Caro Sergio,
qualche giorno fa Biagio De Giovanni, in un editoriale su Democratica, faceva notare come la nascita del PD nel 2007 fosse stata il frutto dell’unione di due culture del Novecento, entrambe deboli e sconfitte: quella socialcomunista del PCI-PDS-DS, sconfitta dalla storia, e quella democristiana, logorata da quasi 50 anni di governo, da Mani Pulite, da mancanza di alternative e progettualità riformista.
De Giovanni sottolineava come la fusione si fosse portata dietro la giustapposizione dei due gruppi dirigenti, anch’essi figli di quelle storie, due gruppi consolidati che rimasero distinti, senza quasi alcuna ibridazione.
Analisi condivisibile, alla quale vorrei aggiungere qualche considerazione.
Le basi programmatiche del PD furono gettate con molta chiarezza: Veltroni al Lingotto aveva delineato le caratteristiche di un partito espressione di una sinistra moderna, svincolato dai retaggi del Novecento. Era stato molto esplicito, molto applaudito e apprezzato (almeno a parole!), ma il neonato PD stentò molto a dare corpo e anima a quel progetto, malgrado l’affermazione elettorale del 2008 (qualcuno oggi si bea delle onorevoli sconfitte di Corbyn, o di Sanders, o addirittura di Mélenchon! Quella di Veltroni fu allora una sconfitta trionfale, con il 34% circa, al primo tentativo!).
Veltroni comunque fu subito e scortesemente invitato a mettersi da parte: le nomenclature, ancora fortissime, presero il sopravvento, con tutti i limiti di cui sopra, fino al tracollo di Bersani, 5 anni dopo alle elezioni non-vinte del febbraio 2013.
Questa è la storia del primo PD, quello 1.0, come si dice adesso.
Poi però nel 2012 arriva Matteo Renzi: classe 1975, quattordicenne alla caduta del Muro, neanche maggiorenne a Mani Pulite, insomma tutta un’altra generazione.
Cultura cattolica, boy-scout nell’AGESCI, ma cresciuto in una terra, la Toscana, di fortissime tradizioni socialiste, comuniste, anche anarchiche, sinistra tosta.
Un ibrido, o meglio, una sintesi forse, quella che era mancata al PD.
(A proposito, i toscani hanno una plurisecolare tradizione di divisioni e aspri conflitti interni, regolati, una volta, a sciabolate, successivamente, a parole ed anche in versi; per questo sono così forti nella satira e nello sberleffo: si sa, la funzione sviluppa l’organo …! Insomma, i toscani sono litigiosi come pochi altri in Italia, al contrario degli emiliani, ad esempio, di sinistra anche loro, ma cooperativi per tradizione; quindi non è un caso che Renzi, con le sue peculiari doti caratteriali, esca da quell’humus…!)
Renzi scala il Partito, non senza difficoltà, e si prefigge di dare corpo al progetto originario: rinnovamento profondo dei quadri dirigenti, almeno quelli nazionali, ripensamento dei rapporti con tutti gli intermediari sociali come i sindacati, un programma riformatore intenso e a largo spettro, immediata adesione al PSE.
Si prende il Governo, oltre alla Segreteria, mette al fuoco tanta di quella carne da rimanerne anche sbruciacchiato.
Parte col botto del 41% alle europee, che saranno pure elezioni poco importanti, ma comunque …
Una parte del Partito capisce che è quello che mancava e serviva e quindi collabora (“ob torto collo” o meno, poco importa), un’altra parte va invece nel panico, si vede esautorata, delegittimata, marginalizzata, e avvia una lotta senza quartiere contro l’intruso, l’alieno. Con tutti i mezzi, nessuno escluso, fino alla follia di fare campagna elettorale contro le scelte del Partito (al referendum) e brindare ad una sconfitta.
Renzi resiste, non è Veltroni (anche Walter, onestamente, gli riconobbe una determinazione maggiore della sua, dopo le europee) e va avanti come uno schiacciasassi.
Della carne messa al fuoco non tutti i pezzi vengono cotti a puntino, qualcosa si brucia, qualcosa resta cotto a metà; ma da mangiare (e digerire) per il sistema Italia ce n’è comunque tanto, come non mai.
E a fronte di tutto questo, cosa potevamo aspettarci se non un atto definitivo, una scissione, una dichiarazione di guerra bella e buona, da parte di chi ha perso su tutti i fronti e si è visto così nettamente messo da parte?
Comunque ormai il PD 2.0 è nato, indietro non tornerà, è un grosso passo avanti al precedente 1.0, anche se ha ancora un sacco di problemi, specie a livello locale, dove il processo è andato avanti a macchia di leopardo, lasciando ancora ampi spazi ai vecchi vizi del PD 1.0.
Seguito popolare ce n’è ancora: il congresso nazionale e le primarie sono state un successo e testimoniano che c’è uno zoccolo duro di iscritti, militanti ed elettori che resiste allo stress, malgrado il Partito, il suo Segretario e la classe dirigente siano sottoposti ad un assedio mediatico senza precedenti, trasversale, roba che neanche ai tempi di Berlusconi …
Ora, detto tutto questo, dobbiamo continuare a farci del male pensando a quello che è successo, a chi se ne è andato o a chi ha nostalgia per i bei tempi passati?
O smettiamo di guardare, o peggio aspettare, cosa fa D’Alema e procediamo verso la realizzazione completa del progetto originario del PD?
Serve un PD 3.0 adesso: lo spazio, politico e culturale, non manca. La destra è retriva, non ha idee forti se non la paura, il M5S ha superato l’apice della sua parabola, Grillo è visibilmente stanco e la scelta di Di Maio sarà per loro esiziale, tanto poco è credibile per la gente normale. La legge elettorale a collegi farà il resto.
Noi abbiamo un progetto. Renzi ha aperto una strada che proseguirà anche oltre la sua Segreteria. Ormai è tracciata e spetta alla comunità del PD darle corpo e anima.
Gli strumenti in parte ci sono, in parte andranno costruiti. Intanto apriamoci al mondo, facciamo entrare aria fresca, non abbiamo paura dell’ignoto. Il futuro siamo noi che lo costruiamo.
Ernesto Trotta
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A rischio di ripetermi: Trotta for President (del PD, ovvio)!!!
Silvano