Sabato scorso a Roma si è svolto un incontro della sinistra Dem organizzato da Gianni Cuperlo. Sono intervenuti, tra gli altri, l’attuale reggente del partito Martina e i ministri Orlando e Calenda. Con vero piacere vi inoltro la relazione tenuta da Gianni in questa occasione.
La invio a tutti voi, compreso quindi i tantissimi della mia mailing list che non si riconoscono nell’azione politica del PD e che in molti casi ne sono addirittura avversari. La mando perché considero questo documento talmente importante da un punto di vista metodologico, filosofico e politico, da diventare utile per chiunque, indipendentemente dalle proprie posizioni politiche e culturali.
Mi affascina l’analisi che Gianni fa non solo della grande sconfitta della sinistra in questa ultima tornata elettorale ma i perché che suggerisce, le lontane origini che individua e, soprattutto, le intuizioni sul come continuare, sul come muoversi e sulla necessità di ripartire necessariamente dalla comprensione del mondo che ci circonda e che troppo a lungo abbiamo perso di vista.
Con rispetto e amicizia insisto perché la leggiate e la soppesiate nel vostro cuore e nel vostro animo nell’interesse di una società sempre più civile, tollerante e solidale.
Sergio
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Forse è scontato, non lo so. Ma parto dalla data. Oggi è il 17 marzo. Ed è sabato. Quarant’anni fa il 17 marzo cadeva di venerdì e l’Italia si svegliava dopo il giorno più tragico nella storia della Repubblica. Era un tempo quello dove l’informazione custodiva la sua sobrietà. I titoli a piena pagina non erano frequenti. Poteva essere l’attentato a Kennedy. Lo sbarco sulla luna. Ma quel giorno – quel 17 marzo e per diversi giorni – uscirono tutti così: a nove colonne. D’altra parte nessuno aveva mai concepito una cosa simile. E chi l’aveva immaginata, in forma di satira, non aveva certo creduto potesse accadere. Era stato Dario Fo tre anni prima a portare sulla scena una pièce. L’aveva titolata “Il Fanfani rapito”. Amintore Fanfani: con Andreotti l’altro obiettivo che le BR avevano pedinato a lungo salvo alla fine decidere per il presidente della DC. Il partito che, dopo il fascismo, aveva incarnato lo Stato. E così rapirono Moro falciandone la scorta. In quel giorno, in quel preciso giorno – però questo lo avremmo capito solo dopo – è cambiata la storia del Paese. Ci sarebbe stata una coda, non breve. Ma quell’omicidio archiviò molte cose. Certamente l’adolescenza di tanti, il che rientra nei ricordi lontani. Ma anche il disegno di Berlinguer, dei comunisti. L’idea di condurre a un approdo la nostra democrazia. Con una alternanza nella guida del governo sino a lì resa impossibile. Anche quello scopo cadeva sotto i colpi esplosi a Via Fani. E sarebbe finito nel bagagliaio della Renault assieme all’uomo – il politico – che più di chiunque altro, nel suo campo, di quella operazione aveva intuito la grandezza e forse l’impotenza. Tutto in un solo giorno. Sono pochi gli eventi dotati di tanta potenza. Quando succede cambiano la vita di una città. Come a Bologna il 2 agosto. O prima, a Milano, il 12 dicembre. Possono scuotere il sentimento di una nazione, come in America la mattina delle Torri. A volte segnano la sorte una generazione. Tipo mezzo secolo fa. In quel pugno di mesi tra il “maggio”, le rivolte dell’autunno fino al rogo di un ragazzo nel cuore di Praga. Quelli sono gli istanti – i balzi – dove il fiume cambia direzione. E quando accade la sola cosa che non puoi fare è voltarti dall’altra parte. Aggrapparti all’istante di prima pensando che, tutto sommato, il racconto possa ripartire da lì.
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Ecco, io non so dire se il 4 marzo segnerà una svolta così radicale. Il fatto in sé – la dimensione della sconfitta, che per la sinistra non ha eguali – sembra dire di Sì. Che un ciclo si è chiuso davvero. Con due forze – Lega, 5 Stelle – lontane dalle culture che abbiamo conosciuto. Forze che non sono liberali nella matrice classica. Non sono parenti della famiglia riformista per come si è formata in Europa in una settantina d’anni. Non sono figlie del cattolicesimo sociale. Anzi, con quello sventolio di rosario e vangelo sotto il Duomo milanese quella tradizione, almeno la Lega, ha scelto di calpestare. Eppure hanno vinto. Senza i numeri per dar vita a un governo. Ma hanno vinto. Cavalcando la paura che cerca riparo. Però hanno vinto. Definirli populisti, incompetenti, venati di razzismo conforta gli animi. Ma non fa capire l’evento. E le sue conseguenze per noi. Perché poi ci siamo noi. La sinistra. Il partito più grande esce ridimensionato in ogni senso. Non è solo la percentuale. In sé brutale. “Non restituiremo il partito a quelli del 25 per cento”. Al tempo sembrava uno scongiuro. Letto adesso era una speranza. Siamo precipitati molto più giù. Poco sopra il 18. Salvini incalza da vicino. E in questo la fotografia del voto è spietata. A partire dal vero paradosso che è questo. La sinistra, sorta per contrastare le diseguaglianze più indecenti regge, o vince, dove quelle distanze si fanno più profonde. Nei quartieri dove si sta bene. Dove il dramma dei migranti al massimo ha il volto del ragazzo che chiede una moneta fuori dal bar. Niente campi di accoglienza in quelle strade. Ma vai in periferia e la realtà si rovescia. Lo straniero siamo noi. Sconosciuti se va bene. Più spesso distanti da bisogni offesi. Possiamo anche usare parole giuste – lavoro, dignità – ma conta chi le dice e come lo fa. Conta la reputazione. E la nostra da tempo non è in cima alle speranze di quel pezzo di mondo. “Bisogna raccontare l’Italia che funziona”. Ma la storia non è fatta solo di vincenti. E’ vero che i vincenti quasi sempre la scrivono la storia. Ma chi sta peggio la vive. Si è come spenta la fiducia collettiva che ti fa sentire sulla stessa barca – che tu stia in alto o meno – nel nome di un contratto che coinvolge tutti. Il risultato è che la società conta meno delle sue parti. E così il riflesso torna a essere la difesa di identità chiuse. Di nazione. Di classe. Persino di razza. Una società a strati. Dove la povertà deve scomparire anche dalla vista. Lontana dagli occhi, lontana dal cuore. Al massimo sopravvive la concessione della carità. Come in quel verso sulla nave più famosa: “che quando piove si può star dentro, ma col bel tempo veniamo fuori”. In fondo è un’amnesia della storia. Ci si dimentica che per primo Adam Smith (la Teoria dei sentimenti morali) spiegò perché il capitalismo funziona meglio nelle società dove c’è un grado elevato di fiducia.
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E ancora. Dovremmo tornare su quella cartina gialla e blu che spacca l’Italia come non accadeva dalla scelta tra Monarchia e Repubblica. Parafrasando Gaber: due Nazioni in un corpo solo. Ha ragione Maurizio: non si è compreso che crescita e diseguaglianze possono procedere di pari passo. Il che in buona misura spiega la dinamica del consenso. I più giovani attratti verso il Movimento che dice di scardinare partiti, privilegi, sindacati. E a sinistra orfani in una diaspora della quale non si ha memoria. Da questo punto di vista, al netto delle cose buone fatte, è stato un voto anche contro il governo. Nel Mezzogiorno in forme evidenti. Al Nord ha prevalso l’umore della destra: contro lo Stato, meno tasse, via gli immigrati. Al Sud si è espressa una domanda di tutela. Persino di riscatto, perché così molti hanno inteso il reddito di cittadinanza. Un simbolo, fosse pure un’illusione, di fronte a scelte vissute come penalizzanti. Ma quella chiazza gialla è fatta anche da intellettuali, da professionisti. Da un pezzo sano della società. Quella parte nelle urne ha bocciato una classe dirigente che ha visto troppo indistinta tra noi e gli altri. C’era un tizio dal cognome glorioso che in Calabria correva per noi alla Camera, ma siccome ha perso nel collegio ieri è subentrato alla Regione sotto le insegne di Forza Italia. Però ha detto che poiché i voti che ha preso erano suoi, starà nel centrosinistra. Come non capire che una storia simile ti allontana dalla brava gente? Dice un proverbio francese che “il cattivo gusto porta al crimine”. Io questo non lo so. Ma di certo il cattivo gusto può uccidere la buona politica. Perché te la puoi anche pigliare con le scivolate sul congiuntivo. Ma se abbassi l’asticella della moralità, non ti basta entrare all’Accademia della Crusca.
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Il Pd ha vissuto la sua crepa. Con un pezzo di militanti, e personalità, che un anno fa ha sbattuto la porta giudicando lo spettacolo pessimo e la cabina del comandante blindata dall’interno. Dissi allora che sbagliavano. Anche di più lo penso adesso. La sconfitta rovinosa riguarda anche loro. Loro e tutti noi. Va persino al di là dei numeri perché investe ciò che la sinistra non è stata in grado di fare. Di essere. Adesso al centro c’è l’immediato. La legislatura che parte a giorni. Il governo che verrà. Se verrà. Ma se ci siamo disturbati a vicenda questa mattina non è solo per quello. Credo sia anche per altro. Perché servono davvero coraggio e passione. Anche solo per capire quello che il 4 marzo ha voluto dire. Penso che con meno di questo non ne usciremo. Banalizzando la portata dell’onda, non ne usciremo. Scavando una trincea dove stare in attesa che il fallimento travolga la destra o Di Maio, non ne usciremo. E tanto meno ne usciremo denigrando chi ha penetrato quel muro di solitudini meglio di noi. La verità è che da almeno vent’anni – con una accelerazione negli ultimi dieci – dal basso, dai gradini ultimi della scala e mano mano a salire, è venuta una richiesta – al principio abbozzata, poi disperata – di protezione. Prima ancora che una domanda di giustizia, di opportunità, di riconoscimento dei meriti, quella era una preghiera di aiuto. E più scendevi quei gradini più la preghiera si faceva supplica. In un esplodere di distanze – sociali, culturali, di reddito – che l’Occidente non conosceva da decenni. Non vi sembri una bestialità, ma guardate che non è una cosa molto diversa dai migranti che siamo andati a salvare in mezzo al mare. A quei corpi bagnati, stremati, è stato gettato un salvagente. Non un manuale su come gestire la bomba demografica. E neanche un modulo per la richiesta d’asilo. No. La prima cosa che serviva a loro era una fune a cui aggrapparsi per non annegare. Quando ventimila giovani sfidano il Buran per riempire un capannone alla ricerca di un posto nel pubblico, ti stanno dicendo nella maniera più elementare “lanciatemi una fune”. “Ne ho un bisogno disperato perché devo sopravvivere”. Dicono questo. Sanno che il mito della “società del merito” ha lasciato posto alla meritocrazia per eredità. Sanno che dove prima c’era movimento ora c’è la paralisi. Poi attenzione, perché non è vero che in questo tempo non ce ne siamo occupati. Lo sa benissimo Carlo che crisi industriali ne ha gestito a decine. E con quegli operai sei andato a parlare faccia a faccia. Immagino che lì la sofferenza la vedi. La leggi negli sguardi. Noi ce ne siamo occupati provando a investire di più dove si era investito meno. Tipo quel reddito di inserimento che, per me, resta una medaglia fosse solo perché lo si faceva per la prima volta. Servivano sette miliardi per aiutare tutte le famiglie in povertà. Ne abbiamo aiutato un terzo. Per gli altri è come se quella legge non l’avessimo fatta. Ma se due miliardi li avessimo presi dall’Imu sulla casa dei benestanti, ne avremmo aiutato più della metà. Avremmo aiutato loro, ma avremmo aiutato noi. Adesso però la campagna elettorale è finita. Se dico questo è solo per non cadere nella banalità degli schemi. Col bene tutto di là. Il male tutto di qua. Non funziona così. E però te lo devi chiedere perché quelle paure non hanno trovato riparo da questa parte. Credo che una delle ragioni sia nel modo che il Pd ha avuto di leggere la realtà. Quel modo è divenuto il suo, il nostro, messaggio. E in assenza di qualcosa di più solido si è convertito in una identità. Se per vent’anni continui a dire che i problemi ci sono e li chiami per nome – precarietà, pensioni lontane, aumento di costi se ti devi curare – ma dopo che i nodi li hai visti ripeti che tutto è inevitabile perché la storia piega così e indietro non si torna, ecco se fai così poi non ti stupire quando chi sta peggio una speranza la cerca altrove. Vale per noi, e non solo. Certo che adesso i dazi di Trump invertono il corso della storia. Ma se gli operai americani plaudono è anche perché Clinton salutò la Cina nel Wto spiegando che “la globalizzazione era l’equivalente di una forza della natura, come il vento o l’acqua”. Puoi raccontare il mondo come ti pare. Ma non puoi raccontare alle persone la loro vita diversamente da quella che è. Perché se lo fa Checco Zalone ridono. Se lo fa la sinistra si incazzano.
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Allora c’è stato qualcosa di sbagliato nelle nostre scelte? Penso di sì. Qualcuno tra noi si è alzato, lo ha detto. Ma il voto ci interroga perché non è stata una singola riforma venuta male a dettare il resto. Avrà pesato, certo. Ma è il racconto del mondo per come cambiava sotto gli occhi che non ha retto l’urto. E ha travolto milioni di biografie senza che i riflettori illuminassero quelle vite. Forgotten, è stato detto. Dimenticati. Mentre la destra, come i surfisti, cavalcava l’onda con ricette assurde e promesse miserabili. Però è bastato perché di quel malessere reclutassero l’anima. E l’anima conta. Ce lo siamo detti un mare di volte. Avete presente no, il famoso legame sentimentale con chi vuoi emancipare, promuovere. Anche su questo piano ci sono modi diversi di leggere il voto. Uno è rivendicare che stavi nel giusto. Che comunque avevi capito. Quindi il torto è stato dire la verità a un paese che quella verità non voleva sentirsi dire. Questo modo di giudicare le sconfitte non è nuovo. Ha una tradizione antica. Il capo di Stato maggiore dell’Italia fino a Caporetto, è letto da Gramsci come un “burocrate della strategia”. Uno che sacrifica la realtà a uno schema fondato sulla logica – la sua – e quando la realtà si impone rifiuta di riconoscerla. Gramsci usò l’immagine per battezzare una formula, il “cadornismo politico” e con quella avrebbe contestato la distanza tra chi governa e chi è governato. Ma un concetto simile lo aveva espresso già Marx parlando degli “alchimisti della rivoluzione”. E in fondo non è granché diversa la parabola di Brecht sul popolo che ha sbagliato a votare: e dunque si cambi il popolo. Io penso che questa strada non ci porta da nessuna parte. Così come non aiuta rovesciare il peso della sconfitta sulle spalle di uno. Non perché l’ultima stagione non abbia visto responsabilità, anche gravi. Ma per la ragione che la sinistra non perde in un paese solo. Fatica in tutto l’Occidente. Cioè in quella parte del mondo dove nell’ultimo secolo, o giù di lì, a vincere sono state la democrazia politica e l’economia liberale. Dove si è fondata la più formidabile architettura sociale della storia. Quel sistema di welfare che ha sottratto milioni di persone all’incubo della povertà, della malattia, dell’ignoranza. Dovremmo ragionarci a lungo, ma ve lo racconto così. Un paio di mesi fa è uscita una nuova edizione degli scritti politici di Thomas Mann. Mann aveva una concezione aristocratica della democrazia. E il pilastro di quella visione era la grande borghesia. A modo suo anche la sinistra ha coltivato una concezione aristocratica della democrazia. Dove il pilastro a lungo è stata la classe operaia. Gli operai: ritenuti i migliori, non per fonte morale. Per la loro funzione storica. Ma se la crisi peggiore della nostra vita colpisce quei due pilastri – la borghesia che noi chiamiamo classe media, e gli operai (delocalizzati, sottopagati, minacciati dalla tecnica) – insomma se quei due pilastri si indeboliscono come è avvenuto, noi siamo certi che le democrazie e i loro sistemi politici possano reggere l’urto? Se non ti poni questa domanda non capisci perché la sinistra soffre di più dove, in teoria, la democrazia dovrebbe essere più solida perché più antica. E non capisci cosa ha reso possibile l’avvento di Trump. O la vittoria di destre illiberali fino dentro il cuore dell’Europa. Non capisci neppure l’onda che ci è piovuta addosso il 4 marzo. E che solo un giudizio a pelo d’acqua può liquidare come un estremismo senza radici.
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Il punto è che la sinistra fatica perché a non essere più in sintonia con la giornata vissuta da milioni di persone sono le categorie che hanno sostenuto il nostro consenso e le nostre ragioni. Altro che puntarsi il dito gli uni contro gli altri. Altro che raccontarci che non ci hanno capito. Forse ci hanno capito, ma non erano d’accordo. E allora il capitolo da aprire è legato alla forza che quelle democrazie avranno di collocare in un mondo nuovo principi che abbiamo ereditato da un altro tempo. Abbiamo cercato di dirlo anche prima del voto. Cosa accade quando il profitto si separa dalla proprietà? Quando i marchi, le aziende, che già ora condizionano le nostre vite – il modo di affittare una vettura, prenotare una stanza, acquistare un prodotto – non appartengono più all’economia per come l’abbiamo conosciuta? Cosa succede quando i diritti di chi lavora e di chi consuma tornano a scontrarsi perché le tutele del lavoratore tolgono una quota di risparmio al consumatore? Chi è dalla parte giusta – non ho detto vincente, ma giusta – della Storia? Il dipendente di Amazon che corre tra gli scaffali e col codice a barre si compera la giornata o il precario che usando quella rete di vendita riesce a quadrare i conti del mese? Mary Joy ha 24 anni, è americana. Qualche anno fa era incinta e faceva l’autista per Uber. Il brand ne ha fatto un’eroina perché a contrazioni avviate Mary Joy ha preso una corsa lasciando il cliente lungo la strada che la portava all’ospedale. E’ finito tutto bene, mamma e bambino sani. Ma non è una storia eccitante. Come scrive Riccardo Staglianò è una aberrazione. E’ una storia che dovrebbe portare migliaia di colleghe e colleghi a protestare. Perché di norma quando neghi un lavoro decente o gli togli la dignità, la gente prima o dopo scende in strada. Ma quando il bisogno diventa più forte della dignità, tocca alla sinistra riscoprire la potenza di parole e azioni. Sei anni sono bastati perché Uber passasse dallo zero tondo a essere valutata 70 miliardi di dollari. La start up più ricca della storia. Come ci sono riusciti? Sfruttando il bisogno di persone disperate. Oggi il marchio opera in 73 paesi e 450 città. Ogni mese 40 milioni di persone salgono a bordo di una loro vettura. Cinque anni fa quando il servizio è iniziato a Los Angeles la tariffa base era di 2 dollari e 75 centesimi a miglio. Faceva 15-20 dollari l’ora. Pochi mesi dopo per fronteggiare la concorrenza la tariffa si è dimezzata. Oggi è scesa a 90 centesimi. Ma è inutile alzare il sopracciglio indignato, perché poi, quanto lo paghi il ragazzo che ti consegna la pizza a casa il sabato sera? Forse ha ragione chi lo dice: non è stata la rinascita della fiducia tra gli esseri umani a partorire la sharing economy. Ma la disperazione economica. E tra le due cose – come aveva compreso Adamo Smith – c’è una differenza. Che poi quella differenza sarebbe lo spazio dove rinasce la politica. Se è capace di fornire sbocchi. Risposte. A partire dall’A B C: dal fatto che la nuova economia, come la vecchia, chiede che i consumatori abbiano un potere d’acquisto. Distruggi il reddito di chi consuma e sempre di meno il profitto deriverà da quello che produci. E allora risposta è anche cambiare il diritto dell’economia davanti a processi che scombinano le certezze su tempi e forme della produzione, del consumo, del possedere. Con i conflitti trapiantati nella dimensione del singolo e da lì, come su uno scivolo, spinti verso il rancore e la negazione dello spazio politico. D’altra parte, se i server di Facebook sono gestiti da un software che chiede un tecnico ogni ventimila computer, se inventano una macchina che si guida da sola – e giornali che si scrivono da sé, e farmacie senza farmacista, e sale operatorie senza chirurgo – ma perché non dovrebbe funzionare una società senza governo? O una democrazia senza partiti? Se la politica non mi protegge e costa, a cosa mi serve? Posti di lavoro a milioni cambieranno volto. Molti spariranno, da qui a metà secolo. Altri vedranno la luce. Ma è questa combinazione di diseguaglianza e innovazione che ci fa entrare in un cambio d’epoca senza eguali. Mica solo noi. Ma il mondo. A metà secolo – cento anni dopo la Rivoluzione – l’economia cinese sarà il doppio di quella americana e maggiore di tutte le economie occidentali messe assieme. Uno spostamento del potere globale senza precedenti. Un mondo dove si rovesciano equilibri durati secoli. E dove le domande che investono la sinistra non sono se abbiamo comunicato bene o male. Ma se la Turchia uscirà dalla Nato. Se il Regno Unito resterà tale. Se Belgio o Spagna perderanno pezzi. Se l’Occidente ritroverà la sua funzione di guida. O se la sinistra – dopo un secolo e mezzo di storia – avrà la forza di rinascere.
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Io lo chiedo: possiamo ragionare di questo? Possiamo alzare la mano e dire – senza offesa verso alcuno – che se uno immagina di scollinare questa rivolta montando altri gazebo e armando gli eserciti delle primarie, non ha capito? Non ha capito dove siamo arrivati. Dove siamo precipitati. E cosa rischiamo. Ma anche quale spazio enorme per una ricostruzione si è aperto davanti a noi. A patto di non sentirci come il generale Cadorna. Gazebo, notabilati, capicorrente, nuovi Messia: tutto questo ora non serve. Adesso serve altro. Rifondare una presenza. Un pensiero attrezzato. E uno spirito di comunità. Per vederci questa mattina non abbiamo usato simboli che pure, come altri, in questi anni abbiamo coltivato. E se penso a noi – a SinistraDem – sono stati un bene prezioso. Ma ha ragione Andrea quando dice che questo è il momento dove ogni cosa va ripensata. Immaginata daccapo, e dal basso. Io penso a una mescolanza che dia valore ai territori, che ci sburocratizzi. Il voto mette tutti – tutti – dinanzi a una prova durissima. E se aggiriamo l’ostacolo ce lo troveremo davanti alla prossima curva più alto di adesso. Bisogna ripensare la sinistra. E non basterà appellarsi a piante, ulivi, primarie. Serve una identità. E siccome è già giorno fatto vuol dire che siamo in ritardo di circa vent’anni. Poi è giusto conservare quello che di buono in questi vent’anni si è fatto. Ma assieme al coraggio di un altro vocabolario. E qualcuna di quelle eresie che avremmo dovuto alimentare molto tempo fa.
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Insomma quello che non possiamo fare è reagire alla sconfitta più grave con gli attrezzi, lo zaino, che ci hanno guidati fino a qui. Possiamo farlo perché non penso che il voto descriva una condizione stabile. Non è così. C’è una mobilità inedita che investe l’Europa. Se il crollo del Pasok poteva essere una eccezione, quello dei socialisti francesi ha alzato il sipario. Non esistono più rendite sulle quali contare. Ti puoi svegliare da un brutto sonno e scoprire che i nazisti in Germania stanno al 16 per cento. I simpatizzanti nazisti! In Germania! Ma con la stessa logica può accadere che forze all’apparenza fuori dal gioco trovino la via per conquistare un nuovo profilo. Accade perché in buona misura chi è venuto prima di noi sceglieva un partito e non lo abbandonava più. Era un altro mondo. La prova adesso è conquistare ogni singolo voto, e riconquistarlo ogni volta. Dovremmo averlo capito. Se oltre al 4 marzo rileggiamo il 4 dicembre, l’onda di quel referendum, e poi Genova e Torino, e Roma e la Sicilia, dovremmo avere capito come si perde. Ma se guardiamo a Milano, Bologna, Cagliari, o al Lazio dovremmo avere capito anche come si può tornare a vincere. Il Pd – per la spinta che in quella fase venne da Renzi – ha toccato una vetta incredibile. Quel 40 e oltre per cento alle europee di quattro anni fa. Il punto è che da lì è iniziata una discesa continua. E io penso – con onestà politica – che le cause di quella deriva siano state due. Entrambe hanno a che fare con una storia lunga. La prima, solo all’apparenza è di metodo. Perché è sostanza. E riguarda la volontà che una classe dirigente deve avere di mediare tra interessi e soggetti diversi. Non si vince mai rompendo il proprio campo. E le vittorie, ieri di Sala, oggi di Zingaretti, lo dimostrano. Però credetemi, è qualcosa che va oltre la cronaca. L’Italia è andata meglio, è cresciuta di più, quando a guidarla è stata una élite che ha teso a dialogare, a unire. Cogliendo le diversità. Giolitti. Il primo centrosinistra. L’ulivo. Questo Paese è andato peggio, ed è cresciuto meno, quando sull’onda del malessere ha prevalso il ricatto dell’uomo forte, della decisione senza filtri. Crispi. Il fascismo. La destra di Berlusconi. E’ per questo – non solo per tattica – che oggi quel campo largo del centrosinistra dobbiamo rifondarlo. L’altra causa delle nostre sconfitte è legata a cosa è stata la stagione di Matteo Renzi alla guida del Partito Democratico e del governo. Penso che tutti qui, con accenti diversi, abbiamo rivendicato il merito di alcuni traguardi. Non li ripeto, ma li abbiamo raccontati lungo tutta la campagna elettorale. Su altri terreni – quelli noti: parti del Jobs act o della buona scuola – abbiamo avuto opinioni diverse. E alcuni tra noi le hanno espresse sino a manifestare quel dissenso nel voto in Parlamento. Ci siamo alienati il consenso di pezzi di società? Penso di sì. Questo ce lo dicono i dati. Anche se non serviva studiare i flussi del voto per immaginare che se sei la sinistra non riformi la scuola o il lavoro contro il sindacato. Lo devi incalzare il sindacato. Chiamarlo alle sue responsabilità. Ma non togliendogli ruolo. Non umiliandone la radice. Ci sono pezzi di società che dobbiamo andare a cercare, e possibilmente riprendere. Ma per farlo dobbiamo convincere quelle donne e quegli uomini, quei ragazzi, che siamo pronti a una svolta. A cambiare molto. Non è – lo dico con la sincerità che si deve a un passaggio così difficile, e anche drammatico – non è di abiure che abbiamo bisogno. Io per primo – l’ho fatto lunedì in questa sala, alla Direzione – ho riconosciuto che il “renzismo” è stato un disegno politico. Una strategia che puntava a immaginare una fase nuova nello sviluppo del Paese. Con una gamba piantata dentro il riassetto costituzionale. Una sola Camera e una spinta ancora più maggioritaria nel segno della governabilità. Se posso dirlo con parole mie, un impianto di fatto presidenzialista restando nella cornice di una Repubblica parlamentare. Su quella base si inseriva il sorpasso delle forme classiche della mediazione sociale e un legame più diretto tra potere esecutivo e opinione pubblica. Quindi sindacati meno forti. E meno filtri nell’appello al popolo. Poi c’era l’altra gamba: quella economica e sociale. Riorganizzare il mercato del lavoro e il sistema di welfare. In una cornice dove forti principi di cittadinanza dovevano consolidare il tessuto civile e democratico della Nazione (Unioni civili, fine vita, ius soli). Questo è stato un disegno politico. Rifletteva un’idea dell’Italia per i prossimi anni, forse decenni. Su alcune di queste cose io, come altri, ero d’accordo. Su altre sono stato – e l’ho detto – in radicale dissenso. Ma lo ripeto: riconoscere l’esistenza di quel disegno è un atto di onestà. Quell’impianto, sorretto all’inizio dal messaggio potente della rottamazione di ciò che c’era stato, per una fase si è imposto. Prima dentro il Pd, poi per un tratto fuori. E ha prevalso anche perché – lo dico con la stessa onestà – a quel disegno non abbiamo contrapposto una vera alternativa. Né qui, né fuori da qui. Qualcosa che si muovesse alla stessa altezza. Che coltivasse la stessa ambizione. Ma il 4 marzo ha detto una cosa precisa. Che quel disegno è stato sconfitto. Ed è qui il limite di fondo di alcune reazioni. Anche a sinistra. Anche dentro il Partito Democratico. Nel rimuovere una volta di più la realtà per come si è manifestata. Maledetto Cadorna! Quel disegno non ha convinto una parte larga degli elettori e della sinistra. E allora il ricambio di una leadership e una classe dirigente non sono solo il frutto di una percentuale deludente nelle urne. Sono la risposta dovuta a quel giudizio politico. Il mio problema non è Matteo Renzi e a lui ho espresso la mia solidarietà sul piano umano. Ma con la stessa chiarezza oggi io penso e dico che dobbiamo superare il renzismo. Quel metodo, quel disegno, quella concezione del potere. Perché c’è una ragione nell’ostilità di troppi verso questo simbolo e chi lo ha incarnato per una stagione. Ma la politica non è tifo. Non è mai fedeltà. E’ lealtà. E lealtà è anche riconoscere quando in molti ti dicono “cambiate”. Non dividiamo oltre ciò che è già diviso. Questo lo si fa solo costruendo un’alternativa. Presto. Tocca farlo perché dalle grandi crisi non si esce col mondo di prima. Servono analisi e ricette in larga misura sconosciute. Lo stesso vale per le grandi sconfitte. Non basta smussare gli spigoli. Bisogna rifondare: una teoria e una pratica. Alleanze sociali, i riferimenti nel mondo. Assieme a una materialità dei bisogni che deve tornare al centro. Perché è su questo piano che la crisi ha favorito l’imporsi degli altri. Quello dei leghisti o di 5Stelle puoi liquidarlo come populismo, ma non è la chiave. Loro si presentano dicendo: “oltre le ideologie” noi rappresentiamo i cittadini nel loro malessere e offrono soluzioni individuali per drammi collettivi. Non vengono da Marte. Ma parlano un’altra lingua. Noi a quella lingua dobbiamo contrapporre una risposta più forte. Non sono marziani e non sono imbattibili. Ma per tornare a vincere abbiamo bisogno di tutta la nostra radicalità e della passione che ci riporti al fare politica. L’esito? E’ che a questo punto della storia non dobbiamo scrivere un nuovo programma elettorale. A noi serve un nuovo programma fondamentale. Che prenda atto delle cose. Del fatto che in Europa la reazione contro gli immigrati è più violenta dove il welfare è stato più generoso, a conferma che la paura di perdere ciò che si ha muove i sentimenti. La destra, in parte, ha rotto gli schemi. Trump è stato il primo candidato repubblicano a promettere un aumento dei finanziamenti per la previdenza sociale. Hillary si era offerta di mantenerli, e basta. Il passo successivo di Trump è dire “Io amo la gente con poca istruzione”. Perché quella è la sua base. Nel 2016 per la prima volta nella storia degli Stati Uniti la maggioranza di chi ha votato repubblicano non era laureata. E non erano tutti bianchi. Serve andare oltre? In Europa il consenso maggiore verso sterzate autoritarie si registra nelle democrazie più mature: Svezia, Gran Bretagna. Cioè più cresce la diseguaglianza, più la democrazia fatica e soffre. In questo momento solamente due capi di Stato al mondo godono di indici di gradimento superiori all’80 per cento. Quello russo e quello turco. Ok, non mi fiderei troppo di quegli istituti di sondaggio, ma che l’allarme sia suonato è un fatto.
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Vedete, a questo punto in quel capolavoro che è “Oltre il giardino”, Peter Sellers avrebbe detto “in primavera si semina, in autunno si raccoglie”. Forse anche a noi tocca ripartire da qui. C’è una semina da fare. C’è da scuotere un mondo che ha continuato a pensare, scrivere, immaginare soluzioni all’altezza. Perché poi è sempre accaduto così. Cambiava il mondo e di conseguenza cambiavano le culture politiche.
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Ecco: più o meno siamo qui. In minoranza, come ci siamo detti. Il che, secondo logica, porta all’opposizione. Penso come molti che sia un dato oggettivo. Ma credo anche nella necessità di svolgere una funzione politica. Non ne faccio un calembour o un gioco di parole, ma la stessa frase “gli italiani ci hanno mandato all’opposizione” forse andrebbe declinata. Perché oltre sei milioni di italiani che ci hanno votato lo hanno fatto per chiederci di governare. Tutti gli altri no. Io non vedo le condizioni per un accordo con chi dice di aver vinto. Quella strada mi pare chiusa per volontà in primo luogo di chi dovrebbe aprire il percorso. Quello che capisco meno è l’invito da parte di alcuni a trovare l’accordo di governo tra loro: Lega e 5Stelle. Immagino nel solco del Montanelli che invitava gli italiani a provare sulla pelle un governo guidato da Berlusconi. Ma noi siamo la principale forza della sinistra. Abbiamo sempre posto l’interesse delle persone sopra il calcolo della politica. Io temo un governo sovranista. Temo che a gestire il dramma del Mare arrivi uno sceriffo padano. Io non vorrei consegnare l’Italia alla destra. Per me questa è stata una delle ragioni che mi ha fatto scegliere di restare dove sono oggi. Dove siamo oggi. Come voi non so dire cosa accadrà nelle prossime settimane. Ma non farei il tifo per una soluzione dannosa. E se, dopo tentativi a vuoto, l’appello fosse rivolto a tutte le forze in Parlamento per un governo condiviso e delegato a condurre il Paese verso nuove elezioni, con regole diverse, credo che non dovremmo scegliere l’Aventino. Dico regole diverse anche su una legge elettorale voluta da noi a colpi di fiducia. E’ vero, non avremmo avuto una maggioranza anche con sistemi diversi. Ma a oggi pare manchino all’appello 17 deputati tuttora da proclamare. E’ una testimonianza di come forzare su ogni cosa – andare diritti senza ascoltare – non è mai la strada giusta. Ok, non sapremo la sera delle elezioni chi ha vinto. Confido però che entro la legislatura conosceremo il nome degli eletti.
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Quanto al partito l’ho detto: c’è da rimettersi in piedi. Maurizio, devi contare su lealtà e collaborazione. Sincere. Ma dopo questi anni l’appello all’unità cammina assieme alla discontinuità. Di metodi, linguaggio. Di quella collegialità che in questi giorni è stata richiamata da più parti. L’ho apprezzato. Ma nell’interesse della credibilità di questa nuova fase, quella collegialità va praticata: nazionalmente e sui territori. Non è una questione di posti. Ma della capacità di portare a sintesi il pluralismo che vive e di cui abbiamo bisogno per allestire una riscossa. Collegialità vuol dire passare da una direzione esclusiva e leaderistica al riconoscere che una leadership è decisiva. Ma è più forte, e più autorevole quando sa coltivare il senso critico e le ricchezze umane e culturali dentro una comunità aperta. Fatta di circoli che spesso sono chiusi. Come chiuse sono alcune federazioni, aperte solo dalla buona volontà di un segretario che va lì nel tempo che gli resta dopo il lavoro. Tutto per poter dire che abbiamo cacciato dal tempio il finanziamento pubblico. Ma la vergogna non era in quelle risorse. Era nel modo in cui alcuni partiti le hanno dilapidate. Il risultato è che rischiamo di coltivare le distanze persino tra noi. Perché senza un aiuto anche il circolo di Parioli avrà più chance di restare aperto rispetto a quello di Corviale. E non va bene. Maurizio, su Repubblica ieri hai parlato di “un vero rovesciamento delle idee guida che ci hanno condotto fin qui”. Sono d’accordo. Per riuscirci serve riconoscere che qualche volta quelli che con una punta di insofferenza o disprezzo sono stati detti “gufi” magari una ragione l’avevano. Tanti se ne sono andati, molti non ci hanno votato per la ragione più semplice, antica, umana che vi sia. Perché non si sono sentiti rispettati nella loro dignità. Dobbiamo andarli a cercare, uno a uno. E come i banditori un tempo, convincerli che adesso molto è destinato a cambiare. Hai detto seimila assemblee nei circoli. Bene. Io dico, lanciamo una campagna di ascolto. Bussiamo alle porte degli intellettuali di generazioni e campi diversi. Torniamo all’economia sì, ma anche alla storia e alla scienza. Alla geografia che è sempre politica. E alla filosofia. E pensando a cosa la sinistra ha combinato in questi anni, non dimentichiamoci della psicanalisi. Non risolve il problema, però aiuta! Ma infine torniamo al sapere umile e tante volte più saggio di chi ti sa raccontare la vita meglio di un manuale di sociologia. Bisogna andarci di nuovo, fisicamente, nei luoghi dove da tempo non siamo più. E arrivandoci, prima di parlare, cerchiamo di ascoltare. Perché del Rito anche l’omelia è parte, ma prima devi portare i fedeli in Chiesa. E come un tempo se non vengono loro da noi, sarà bene che torniamo noi a cercare loro. Restituiamo umiltà e fatica alla passione politica. Chiamiamo l’Italia che si è rifiutata di crederci questa volta, a crederci di nuovo. Convochiamo incontri come questo in altre città. Quelle più grandi da Nord a Sud: Torino, Milano, Napoli. E in quelle dove spesso la politica è delegata a un capo di turno. Scuotiamo l’albero. Cadranno frutti maturi. Qualcuno marcio. Ma dissodiamo la terra e torniamo a innaffiare. Ce la faremo? Non lo so, ma lo spero per tutte le ragioni che ho provato a dire.
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Vedete, ho iniziato nel ricordo del 16 marzo. Alla fine del film che ha scritto su Moro, Marco Bellocchio immagina ciò che non fu. Una brigatista che apre il chiavistello della cella. E Moro che indossa il paltò ed esce per le strade di una Roma deserta. E’ la sequenza finale. Viene montata alternandola alle immagini d’archivio del funerale di Stato. Scorrono i volti di una classe dirigente sconfitta nella sfida di portare l’Italia a quella svolta che non si compì. E l’ultimo fotogramma del film: ancora Moro – nella finzione – che cammina e piega la bocca in un sorriso. Quella fu, in ogni senso, la “Notte della Repubblica”. L’istante dove tutto rischiò di crollare. Ma se la democrazia – lo Stato – prevalsero fu perché allora una massa di popolo reagì. Uscì di casa e ancora una volta prese in mano il proprio destino. Erano partiti, sindacati, associazioni. Erano movimenti che occuparono la zona grigia e restituirono speranza a un tempo a venire. Anche adesso la democrazia appare fragile. E soffiano altri venti. Non di violenza. Ma di rifiuto. Di rabbia. Quarant’anni fa l’Italia perse l’occasione di una svolta storica. Forse un’occasione diversa, ma simile, spetterà a questa sinistra, segnata da una sconfitta, ma viva se saprà aggredire il nuovo senza paura di cambiare tutto ciò che si deve cambiare. C’è un sentiero mai battuto dove camminare. Che rompa il passo e gli schemi. E dovrà farlo una generazione che nel giorno di quel funerale nasceva, o c’era da poco, o sarebbe persino venuta dopo. Non si può riscrivere la storia. E’ vero. Ma si può sempre immaginare un finale diverso per la vita che ci è data da attraversare. Bellocchio in quel film ha scelto l’arma della fantasia e del sogno. Noi, più modestamente, dovremo aggrapparci come mai abbiamo dovuto fare alla potenza della realtà.
Con coraggio e passione.
Buona fortuna.
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