Sofri sulla manifestazione di Firenze. Anche qui si parla di lanciafiamme.
Oggi, mercoledì 27, è indetta a Firenze, in piazza Ognissanti, una manifestazione intitolata “Insieme contro il razzismo”. Il manifesto che la convoca dice fra l’altro che “la propaganda basata sulla discriminazione razziale ed etnica sta danneggiando l’Italia e la sua reputazione. L’uso irresponsabile di messaggi che negano i diritti universali è entrato nel lessico istituzionale con effetti imprevedibili e mette a rischio il patrimonio costituzionale e democratico del paese”. Lo hanno firmato il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, e il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Hanno aderito in tanti, la Cgil nazionale, l’Arci, l’Anpi, l’Aned, decine di sindaci – anche il livornese Nogarin – e centinaia di persone singole. Da qualche tempo succede che le firme di adesione alle manifestazioni superino il numero effettivo dei manifestanti in carne e ossa: una deriva della virtualità contemporanea. Mi auguro che oggi non sia così. Il programma prevede che non ci sia una sfilata di personalità pubbliche bensì una raccolta di testimonianze: di italiani e di stranieri, che conoscano le virtù e le discriminazioni delle condizioni di lavoro e di vita della comunità umana cui apparteniamo. E ci sarà della musica. Si sono sentite voci dissonanti, alla vigilia di questa manifestazione. A Firenze, lo scorso 11 giugno, è morto Duccio Dini, 29 anni, travolto da una di due auto guidate da rom di origine macedone, abitanti nel campo del Poderaccio, che stavano inseguendo un connazionale. Il giovane Dini, conosciuto e amato da molti, era stato investito mentre era fermo accanto al suo motorino. C’è stata una grande commozione e rabbia. Ci sono state manifestazioni spontanee, il comune ha deciso il lutto cittadino. Qualcuno ha tentato di dirottare commozione e rabbia in un assalto al campo rom e nello slogan “ruspe, ruspe”. Gli autori dell’inseguimento intanto erano stati arrestati e imputati di omicidio volontario. Ora qualcuno ha evocato il tragico episodio per deplorare la manifestazione di oggi. Questo qualcuno commette, caso mai fosse in buona fede, almeno due errori grossolani. Il primo, di immaginare, e pretendere, di essere l’autentico titolare della commozione e dello scandalo per l’orribile destino del giovane Dini, e di escluderne gli altri, e specialmente i promotori della manifestazione contro il razzismo. Il secondo, di compiere una vistosa discriminazione, dal momento che non succede che si prenda un atteggiamento simile quando a provocare una tragedia nelle strade siano persone – come chiamarle? “Non rom”? Eppure succede, molto spesso, e non di rado in circostanze altrettanto ignobili e irresponsabili.
L’avversione agli zingari –continua a piacermi, questo vecchio nome romantico, come quello di gitani – è la più profonda e irresistibile. Per quante motivazioni le si trovino, non coprono nemmeno l’uno per mille del pregiudizio. Ne feci un’esperienza per me memorabile a Sarajevo, dove perfino nella sventura dell’assedio gli zingari erano al bando. C’erano dei volontari italiani che andavano e venivano a Sarajevo per portare medicinali e altri aiuti essenziali, spesso a rischio della vita. Feci un viaggio di ritorno con un gruppo di loro, milanese. Ebbi molto tempo per ascoltare l’autista del furgone, un pensionato, gran tipo. Arrivò a raccontarmi che di domenica andava nella piazza del Duomo a vigilare e cacciare gli zingari. Mi disse che “ci voleva il lanciafiamme”. Non credo di essere riuscito a dirgli che cosa ho provato. Nemmeno di avergli detto niente di nuovo quando gli ho ricordato che il lanciafiamme o peggio era stato impiegato sulla scala del genocidio nei confronti degli zingari. Lo sapeva già. Non gli bastava. Sento dire più sobriamente, oggi, a Firenze, che “con la città ferita non è opportuno politicamente mostrarsi in pubblico accanto ai rom”. Sono così diversi, tutti gli umani, e così pieni di contraddizioni, anche quando non sono in malafede – oggi soffia forte anche la malafede. Mi chiedo accanto a chi tante persone di origine rom, o sinti, o caminante, o le altre, preferirebbero non apparire in pubblico.
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