Agnoletti e Codignola. Fu lui a convincere i miei genitori a rimandarmi a scuola, a farmi fare l’esame di licenza media come privatista, ad entrare all’Istituto d’Arte, diplomarmi al Liceo Artistico, a entrare all’Università (il primo in assoluto di tutta la mia famiglia) e a laurearmi in architettura a Venezia. Dopo questo alternai il lavoro in alcuni studi di architettura con quello di insegnante di educazione tecnica alle medie inferiori. Erano gli anni ’70 e mi ritrovai in mezzo ai rivoluzionari più rivoluzionari di tutti: i marxisti-leninisti linea nera, quelli in collegamento con Tirana. Naturalmente vi ero finito con l’entusiasmo di chi credeva che solo la rivoluzione socialista poteva permettere ai giovani di non soffrire le pene che avevo sofferto io per studiare e crescere ma la cosa non fu così semplice: era normale, in questo ambiente tremendo, ricercare dietro a qualunque differenziazione operativa del gruppo motivazioni ideologiche e di classe. In queste situazioni, quante volte sono stato accusato di avere atteggiamenti e pensieri “piccolo borghesi” proprio per la mia natura di professore, cioè di qualcuno che, si dava per scontato, avesse avuto una vita facile e gratificante. Bestialità innominabile. Per questo la lettera di Guido mi rattrista e mi riporta indietro nel tempo quando il settarismo falciava le menti più inquiete di noi giovani. Per questo però pubblico la sua lettera, perché la nostra adesione alla lotta riformista del PD non venga mai inquinata da questi ragionamenti. Eccola:
Guido
5 Comments
Ringrazio il professore (senza virgolette né alcuna altra accezione particolare) della sua attenzione, ma lo inviterei a leggere con più cura i MIEI scritti ed attenersi a quelli, se vuole fare polemica con me, che non sono capofila di alcunché.
Io non mi tiro indietro, essendo abituato a rispondere di quello che penso e che scrivo, ma appunto è di quello che vorrei rispondere, non di cose che non penso e che non ho mai scritto.
Il professore si potrà pure arrabbiare, ma io lo sono più di lui, se mi usa scorrettamente per una polemica generica, senza argomenti e pure imprecisa.
Buon anno a tutti, anche a lui.
Ernesto Trotta
Caro Sergio,
solo per dirti grazie; la tua onestà intellettuale ha cementato la nostra amicizia; e questa amicizia, sperimentata in una bella avventura politica molti anni fa, è l’esempio più evidente di come storie diverse, convinzioni di partenza diverse, non possano essere di ostacolo alla comprensione reciproca e al lavoro comune.
A questo punto, per chiarire ulteriormentele cose, penso sia utile presentarmi rapidamente. E’ vero, sono un professore di storia antica, con competenza specifica sulla storia romana, dal 1964, anno della laurea. Ho creduto molto nella importanza dell’insegnamento per la formazione del “cittadino”, e ci credo ancora, anche se il ruolo della scuola è oggi fortememte ridimensionato rispetto a quando ho cominciato a insegnare. Oggi molti, troppi, non credono più alla scuola come fattore decisivo nella crescita individuale e nel miglioramento della propria condizione; e non sempre per colpa loro.
Come sai bene, ho sempre coltivato anche una passione politica che non ha avuto modo di concretizzarsi se non quando, dopo Mani pulite, la “società civile” è stata chiamata a fare supplenza. Allora ci siamo impegnati,insieme, cercando di fare cose utili, magari divertendoci, e con una certa autoironia, per fortuna. Il “fuoco amico” dei DS ha accompagnato tutta la nostra esperienza, e non è stato facile mantenere la fiducia in una sinistra che non era capace di aprirsi. Allora i DS avevano ancora a Firenze un apparato considerevole, che considerava noi, e me in particolare, come gli usurpatori. Era una reazione comprensibile, anche se sbagliata e suicida nel lungo periodo, come si è visto dopo anni. Chi ha fatto poltica professionalmente, ne ha fatto una carriera, e si vede scavalcato nelle proprie aspirazioni da esterni che non hanno fatocato nelle sezioni ha buone ragioni per arrabbiarsi. E’ stato proprio Renzi ad avere intuito lo spazio che si apriva per la miopia e l’autoreferenzialità dell’apparato DS; Renzi ha fondato il suo successo sulla rottamazione, e quindi ha battutto quelli che ci avevano combattuto dall’interno. Purtroppo,l’operazione è fallita, per molte ragioni molto complesse; quando si perdono milioni di voti bisogna cercare di capire perché, e io non pretendo di avere la risposta. Ricordo questo fatto perché forse contribuisce a spiegare la mia attuale delusione; non somo mai stato persuaso da Renzi, per ragioni varie che sarebbe lungo spiegare, e oggi inutile, ma un suo successo su basi diverse da quelle cui poi è approdato avrebbe creato le condizioni migliori per una crescita complessiva, che invece il vincitore (mometaneo) non ha cercato. Ho sempre votato a sinistra, non sono mai stato organico né al PCi, né al PDS, né ai DS, né al PD, ma sono stato fedele a un ideale, a una cultura politica e civile, che mi ha indotto a superare sempre i dubbi e rimanere dentro una sinistra che ho sempre sperato riformista, libertaria, radicale nel senso più pieno della parola. Questa sinistra non c’è, o meglio c’è dispersa in mille rivoli e gruppi che si combattono invece di cercare di unirsi. Le diverse tradizioni della sinistra in Italia sono una ricchezza, e invece diventano debolezza per la mancanza di una classe dirigente all’altezza della sfida, e perché vengono sequestrate da gruppi che le usano per la loro sopravvivenza politica, e non al servizio di un fine più generale e ambizioso. La rottamazione è divenuta lotta per il potere interno al PD, le divisioni si sono accentuate perchè rottamazione ha voluto infine dire anche settarismo, chiamata alle armi continua contro tutti i nemici, che alla fine hanno vinto, ma senza poter proporre alcuna nuova prospettiva; hanno vinto, intendiamoci, perché hanno perso tutti, cioé non ha vinto il mio nemico.
La delusione oggi è profonda e forse non sanabile facilmente come in passato, perché non si vede una via percorribile per una nuova stagione.
Quando rifletto sulla situazione, e cerco di fare analisi, non posso che riferirmi alla mia formazione di storico, all’abitudine mentale maturata in decenni di lavoro di guardare al lungo periodo, alle cause profonde e mai scontate, e cercare di comprendere la società di oggi con gli strumenti con i quali ho cercato di capire le società antiche e lo svolgimento della storia. Considero questo un privilegio, perché la mia esperienza profesisonale mi insegna a dubitare e a cercare risposte non aprioristiche o fideistiche.
Poi c’è il senso della insufficienza personale, ma questi sono affari miei. La tradizione politica migliore della sinistra si è fondata sulla cultura, sulla capacità di elaborare e trasmettere valori. Non perdiamo questo carattere, difendiamolo contro ogni intolleranza che nasce anche dal bisogno di certezze. Certezze che non ha più neanche la chiesa, che si mette in discussione continuamente con questo papa. Possibile che gli unici che non sanno più discutere, e che non accettano di essere messi in discussione, siano i dirigenti del PD, e i loro sostenitori trasformatisi in tifoseria?
Scusa questa lunga email, ma ho pensato di doverlo a te e alla tua scelta di metterti sempre in discussione.
Caro professore,
mi permetto, pur non richiesto, di inviarLe un invito/suggerimento, anche a testimonianza di una volontà di dialogo e discussione che a me non è mai mancata (e Sergio lo può confermare).
Provi a dare un’occhiata, con l’attenzione e l’esperienza che Le sono congeniali, al documento congressuale di Roberto Giachetti ed Anna Ascani.
Sono certo che vi troverà molti spunti di riflessione e, mi auguro, di condivisione.
In ogni caso, esso certifica l’ampiezza dello spettro di argomenti, punti di vista, proiezioni ed elementi progettuali, presente nel dibattito congressuale del PD, aldilà delle semplificazioni mediatiche (e non solo) circa la “derenzizzazione” (l’orrendo neologismo non è mio!) del Partito.
Quelli come me rimarranno attaccati fino al limite del possibile all’idea originaria e fondativa di un Partito nato per governare, per riformare nel profondo e far avanzare la società italiana, sempre più integrata nell’Unione Europea, nel nuovo millennio.
Ritengo ancora oggi la vocazione maggioritaria un’idea sana per un Partito di governo, anche se la sua declinazione va adattata alle mutate condizioni politiche.
Non sappiamo cosa ci riservi il futuro, ma sappiamo che esso si costruisce solo con la buona politica, senza nostalgie, senza preconcetti, ma solo con un forte bagaglio di principi e di ideali che arrivano da lontano, sono costati dolore e morti in quantità, e costituiscono tuttora l’unica guida affidabile verso il progresso.
Spero che vorrà leggere queste poche righe e che anche per tramite di esse sia possibile inaugurare una nuova stagione di dibattito, basato sulle nostre convinzione reali e non su rappresentazioni sommarie.
Le rinnovo i migliori auguri di buon anno: ne abbiamo tutti un grande bisogno.
Ernesto Trotta
Torino
Gentile sig. trotta,
la ringrazio delle sue parole; da parte mia non vi è alcuna preclusione, mi sono permesso di riassumere la mia vicenda personale proprio nella speranza di farmi capire. Leggerò il documento, che non conosco. So chevi sono idee che circolano nel PD e fuori,meritevoli di attenzione. Purtroppo però non riescono ad arrivare ad un pubblico più ampio acollocarsi al centro dl dibattito politico, comemeriterebbero. I sondaggi ci diconnnche irca il7% degi italiabni non si interessa al dibattito congressuale. D qusta crisi,ha ragion, occorre uscire; solo che io non so davvero come, e mi consolo della mi impotenza e scettiscismo, che mi fanno stare male, scrivendo ul blog.
Ricambio gli auguri
Cordiali saluti
Guido Clemente
Il 7% mi sembrano pochi, c’è un errore?