Quando ero piccino, tra le opere di beneficenza svolte dalla mia famiglia, c’era il sostegno a una particolare iniziativa: l’attività artistica di persone con grave disabilità. A promuovere la raccolta dei contributi economici, provvedeva l’invio per posta di diverse serie di cartoline, che riproducevano a colori i quadri realizzati – col pennello stretto tra i denti o sotto l’ascella o tra l’alluce e il secondo dito del piede – da persone afflitte da mutilazioni. Le immagini inducevano una qualche inquietudine in me e nelle mie sorelle perché accanto alle foto dei quadri si trovavano quelle dei pittori: e quei moncherini, quegli arti tronchi, quelle membra amputate producevano un notevole turbamento. E maggiore disponibilità a un atto generoso. A quanto ricordo, nessun quadro mai venne indicato come realizzato da un cieco. La cosa mi viene in mente quando mi trovo a parlare con Sergio Staino, come me non vedente, importante illustratore e disegnatore, inventore del personaggio di Bobo, rivoluzionario in acuta crisi di identità esistenziale e politica. Pittori non vedenti? Non tutti sanno della vicenda del quasi-cieco Claude Monet, del quale trovo traccia in un noir di Michel Bussi (Ninfee nere, pubblicato in audiolibro da Emons). Tomaso Montanari mi parla di uno scultore del Seicento, Giovanni Gonnelli (Firenze), e Marica Fantauzzi ha scovato, negli Stati Uniti, un pittore contemporaneo, John Bramblitt, anch’egli privo della vista. Ma qui non siamo storici dell’arte (per chi voglia approfondire: La cecità dei pittori di Barbara Antonelli) e, a interessarci, è piuttosto il comprendere come diavolo faccia Staino a disegnare tutti i giorni le sue vignette.
«Fino a un mese fa la mia tecnica era sostanzialmente digitale: un computer dallo schermo molto grande, 60 per 40, con la penna touch tarata a seconda della pressione, dell’inclinazione della punta, della velocità del tratto. Lavoravo così: buttavo giù un segno guardando con l’occhio sinistro appiccicato quel tanto di chiaroscuro che ancora riuscivo a cogliere. Una volta fatta la bozza, la mandavo a mio figlio Michele, che disegna molto bene ed è, per così dire, padrone della mia tecnica. La prima cosa che fa è adeguare con photoshop le proporzioni perché, dal momento che io vedo il disegno solo pezzetto per pezzetto, può accadere che la testa di un personaggio risulti gigantesca rispetto alla mano o al piede. Diversamente avviene per la colorazione. Io do alcune indicazioni generali partendo da quanto il mio cervello ricorda delle tonalità. Tutto si svolge nella mia mente».
È così anche per me quando scrivo: nella mia testa immagino la punteggiatura e gli aggettivi, i salti di tono e gli a capo, e poi detto.
«Per la verità, a me capitava anche prima di perdere la vista, quando chiudevo gli occhi e vedevo forme e colori delle vignette. Sai, per me il disegno è una sorta di ventre materno, che mi offre rifugio dalle intemperie della vita. Me ne sono accorto negli anni, notando come rispondevo attraverso il disegno a tutte le disavventure: la scuola che non andava, le tonsille operate senza anestesia, i familiari che morivano, l’angoscia che mi prendeva».
Ma quanto tempo richiede questo lavoro in società con tuo figlio?
«Una volta, per un’intera pagina de L’Unità, impiegavo qualche ora. Oggi per un’intera pagina di Specchio, supplemento de La Stampa, ci metto due giorni. La penso il sabato e la domenica e devo dormirci sopra. Poi, senza che io lo decida, la mia mano si muove, anche quando sono a letto, seguendo un tracciato come se dovesse disegnarlo. Non è facile, soprattutto quando devo raffigurare paesaggi, montagne, città e personaggi vari. Durante la rassegna del Club Tenco, per Specchio, ho realizzato una tavola dove Giorgia Meloni e Matteo Salvini conversano tra loro utilizzando esclusivamente i testi delle canzoni di Mogol e Battisti: e ci sono volute ore e ore».
Mi dicevi che questa tecnica di lavoro, da qualche tempo, non funziona più come prima.
«In effetti, nelle ultime settimane, mi sono accorto che i pochi sprazzi di luminosità rimasti si sono ridotti ulteriormente. Così, quando disegno volti nuovi, fatico a capire dove devo mettere l’occhio o l’orecchio o il mento. Ma se ricorro alla stilografica o a un pennarello dalla punta fine, certe cose riesco ancora a disegnarle: a esempio, la forma dettagliata delle rose che Bobo offre a una signora, che è un po’ la mia firma. Dunque, ho comprato una lavagna a fogli con una superficie molto più grande e un pennarellone con una spessa punta a scalpello. In piedi, davanti a questo spazio così ampio, ricomincio a vedere, o immagino di vedere, il disegno. Riesco a creare l’intera figura dei personaggi, che, poi, vengono fotografati e scannerizzati al computer».
Pensi che sia la tua tecnica definitiva?
«Per la verità, questa mia rincorsa contro l’esaurirsi della vista dura da oltre quarant’anni. Calcola che lavoro tutti i giorni, 350 giorni all’anno, e faccio quotidianamente 6-7 o più disegni. Perciò sono circa 3.000 ogni dodici mesi, ma forse anche il doppio. Se moltiplichi per quasi mezzo secolo di lavoro, siamo a decine e decine di migliaia».
Ma quando tutto è cominciato?
«I primi segni della cecità si manifestano nel 1977. Il mio occhio destro era molto miope, mentre il sinistro raggiungeva gli 11/10 con la correzione. Una sera, mentre guidavo, mi sembrò che i catarifrangenti ai lati della strada saltassero, non cogliessero il riflesso dei fari e si oscurassero. All’ospedale Maggiore di Trieste, la diagnosi fu: retinite degenerativa. Insomma, la retina era enormemente tesa a causa della grandezza del globo oculare. Come fosse la retina di un uomo di 120 anni, mentre ne avevo solo 37. E mi venne detto che, probabilmente, non sarei arrivato alla cecità totale, ma molto molto vicino. Piansi per giorni. Fortunatamente avevo accanto a me Bruna, la mia compagna ormai da 47 anni. Dopo di che, quando l’occhio prese a familiarizzare con questa macchia disposta nel centro della pupilla, mi feci portare, in quella stanza di ospedale, fogli e matite. Davanti al mio letto c’era una finestra, come dire, asburgica, dotata di doppi vetri. Così, mi sono dannato per cercare di “vederla” e disegnarla. È stata una lotta spaventosa per capire come era fatta, quella finestra, e riprodurla sul foglio. Una fatica che ha cambiato totalmente il mio segno. Quello precedente era il tratto di un architetto sicuro di sé e fin strafottente, mentre quello attuale, è un segno conquistato millimetro per millimetro, scavato e lavorato duramente. È la penna che agisce e reagisce con sofferenza. Da allora è stata una ricerca continua di nuovi strumenti tecnologi: prima un tavolino retroilluminato con i fogli sopra, poi lenti di ingrandimento sempre più potenti e, infine, il computer. Nel frattempo, ero uscito ormai da tutto e diventava inevitabile che mi buttassi anima e corpo nel fumetto».
Che vuol dire “uscire da tutto”?
«Nel 1969 avevo aderito al Pcd’I (M-L): ovvero al Partito Comunista D’Italia, parentesi: marxista-leninista, chiusa parentesi, di ispirazione stalinista e filo-albanese, devoto cioè al regime di Enver Hoxha. Ero membro del comitato provinciale di Firenze, ma c’erano alcune cose che mi rendevano sospetto: in particolare la mia barba veniva considerata una degenerazione piccolo borghese. Così, quando mi recai in delegazione in Albania, me la dovetti tagliare. Se non l’avessi fatto, avrebbe provveduto il barbiere che si trovava al posto di frontiera; con lui, un sarto che aveva il compito di allungare minigonne e stringere pantaloni a zampa d’elefante, così da rendere “accettabili dal popolo” gli ospiti occidentali. Sarei uscito da quella setta solo dieci anni dopo – un tempo lunghissimo di cui mi vergogno – e la goccia che fece traboccare il vaso fu il rifiuto del Pcd’I (M-L) di partecipare alla manifestazione sindacale unitaria del primo maggio. Mi ritrovai solo, confuso e smarrito. E questo contribuì al fatto che Bobo diventasse il centro del mio lavoro e della mia vita».
E come viene fuori quel personaggio?
«Ha una precisa data di nascita: 10 ottobre del ’79. Lavorai forsennatamente per alcune settimane intorno alla figura di quell’uomo, così simile a me anche nei tratti fisici, attraversato da una crisi devastante. Inviai le tavole a Oreste Del Buono, direttore di Linus: e a lui, i pensieri, le parole e i dilemmi di Bobo e dei suoi due figli, Michele e Ilaria, piacquero tantissimo. Vennero pubblicati già nel fascicolo di dicembre ed ebbero il suggello dell’apprezzamento niente meno che di Umberto Eco. I fattori del successo sono stati probabilmente due: il racconto della Grande Frustrazione personale e politica, che tanti riconoscevano come propria; e quella sofferenza che il mio tratto dolente tradiva. Quando parlo della storia di questo mio apprendistato ai giovani ipovedenti, mi rendo conto di quanto può aiutarli a non arrendersi. E mi commuovo: se mi vedesse Stalin mi ammazzerebbe».
Prima dicevi che dei colori oggi hai solo memoria, senza alcuna percezione diretta. È così?
«Sì. Eppure, ancora sei, sette anni fa, ho realizzato opere a colori come i due fondali della rassegna del Club Tenco. Oggi, i colori si sono letteralmente dileguati. Vedo qualcosa che mi sembra un po’ sul rosso, ma poi non c’entra nulla con il rosso».
Ma nelle tue fantasie e nei tuoi sogni i colori ci sono?
«La memoria dei colori resiste al loro logoramento».
Noi ciechi e anche chi, come me, non ha il bene della pittura, dovremmo riflettere sulla eccezionale esperienza di Monet. Il progressivo deteriorarsi della vista rendeva i suoi colori più sfocati e meno intensi, e introduceva una tonalità giallognola in tutto ciò che i suoi occhi riuscivano faticosamente a cogliere e a riprodurre. Successivamente, tutto cominciò ad apparirgli venato di blu. Il che non gli impedì di continuare a dipingere ma ebbe l’effetto di “trasfigurare” le differenze cromatiche, fino a inventarne di nuove, rispetto alla mera riproduzione, semmai fosse possibile, dei colori reali. Oggi, una riflessione colta e avventurosa sui colori, la si trova in un libretto di Claudio Magris, Le toppe di Arlecchino, appena pubblicato da La nave di Teseo.
«Nella vita di tutti i giorni, tuttavia, la scomparsa dei colori ha effetti assai concreti e pesanti. Quando la mattina scendo in cucina trovo la stessa familiare disposizione del tavolo e della sedia e ho in mente la collocazione precisa delle tazze bianche e delle posate e la luce che vi si riflette. E ogni giorno, immancabilmente, misuro quanto, di quella tazza bianca, perdo».
L’esito è il buio totale?
«No, non è detto e spero proprio che non accada».
Ancora una questione: cosa ti ha insegnato la cecità a proposito del rapporto tra cervello e vista?
«Dopo la rottura della retina, nell’arco di una settimana, la macchia nell’occhio è scomparsa perché il cervello ha cominciato a fare una sorta di calcolo delle probabilità. E a riempire quella macchia di tutti gli elementi che le stavano intorno, ormai non visibili. Era il cervello a scegliere come colmare il vuoto che si era aperto. È semplice: se c’è un ciclista sulla strada, di cui io vedo solo mezza ruota, sarà la mia mente a fornirmi i particolari che costituiscono il quadro d’insieme: dall’asfalto al manubrio a tutti gli altri dettagli. Insomma, viva la mente che vede».
Una decina di anni fa, entrambi già quasi nell’attuale condizione, decidemmo di scrivere una lettera all’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, esponendo il dramma di noi assiduissimi frequentatori, privi di vista, dei treni italiani. Il motivo: l’apparato idrico delle toilette dei treni passeggeri, di prima e seconda classe, frecciargento o frecciarossa che siano, o anche regionali, offre una varietà praticamente infinita di soluzioni per attivare il flusso d’acqua nel water e nel lavandino. Il povero cieco, che voglia utilizzare quella funzione, ricorrendo alla memoria delle precedenti esperienze, fallirà inesorabilmente. Il pulsante o la leva o il pedale per azionare l’acqua del water si trovano sempre – sempre! – in una posizione diversa da quella prima conosciuta. Il getto dell’acqua nel rubinetto richiede una ricerca a tentoni abitualmente destinata all’insuccesso. Quello che sempre si riesce a far funzionare, anche non volendo, è un violentissimo getto di aria calda – una specie di soffione boracifero – pensato per asciugare le mani, ma capace di ustionare il non vedente che brancola in quello spazio angusto. La nostra lettera non ebbe nessuna risposta. Peccato. L’Italia è dotata di una buona legge contro le barriere architettoniche risalente al 1989, la cui applicazione è drammaticamente disattesa. Un paese come il nostro, storicamente privo di senso civico e di comune responsabilità, è portato a inventare ostacoli inciampi e barriere per ogni dove: a danno anche di persone particolarmente privilegiate, come noi. Figuriamoci gli altri.
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Grazie Sergio per la meravigliosa intervista.Mi ha coinvolto ed interessato tantissimo.