Fiammiferi e coraggio: ecco quel che serve per dominare la dinamite.
Così diceva un personaggio della banda di Juan Miranda in uno dei grandi film di Sergio Leone, «Giù la testa».
Personalità e spregiudicatezza: ecco quel che serve adesso sulla scena politica italiana, fattasi più brutale e anarchica di un western spaghetti. Possiamo rimpiangere quanto vogliamo il tempo dei politici in doppiopetto e delle decisioni collegiali, del rispetto d’un certo bon ton istituzionale, della salvaguardia di un minimo di coerenza fra il dire e il fare, l’oggi e il domani. È un rimpianto giusto, comprensibile e condivisibile – ma non ci permette di capire un granché di quel che ci succede intorno.
Personalità e spregiudicatezza: oggi sono soltanto due gli attori che dimostrano di averne a sufficienza. Matteo Salvini ha conquistato il centro della scena politica, e il conflitto che ha aperto ieri sulla Open Arms dimostra per l’ennesima volta in quale modo gli sia riuscita quest’impresa. Matteo Renzi è stato fulmineo nel cogliere l’occasione della crisi di governo per rimettersi in partita. Consapevole del fatto che oggi solo lui può competere col leghista per capacità di leadership, l’ex premier si è impadronito della bandiera dell’anti-salvinismo. Per farlo, certo, s’è dovuto rimangiare molto di quel che aveva detto – dal #senzadime coi Cinque Stelle al no al taglio dei parlamentari. Ma, come detto, la coerenza non è più una virtù.
Per parte sua, Salvini gli ha riconosciuto ben volentieri il ruolo dell’antagonista. La contrapposizione conviene a entrambi. A Renzi, perché appoggiandosi al leader della Lega può rimettersi in piedi e costringere tutti gli oppositori di Salvini a misurarsi con lui. E al Ministro dell’Interno perché può fare leva sull’impopolarità del politico fiorentino per squalificare qualsiasi operazione quello stia tentando come una manovra di Palazzo. Proprio questo passaggio, d’altra parte, segna il punto sul quale la simmetria fra i due si rompe, e l’iniziativa renziana mostra tutta la sua fragilità.
Salvini ha indiscutibilmente il vento del consenso dalla sua, mentre Renzi è stato sconfitto due volte, nel referendum costituzionale del 2016 e alle politiche del 2018, e da quei colpi non ha ancora mostrato di sapersi o potersi riprendere. Gli italiani paiono disposti a tollerare ormai qualsiasi tipo di spregiudicatezza, ma non di non sentirsi rispettati. E oggi, a torto o a ragione, sembrano ritenere che Salvini li rispetti più di Renzi. Se, con un’operazione la cui paternità non può più essere di nessun altro che dell’ex premier, nascesse adesso una coalizione fra Cinque Stelle e Partito democratico – altrettanto incoerente di quella che ha governato il Paese finora, ma alleanza di perdenti là dove quella almeno lo era di vincenti –, la sensazione degli elettori di non esser rispettati non potrebbe che farsi ancora più robusta e diffusa.
Tanto più se la ragion d’essere di quella maggioranza fosse tenere Salvini lontano dal potere perché pericoloso alla democrazia. La delegittimazione, infatti, si trasferisce da un partito a quanti lo votano: chi dà il suffragio a un fascista è nel migliore dei casi un balordo, nel peggiore un fascista egli stesso. Ma quando si arriva al punto di delegittimare milioni di elettori – quasi la metà degli elettori, se sommiamo Fratelli d’Italia alla Lega – il gioco comincia a farsi assai rischioso.
«Miccia corta», commenta con un sorriso sardonico il rivoluzionario Sean di «Giù la testa», maestro di esplosivi, quando l’uomo di Miranda, animoso ma incompetente, salta per aria. Dimostrando che per dominare la dinamite fiammiferi e coraggio sono sì indispensabili, ma non sufficienti.
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