Caro Sergio,
la “spinta propulsiva” della rivoluzione d’ottobre si è esaurita da gran tempo. Ma si tratta dell’unico motivo per il quale il confronto pubblico sul centenario dell’evento è così flebile? Proporrei, accanto alle analisi e alle considerazioni relative al bolscevismo, che tanto ha condizionato il Novecento, di guardare, per quel che concerne in particolare l’Italia, all’intreccio fra il ’17, il ’68, dal quale ci dividono ormai quasi cinquant’anni, e il Pci.
Già; il Novecento, breve e interminabile, è stato definito come il secolo socialdemocratico e, insieme, come il secolo del comunismo. Il richiamo di quest’ultimo era legato a due ingredienti, coniugati con una ferrea disciplina di partito (in Russia tutto il potere non era passato ai soviet, bensì al partito comunista): l’utopia, la promessa di un mondo di liberi e uguali, dove il libero sviluppo di ciascuno sia alla base del libero sviluppo di tutti, e l’idea di un movimento che vada contro lo stato di cose esistente. Il ’68, fenomeno complesso e dai mille e mille volti, con la sua revoca di fiducia verso le autorità e le gerarchie, contesta aspramente proprio quella ferrea disciplina (altra fu la natura di certi gruppi degli anni ’70, dalle derive violente fino al “partito armato”, dal carattere iperideologico di alcune organizzazioni alla loro struttura verticale).
Il “partito nuovo” di Palmiro Togliatti, che pure presenta significativi tratti originali (con il contributo dato alla stesura della Carta fondamentale dello Stato nato dalla Resistenza, con l’atteggiamento dialogante verso istanze e posizioni culturali diverse dal marxismo, con l’idea di democrazia “progressiva” e inclusiva), con il ’68 – segretario Luigi Longo – subisce uno scossone (si pensi pure alla repressione militare sovietica del “socialismo dal volto umano” di Alexander Dubček). Tanto che negli anni ’70, caratterizzati dai successi elettorali del Pci di Enrico Berlinguer, quasi paradossalmente tante contraddizioni e tanti nodi irrisolti, magari difficili allora da scorgere, vengono pian piano al pettine, creando i presupposti per il declino di quella forza politica, ben prima del crollo del Muro di Berlino. Il referendum sul divorzio, nel 1974, rappresenta forse, in tal senso, una cesura, nonostante il contributo fondamentale del Pci al suo esito.
Cosa resta, invece, dell’utopia? Ci illuminano a tal riguardo le parole dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano: “L’utopia è come l’orizzonte. Cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare”.
E, dunque, è oggi concepibile sentirsi “comunisti senza partito”, per dir così? A cent’anni dalla rivoluzione bolscevica, credo che si possa coltivare l’idea di un mondo di liberi e di uguali, purchè non si pretenda di imporla agli altri o di trasformarla in Stato. Rispettando, anzi, altre utopie, religiose o politiche, nella consapevolezza, poi, che varie sono le strade per contrastare e cambiare l’esistente.
Danilo Di Matteo
3 Comments
L’utopia serve a continuare a camminare? Benissimo, serve ma diventa dannosa quando serve solo a questo, senza raggiungere o combinare niente, oppure a determinare disastri spaventosi. Le utopie del 900, quella bolscevica quella fascista e quella nazista sono state pagate da milioni di persone con inenarrabili tragedie personali. Fortuna ha voluto che fascisti e nazisti si trovassero contro uomini che all’utopia della democrazia , ” la peggiore forma di governo tranne tutte le altre ” hanno affiancato le cose giuste da fare giorno per giorno e anche un popolo, quello russo, che difese eroicamente la concretezza della patria piuttosto che le utopie ormai sgualcite da Stalin. A noi , per fortuna, toccano compiti più facili.
credo che oramai, in questo nuovo millennio, non ci sia piu’ bisogno di nuove utopie. Nemmeno dell’ utopia della democrazia, che ormai è affermata in larga parte del mondo: va solamente estesa, in maniera realistica non utopica, a quei popoli e a quelle nazioni che ancora ne sono sprovviste, e non c’è bisogno neppure di certe utopie (le nuove tecnologie, le utopie innovative, ecc..) come a volte qualcuno evoca…
evviva un mondo senza utopie !!!
E l’ Africa, di che cosa ha bisogno?
Sandra Festi.