Ieri a Firenze si è ricordato Sandro Margara a quattro anni dalla morte. Ebbi un privilegio: di conoscerlo mentre ero un carcerato a Pisa e lui il titolare della magistratura di sorveglianza in Toscana. Patti chiari, dunque, bisogna essere carcerati a conoscere i carcerieri, il reciproco non vale quasi mai. Poi fummo amici. Aveva un coraggio tranquillo e impavido. Per esempio, la sua determinazione a sostenere il diritto delle persone private della libertà ad avere rapporti “affettivi”, come si dice, anzi peggio, all’“affettività”, cioè una vita sessuale, considerata come una manifestazione normale e fondamentale dell’esistenza degli umani come degli altri animali, e non come un lusso o un vizio, o le due cose insieme, di cui soprattutto mutilare i rei veri o presunti. Nello scandalo grottesco e bigotto o anche solo nel rifiuto pretestuoso – le carenze degli ambienti, le difficoltà della sorveglianza… – si svela il fondo ultimo del castigo, che è corporale e tocca la sessualità. Sembrava singolare scoprire questa battaglia tenace in una persona di formazione e di pratica cattolica democratica attaccatissima alla famiglia e a un’abitudine di benevolenza sociale rigorosa. Un uomo calmo e aperto, solidale con gli uomini del sottosuolo. In realtà era proprio quella formazione a nutrire la coerenza e il coraggio di Margara, che chiamava il nostro carcere “d.C.”, dopo Cristo: non dopo la nascita, ma dopo la scomparsa di Cristo. Era (non l’ultimo, come si inclina a dire, non si è mai l’ultimo, tutt’al più il penultimo, bisogna lasciare almeno un posto al prossimo) uno degli esemplari personaggi, uomini e donne, del cattolicesimo democratico fiorentino, di origine o di elezione – o di assegnazione per esilio, come Turoldo – che per una lunga stagione aveva contribuito a restituire un orgoglio a Firenze, dove il passato soffoca i suoi cittadini, che se ne lasciano soffocare voluttuosamente. Mario Lancisi ha appena pubblicato un nuovo libro su “I folli di Dio. La Pira, Milani, Balducci e gli anni dell’Isolotto” (San Paolo), tornando a una comunità di cui è erede e che sente, o spera, rianimata dal Francesco papa che nel cimiterino di Barbiana additò quel “prete trasparente e duro come un diamante” come un esempio per sé e per tutti i sacerdoti. Gente, quei fiorentini, che aveva confidenza col Vangelo e lo prendeva sul serio. Anche le cose del carcere trovano in quella comunità, ingenuamente promossa a “nuova Gerusalemme”, altri nomi essenziali, Gozzini, Meucci, e Pistelli, Balducci, Fioretta Mazzei… Qualcuno, come Gozzini, il carcere lo conobbe prima come obiettore. Leggere oggi delle case sfitte che La Pira requisisce per gli sfrattati fa uno strano effetto, nella città magnifica di palazzi e case disertate dai fiorentini per farne alberghi e pensioni e B&B e ora desolatamente vuote. Firenze li ha immaginati senza fine i suoi inquilini provvisori, e li ha trattati bruscamente, senza desiderio di affezionarseli. Ho preso il taxi un paio di volte alla stazione, c’era quasi sempre una fila nervosa di passeggeri, ora c’è una fila di taxi e di guidatori al sole, che scherzano sulle ore di attesa e confrontano le corse che non hanno fatto. Sono spiritosi, per fortuna, i tassisti a Firenze. La seconda volta gli ho chiesto se volevano un autografo.
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