Posto questo ricordo di Bruno Caruso, morto domenica, scritto da Adriano Sofri sul Foglio. Lo faccio con entusiasmo perché Bruno è stato, senza che lo sapesse, uno dei punti di riferimento della mia voglia di disegnare e per la formazione del mio segno.
E’ morto Bruno Caruso, domenica scorsa. Era vecchio, 91 anni. Palermitano, aveva vissuto a Roma, per la gran parte del suo tempo in una casa alta dirimpetto al Colosseo, piena di insetti, conchiglie, teschi e altri oggetti nervosi, come un magazzino di Dürer. Bello, elegante, è stato un pittore, un disegnatore, un formidabile incisore, gran viaggiatore, uno scrittore e un uomo militante e coraggioso. I suoi disegni contro la mafia furono per la mia generazione altrettanti manifesti civili e morali, così come i disegni e le acquaforti sul Vietnam, sull’occupazione delle terre, su Portella della Ginestra, sulle lotte degli edili e degli operai, sulla condizione umana, disumana, nei manicomi. Capelli, occhi e bocche dei suoi personaggi erano inconfondibili, benché imitatissimi. Non era mai demagogo. Gli fui vicino, e viceversa, dal ’68 agli anni ’70, poi ci perdemmo di vista. Aveva un talento straordinario, non si riconosceva una scuola ma aveva studiato e amato specialmente Grosz e Dix. Era generosissimo dei suoi lavori. A vent’anni aveva disegnato sul ghetto di Varsavia e sui testi di Kafka. Nella sede Sellerio, a Palermo, nella via oggi intitolata a Elvira e Enzo, intere pareti sono coperte dalle sue incisioni in sedicesimo. Nel 1968 andai per la prima volta in vita mia in Sicilia, a Palermo, invitato da lui – che voleva dire a sue spese – e ospite con lui di suoi amici che abitavano vicino al porto: allora conobbi persone che sarebbero state così importanti, fra loro Enzo Sellerio e Vincino. Eravamo squattrinati, gli artisti, molti di loro, erano i nostri mecenati. Soldi ben spesi, anni ben spesi? Sì, penso.
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