BUONGIORNO
Cartoline da Roma
«Barbiere, manicure, pedicure, tolette, bagno romano, massaggi»: la scritta sulla facciata déco della Casa del Passeggero ha l’ironia sfrontata, scanzonata di queste parti. Si arrivava a Roma, da lunghi viaggi magari notturni, spossanti, ci si ripuliva lì, ci si rendeva presentabili alla città dei cento campanili e dei palazzi di governo, la città del Santo Padre. La Casa del Pellegrino, fra la Stazione Termini e il Teatro dell’Opera, è chiusa da decenni. Dev’essere cascato qualcosa qualche tempo fa: un pezzo di cornicione o di intonaco, perché è stata parzialmente transennata, e le transenne misurano gli anni con la ruggine, sono le pareti precarie di un rifugio segnalato dal solito cumulo di coperte, vestiti, stracci, cartoni di vino, pacchetti di cracker, un toscano smangiucchiato, un libro di Puskin. Roma ha di buono che si riscatta con naturalezza, con un colpo di tacco: un libro di Puskin. La Casa del Passeggero ingloba uno dei quattro torrioni che delimitavano le Terme di Diocleziano, fu un granaio, un parcheggio, poi un ristorante e, a proposito di ristoranti, lì attorno è tutto un ristorante Nerone, un albergo Washington, cioè un evocativo portale per turisti, ingresso al parco giochi, e a sera inoltrata si saranno accumulati cartoni, sacchi, bidoni, le vestigia di un incessante saziarsi, di un andirivieni, cui parteciperanno gabbiani e topi: sventreranno, sparpaglieranno, e le macerie della sofferenza, del divertimento, degli uomini e degli animali si mischieranno, copriranno tutto, marciapiede, strade, aiuole, saranno il vestito di Roma vestita a festa.
L’altro torrione superstite è poche centinaia di metri più a nord, a piazza San Bernardo. Oggi è la chiesa di San Bernardo alle Terme, detta la chiesa senza finestre: prende la luce dall’oculo centrale della cupola. Un piccolo Pantheon, un gioiellino e se questa fosse una cartolina da Roma potremmo chiuderla qui: il sacro e il profano, l’anima e la pancia, lo sfarzo e la suburra. Ma ricordo di aver visto anni fa un documentario su come sarebbe diventata New York senza uomini: in pochi mesi sarebbe stata ricoperta di vegetazione, riconquistata dalle bestie, scossa da esplosioni e autocombustioni, cioè esattamente come Roma oggi, soltanto che a Roma gli uomini ci sono ancora. Partecipano al paesaggio. Il loro colore preferito è l’arancione delle reti di plastica da cantiere. Sono ovunque, circondano un tombino, una buca, ostruiscono un passaggio, stanno precariamente in piedi allacciate a ferri pendenti, ai ponteggi dei bonus facciate, un buon botanico potrebbe calcolarne l’età dall’altezza delle erbacce salite fra i buchi, io comincio a saperla calcolare dalla tonalità dell’arancione: in tre anni diventa bianco, ormai il colore di una rete da cantiere messa a protezione di un marciapiede vicino al Viminale nel novembre del 2019, quando una giornata eccezionalmente ventosa fece cadere alberi e pali e nel nostro caso un telaio in ferro per ospitare i cartelloni pubblicitari. Da allora la rete impallidendo tiene compagnia al nostro destino mortale.
Però non vorrei mollare così le erbacce. Intanto mi spiace per il dispregiativo, bisognerebbe ammirarle per la resilienza (a loro il termine si addice), sebbene a Roma abbiano vita più facile. A Roma ne crescono oltre mille e trecento specie diverse, pimpinella, acetosella, miglio, falsa rucola, cappero, tarassaco, finocchio, piante velenose, piante commestibili, piante medicinali, nessuno si cura di tagliarle, spuntano dal cemento e fanno ciò che vogliono, salgono a un metro, a due metri, ne ho viste circondare un’automobile senza targa sino alla maniglia delle portiere, ne ho viste ricoprire e ingoiarsi una cabina telefonica, ne ho viste crescere fino a ombreggiare scalinate – non sto esagerando, sono un camminatore e un compulsatore frenetico di Roma fa schifo, profilo Facebook che è la biografia psichedelica della città. Le abbiamo viste avvolgere le scale mobili del Galoppatoio di Villa Borghese, tappezzare gli scavi archeologici di Torre Argentina, dove venne ammazzato Giulio Cesare, le abbiamo viste salire fino a tre metri, gialle come paglia, rinsecchite al sole e prendere fuoco mattina e sera di questa torrida estate.
Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, per gli incendi ha dato la colpa alla mafia. Parlava degli incendi di qualche giorno fa a Centocelle, Roma vista dall’alto sembrava ancora New York, ma l’11 settembre. Un fungo di fumo nero. C’è la mano dell’uomo, stiamo toccando qualche losco interesse, diamo fastidio: l’intera giunta era riparata dietro al complotto e figuriamoci, abbiamo avuto il complotto dei frigoriferi, andrà benissimo anche quello della mafia. Del resto la procura non lo esclude ma, aggiunge, se gli incendi hanno preso tale intensità ed estensione è per le erbacce essiccate, praterie di erbacce essiccate dentro la città, nei parchi, lungo le strade. Il 9 luglio, giorno dei grandi incendi di Centocelle, i vigili del fuoco hanno compiuto centocinquanta interventi, in tutta la città, per incendi piccoli, medi, grandi.
Il giorno dopo però Centocelle sembrava una produzione Netflix. «Pare che c’è passato Vecna di Stranger Things», diceva uno. Nel parco di Centocelle c’è una trentina di autodemolitori, buona parte abusivi. Ci sono tonnellate di rottami interrati, liquami, veleni, batterie, pneumatici e ancora più sotto strati di vecchie discariche perché la spazzatura non è mica una faccenda recente (caspita, sono arrivato fin qui e non avevo ancora scritto: spazzatura). In Italia, si sa, c’è da trattare anche con gli abusivi. La trattativa in questione è stata aperta nel 1997 e venticinque anni dopo è ancora in corso, sebbene l’espressione “in corso” suoni temeraria. Nel parco abbrustolito spuntavano scocche, lunotti, portelloni, da sottoterra salivano fumi, vapori, fiammate tossiche prodotte da autocombustione, e gli autodemolitori si sono visti abbandonati, perduti, hanno trascinato carcasse di auto in strada a bloccare il traffico e quasi i cittadini stavano per risolverla facendo andare le mani. A Roma bloccare il traffico è diventata una moda. Da giorni se ne occupano soprattutto i tassisti. A loro basta fermarsi e già il traffico si blocca da sé, ma quando la questione si fa seria arrivano in piazza Venezia e sotto il Campidoglio, e non passa più nessuno. Un gigantesco tappo. C’è sempre una buona ragione per bloccare il traffico: i giovani ambientalisti bloccano il Grande raccordo anulare una mattina sì e una mattina no. Ora hanno smesso, e chissà se torneranno. Ma a giugno si davano appuntamento alle 7.30 e si stendevano sulla carreggiata per sensibilizzare gli automobilisti sull’apocalisse del cambiamento climatico. Potete immaginare la sensibilità di uno che alle 7.30 di mattina sta andando a lavorare su una delle strade più intasate dell’emisfero boreale, e una volta che la sta per passare liscia si trova davanti questi ragazzotti con gli striscioni e le barbette incolte.
Lo straordinario è che tutti sapevano tutto: su Whatsapp – non so come abbiano avuto il mio numero – per un paio di settimane ho ricevuto i loro inviti a unirmi alla verde protesta. Sapevo dove, sapevo quando, sapevo io e non sapevano i vigili urbani o la polizia. È l’estro quotidiano di Roma, sennò non so come spiegarmelo. Roma è sempre uno stupore. Ho scoperto per esempio che è la capitale europea della voragine. Non della buca, della voragine. Dal primo gennaio 2010 al 30 giugno 2021, a Roma si sono aperte più voragini che in qualsiasi altra città del continente: mille e ottantotto, circa cento all’anno, quasi una ogni tre giorni. Di conseguenza non fanno più notizia. Magari girano un paio di foto sui social: la voragine e dento un’auto, la voragine e dentro un camion, non molte settimane fa si aperta una voragine e si è inghiottita un’asfaltatrice, ed è difficile immaginare qualcosa di altrettanto satirico: un’asfaltatrice che finisce sotto l’asfalto. Però anche le voragini hanno un’utilità. Vengono ottime come discariche, ottime perché non in superficie come le altre, le migliaia di discariche sorte estemporanee soprattutto negli ultimi mesi, in centro, in periferia, ma discariche interrate. Ed eccoci alla monnezza, e sono un po’ in imbarazzo.
Non vorrei annoiarvi con le solite storie della monnezza, le sapete a memoria. L’inceneritore, i cassonetti, il sindaco che dice entro Natale la città sarà pulita e a Natale l’assessore che dice non fate troppi pacchetti che poi non sappiamo come pulire, e poi l’assenteismo degli spazzini, gli spazzini che guariscono miracolosamente alla minaccia di visita fiscale, eccetera. Siccome in questa città si butta via tutto ma non si butta via niente, potrei dire che la monnezza ha un ruolo negli studi antropologici. Camminando, mi faccio un’idea di come va la città. Per esempio, ho realizzato che finalmente aveva aperto Starbucks perché a terra si cominciavano a vederne i bicchierini, sebbene non capisca come un bicchierino possa arrivare dal centro commerciale di Castel Romano, dove ha aperto Starbucks, al centro città. L’illusoria liberazione dal covid si deduce dalle mascherine, che al suolo hanno lasciato spazio alle bottiglie di birra, il simbolo del lockdown sostituito dal simbolo della ritrovata socialità. Le coppette dei gelati e le mappe di carta (ma perché non usano Google maps sul cellulare?) segnalano il ritorno dei turisti. Li avevamo lasciati al ristorante Nerone e all’albergo Washington ma sono sciamati ovunque, hanno sempre in mano qualcosa, cartoni di pizze, bottiglie di tè freddo, coni con diciotto palline di gelato, e siccome sono rapidi ad adeguarsi agli usi e costumi indigeni, tutto poi finisce a terra, ai piedi di un cestino ricolmo o in una discarica improvvisata.
Forse un giorno, quando Roma sarà stata completamente ricoperta di rifiuti, gli archeologi scaveranno e diranno, ecco le mascherine, siamo nell’era pandemica, o magari ecco i frigoriferi, siamo nell’era di Virginia Raggi. Come noi oggi, che la siccità abbassa il livello del Tevere, e abbiamo visto riemergere i resti del Ponte Neroniano, ma anche barche affondate, lavatrici, biciclette, specialmente le bici dello sharing e i monopattini. Tutto dentro il fiume. Se volessimo parlare soltanto di spazzatura, questo articolo non basterebbe. Del sindaco Gualtieri c’è poco da dire, non se ne sa nulla, si è ridestato per dire colpa della mafia, prima lo si vedeva all’inaugurazione di un Lungotevere Federico Fellini perché la toponomastica è l’ultimo rifugio dei sindaci di Roma, per continuare a sentirsi dalla parte bella della storia: qui abbiamo pure una piazza Stanlio e Ollio. Lo si vedeva all’inaugurazione del Fondo Camilleri, dell’area fitness nel parco della Caffarella; di questo luna park formicolante, fetido, surreale, niente da fare e nemmeno niente da dire, tutto ok. Raggi è già dimenticata, sovrastata, quasi ne si rimpiange il genio alieno, quando voleva riciclare la spazzatura per farne materiale per scultori; aiutava il buonumore, e invece col Pd e Gualtieri si torna al plumbeo barboso e altero: la mafia, la magistratura, i poteri forti.
Non ho finito: il mio taccuino trabocca di appunti inutilizzati. Ci sarebbe tutta una mistica del monopattino da approfondire, una saga alla George Lucas sul rilascio della carta d’identità (ho risolto così: non ho preso la carta d’identità, tanto serve a niente), e poi i mezzi pubblici, naturalmente. La metropolitana! Dovrebbero scriverci sopra “no covid, no covid, ok covid”: sempre meno treni, sempre più affollati. Gira una foto stupenda dalla app dell’Atac: Cinecittà, stazione non accessibile; Subaugusta, stazione non accessibile; Giulio Agricola, stazione non accessibile; Arco di Travertino, stazione non accessibile; Colli Albani, stazione non accessibile; Furio Camillo, stazione non accessibile; Ponte Lungo, stazione non accessibile… Ma preferisco concludere con la figura più mitologica di questo nostro tempo: il cinghiale. Dico mitologica perché di cinghiali non ce ne sono solo a Roma, dappertutto, ma qui è diventato leggenda, è stato idealizzato, elevato a simbolo di giorni allucinati, ma poi ci vuole talmente poco, un colpo di tacco, quello di Franco, il romano raccontato sul Messaggero da Pietro Piovani. Franco va a caccia di cinghiali, che prolificano soprattutto nel parco di Veio: zona protetta, naturalmente. Franco va oltre l’Aurelia, dove si può cacciare, ma ci va di nascosto dagli animalisti. Dice che l’unica soluzione è sparare, perché manco più i lupi se la vedono coi cinghiali: branchi troppo numerosi. Quando ne prende uno chiama l’Asl, fa fare le analisi e se è tutto ok si porta il cinghiale a casa per ricavarne braciole, salami, salsicce. E che volete? Mangiamoci sopra. Quando arriva sera, e l’oscurità copre il lercio, Roma torna la struggente meraviglia. Ci si siede ai tavoli all’aperto, si ordina una gricia, si beve un bicchiere di vino e si respira. E il cumulo di monnezza venti metri più in là, pace all’anima sua e pace all’anima nostra. —
Mattia Feltri, La Stampa, 14 luglio 2022
2 Comments
” Parole tante e fatti pochi” è Questo è il motto degli italiani e Mattia Feltri giovane giornalista vi si adegua allegramente con l’articolo sopra postato da Sergio. Per leggerlo ci vuole una pazienza è un’attenzione molto ma molto elevata. Spesso ti devi tirare su qualcosa che ti pensola dalla cintola in giù e costringere gli occhi a fissare il lungo barboso scritto nella speranza di trovare una qualche proposta per pulire Roma, Ma alla fine una splendida sentenza inutile, anzi controproducente.
Sentite: ” siamo Tutti colpevoli e ci assolviamo continuando a peccare ed adorando le nostre immondizie”. Forse se questo signore, certamente un grande intellettuale, avesse proposto un gruppo di volontari per strappare qualche pianta di Erba sui marciapiedi di Roma, sarebbe stato un sollievo per noi lettori e meno sudore per lui. Peccato, Ma gli intellettuale non si occupano di cose concrete e popolari e meno che meno accettano di rispondere alle domande di noi popolani: sono un élite superiore ed intoccabile da secoli.
Serena giornata e buona domenica a chi legge, compreso gli intellettuali. Antonio De Matteo Milano
Correzione:” Parole tante e fatti pochi “. Questo è il motto degli italiani… Una pazienza ed un’attenzione…