Punto primo: “Il traditore” di Marco Bellocchio dura due ore e mezza e quando finisce dici “di già?”. Ne vorresti di più. Punto secondo: “Il traditore” di Marco Bellocchio esce oggi nei cinema, nell’anniversario della strage di Capaci, e non è una forzatura. Perché ogni volta che si racconta la storia di Tommaso Buscetta si racconta anche la storia di Giovanni Falcone, e sono due storie che non bisogna mai finire di raccontare. Punto terzo: “Il traditore” di Marco Bellocchio è un gran film e ora proviamo a spiegarvi perché.
Negli anni ’70, dopo il declino degli spaghetti-western e dei peplum – i due generi che assieme alla commedia avevano retto i destini dell’industria –, il cinema italiano viveva ancora dignitosamente grazie a tre generi: la sempiterna commedia (che però si stava trasformando in qualcosa di cupo, pensate a “I nuovi mostri”, a “Un borghese piccolo piccolo”), il “poliziottesco” e il cinema civile. Non sorprendetevi della definizione “genere” per il cinema civile (Rosi, Petri, Montaldo, Damiani, Ferrara, Vancini…): lo era, aveva i suoi codici, e spesso conquistava un grande successo di pubblico. Il “poliziottesco” sembrava il suo opposto: nella vulgata dell’epoca era un cinema “di destra” mentre il cinema civile era “di sinistra”, ma le cose – riviste a distanza di mezzo secolo – non erano così manichee.
Marco Bellocchio ha sfiorato il cinema civile nel 1972 con “Sbatti il mostro in prima pagina” – che non era nato come un suo progetto, subentrò a riprese già iniziate – e l’ha riscritto a modo suo nel 2003 con “Buongiorno, notte”, il film sul rapimento di Aldo Moro. Ma “Buongiorno, notte” era un film con una fortissima carica onirica (la scena in cui Moro esce dal covo al suono di “Shine On You Crazy Diamond” dei Pink Floyd) e che sotto traccia raccontava in realtà la tragica uccisione di un padre. Tema, quest’ultimo, centrale nel cinema di Bellocchio.
“Il traditore” invece parla dell’uccisione di un mondo. Buscetta è un uomo che per mille motivi decide di andare contro la “cultura” nella quale è cresciuto. Lo fa per vendetta, certo; lo fa anche per sopravvivere, e per uscire di galera; ma lo fa anche perché ha maturato la convinzione che quel mondo è “degenerato” rispetto alla sua gioventù e alla sua affiliazione come “uomo d’onore”. Lo fa perché secondo lui sono i corleonesi, Riina in primis, i veri traditori; e soprattutto lo è Pippo Calò, l’ex amico che gli ha ammazzato i figli. Il confronto con Calò – dove Pierfrancesco Favino e Fabrizio Ferracane rivaleggiano in bravura e sono entrambi da Oscar – è una scena shakespeariana, degna del “Lear” o del “Riccardo III”. La cosa incredibile è che è vera! Il confronto fra Buscetta e Calò durante il maxiprocesso è su youtube ed è super-cliccato (vedere qui, se volete: https://www.youtube.com/watch?v=JJM_XnaFUbw). Ma proprio la totale aderenza al reale da un lato (il film ricostruisce scrupolosamente gli eventi della vita di Buscetta) e la forza drammaturgica delle scene dall’altro (splendido copione di Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco Piccolo e dello stesso Bellocchio) fanno capire quanto “Il traditore” sia grande cinema.
Secondo noi Bellocchio ha realizzato una magnifica sintesi dei due generi di cui sopra, cinema civile + poliziottesco (ha girato scene d’azione degne di un “mestierante”, e si è molto divertito), mettendoci tutta la sua visionarietà, tutta la sua profondità analitica, tutte le implicazioni emotive e psicologiche senza le quali il suo cinema non esisterebbe. È del tutto evidente come Buscetta sia un personaggio tragico. Ed è persino ovvio che lo sia Falcone, con il destino che lo attende. Ma è stupefacente che lo diventino anche Calò, Totuccio Contorno, Stefano Bontate, persino Liggio e quel rozzo assassino di Riina – e tutti gli avvocati, quelli eroici, quelli che si indignano perché Contorno (strepitoso Luigi Lo Cascio!) parla solo in palermitano stretto e nessuno capisce nulla, quello che mette in difficoltà Buscetta nel confronto con Andreotti (stupendo, trucidissimo cammeo di Bebo Storti). Bellocchio sa che la tragedia shakespeariana, nel suo miracoloso equilibrio di tragico e grottesco, è il più formidabile strumento per ricreare la storia; ma sa anche che, facendo un film italiano, è giusto ibridarla con il nostro dna, con il cinema che ci ha reso grandi.
La scena più impressionante del film è secondo noi quella in cui Buscetta entra per la prima volta nell’aula del maxiprocesso. È solo, circondato dai poliziotti. Nelle gabbie ci sono decine di belve che, se potessero, lo ammazzerebbero con le proprie mani. È – come si diceva – il suo mondo, che lui ha rifiutato e che ora lo vuole morto. L’aula diventa un circo di urla, di insulti, di crisi isteriche che la legge non può tenere a bada. È tragedia, è farsa; si prova paura, si arriva persino a ridere; ed è TUTTO VERO. È il cinema che ricrea la realtà e la trasforma in metafora. È il cinema, appunto. È Marco Bellocchio.
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