Il cuore è uno zingaro – brano tratto da “Non sono razzista, ma” di Luigi Manconi e Federica Resta, Feltrinelli, 2017
Follonica, mattina del 23 febbraio 2017. Nel retro del supermercato Lidl, due donne di etnia rom vengono sorprese da tre dipendenti mentre frugano tra i cartoni da smaltire. La scena successiva: le due donne sono state rinchiuse all’interno di una gabbia che contiene altri cassonetti bianchi pieni di cartoni. Piangono, gridano a voce altissima, sbattono mani e braccia contro l’inferriata, cercando di forzarla. Fuori dalla gabbia, due dei dipendenti ridono rumorosamente e uno, con voce stentorea, si rivolge alle donne. Ripete più volte che non si può entrare nell’angolo dei rifiuti della Lidl: “No, non si può entrare”. A un tratto, l’eccesso di riso lo fa tossire. Un terzo addetto, nel frattempo, registra tutto col telefonino e si arrampica sulla sommità della gabbia per riprendere la scena dall’alto (successivamente due dei dipendenti verranno licenziati dall’azienda tedesca).
Non si può escludere che dietro il mancato scandalo per l’“ingabbiamento” di due persone, come è avvenuto a Follonica, vi possa essere un oscuro e temibile retropensiero. Se la gran parte delle persone intervistate nei giorni successivi tenderà a ridimensionare l’episodio, definendolo “una burlonata” attribuita a “ragazzi” (definiti sempre ed esclusivamente con tale termine), forse c’è di che riflettere. I due tratti che abitualmente vengono attribuiti da una parte rilevante del senso comune a rom e sinti – una certa ferinità e una sostanziale irriducibilità alla vita sociale – possono suggerire come sola forma di disciplinamento la soggezione in cattività. Dunque, l’idea che quel tipo di etnia possa/debba essere “chiusa in gabbia”. Si tenga conto che oggi l’etichetta “zingaro” (o, più diffusamente, “rom”) risulta al primo posto nella classifica della riprovazione sociale. A seguire, l’elenco dei “nemici” subisce variazioni continue dovute in genere all’influenza di fatti di cronaca che abbiano avuto una eco particolare e nei primi posti si alternano soggetti nazionali o regionali, destinatari, di volta in volta, dell’ostilità sociale. Non si dimentichi, infatti, che almeno tre gruppi regionali italiani si sono trovati, nell’ultimo mezzo secolo, a contendersi il primato, o almeno le piazze d’onore, in questa speciale competizione: “i siciliani”, “i sardi”, “i calabresi”. Ma il dato costante è che “gli zingari”, persino nei momenti di maggiore successo degli “albanesi” e dei “romeni” (corrispondenti all’incremento dei flussi di queste nazionalità verso l’Italia), hanno sempre saldamente occupato il primo posto nel podio (dell’odio). Eppure non è stato sempre così. A partire dalla questione, tutt’altro che insignificante, del nome. Qui si è utilizzato e si continuerà a utilizzare il termine “zingaro” in modo neutrale perché fino a una certa fase l’accezione positiva prevaleva nettamente su quella critica. Oggi le cose sono cambiate. E quel termine “zingaro” viene rifiutato innanzitutto dalle comunità rom e sinti (alle quali vanno aggiunte alcune centinaia di caminanti, presenti prevalentemente nella zona di Noto, in Sicilia) e dalle associazioni che ne tutelano i diritti. Si preferisce, cioè, il ricorso alle parole che segnalano l’origine etnica. Ma, come si è detto, non è stato sempre così. Quasi mezzo secolo fa, al festival di Sanremo del 1969, trionfava la canzone Zingara, sontuosamente interpretata da Iva Zanicchi (e da Bobby Solo). Appena due anni dopo Nada e Nicola di Bari portavano al successo Il cuore è uno zingaro. Dunque, il maggiore evento nazional-popolare del nostro paese, dove si riflettono la mentalità condivisa e i mutamenti culturali e del costume, celebra l’epopea gitana. Già nel 1968, Enzo Jannacci portava al secondo turno di Canzonissima Gli zingari: e cantava di “gente bizzarra, svilita”, che un giorno arriva di fronte al mare. E solo “il vecchio, proprio lui, il mare, parlò a quella gente ridotta, sfinita. Parlò ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di guerra, d’amore, di bene e di male”. Poi, nel 1971, Mario Barbaja nella ballata Il re e lo zingaro ripropone la figura del gitano come eroe di un irriducibile nomadismo verso la libertà. E nel 1976 Claudio Lolli interpreta Ho visto anche degli zingari felici, in cui i protagonisti giocano un ruolo politico-profetico all’interno di un racconto dallo stile espressivo-visionario. E, ancora, nel 1978, Fabrizio De André canta Sally, Francesco De Gregori Due zingari e Umberto Tozzi Zingaro. Al personaggio del gitano si continuano ad attribuire tratti fiabeschi: lo zingaro sembra capace di raggiungere quelle mete dell’interiorità, della libertà, della consonanza con la natura, il cui senso per le comunità sedentarie e confinate nelle città moderne è smarrito. E c’è un verso, nella canzone di Tozzi, che, letto ora, appare davvero “scandaloso”: “la scuola ti ruba i figli e non sono più tuoi”. Sono parole che oggi nessuno potrebbe permettersi. Frequentare la scuola pubblica è unanimemente considerata la principale, forse l’unica forma di integrazione che possa consentire alle minoranze rom e sinti una convivenza pacifica con gli altri residenti nel territorio e un progressivo accesso al sistema della cittadinanza. E dunque, quella frase – se fosse riproposta ai giorni nostri – suonerebbe come l’affermazione di un relativismo radicale fondato su una sorta di mito del buon selvaggio. Un mito indirizzato contro il progresso e contro le sovrastrutture prodotte dai processi di civilizzazione (“la scuola che ruba i figli”). Al di là del fatto che si tratta di un’assoluta scempiaggine, è indubbio che chi oggi ripetesse quell’affermazione, e violasse l’obbligo scolastico per i propri figli, si troverebbe (dovrebbe trovarsi) i carabinieri alla porta.
Ma, a prescindere da questi accenti estremi, ciò che conta è che fino a non molti anni fa, nell’immaginario culturale e sociale del nostro paese, la figura dello zingaro e della zingara abbia conservato quei connotati di romanticismo magico e di vitalismo naturalistico di cui si è detto. E la parola “zingaro”, con questa forza evocativa, sopravviverà a lungo nella musica leggera italiana così come nella letteratura, specie in quella popolare. Non solo. Nel 1995 la Mattel lancerà sul mercato Esmeralda, la bambola zingara della linea di Barbie, parallelamente al successo mondiale del film Disney Il gobbo di Notre Dame. E in Italia, per anni (dal 1996 fino al 2002), il programma televisivo preserale con i maggiori indici di ascolto vide come protagonista Cloris Brosca nei panni della Zingara, che leggeva le carte e prediceva il futuro. In tutte queste rappresentazioni, lo zingaro e la zingara trasmettono un’immagine che evoca, per un verso, uno stile di vita fuori dalle regole e dalle convenzioni sociali e, per un altro, ambientazioni agresti e scenari esotici. Insomma, lo zingaro è il prototipo di un eroe premoderno e preindustriale, ispirato a valori forti e incontaminati, che rimandano allo spirito di una comunità chiusa, alla contrapposizione natura-cultura e al conflitto perenne tra integrazione e ribellione. E, invece, decenni dopo, le ultime tracce che se ne ritrovano nella musica leggera sembrano registrare un drastico cambiamento di clima e di senso comune. Chi percepisce tutto questo e le radici profonde, anche sovranazionali e geopolitiche, che lo determinano è Fabrizio De André che, nella splendida Khorakhané, canta: “i figli cadevano dal calendario/Jugoslavia Polonia Ungheria/i soldati prendevano tutti/e tutti buttavano via”. E questo porta a scoprire, in mezzo a noi, che “in un buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro”. E il paesaggio sociale e urbano ne risulta segnato: “Il cuore rallenta la testa cammina/in quel pozzo di piscio e cemento/a quel campo strappato dal vento/a forza di essere vento”. E così questo ribaltamento dell’antico stereotipo porta all’acutizzarsi del pregiudizio e a una crescente ostilità, cantata dai Punkreas, nel 2000, con questi versi sarcastici: “Chiudete le finestre sbarrate le persiane/pericolo in città di nuovo queste carovane/nomadi gitani con abiti sfarzosi/si nota a prima vista che son pericolosi/cara io vado dai vicini tu chiudi con la chiave e porta su i bambini/se fanno i capricciosi e non vogliono dormire/racconta che gli zingari li vengono a rapire”. Come si vede a questo punto e a questa data, la catastrofe sociale e culturale si è già consumata. E così nel 2015, un giovane autore, Calcutta, scrive: “suona una fisarmonica/ fiamme nel campo rom” e nel 2016 un gruppo rock, gli Zen Circus, nel brano Zingara (Il cattivista) dà ironicamente espressione a un diffuso sentimento di intolleranza: “Zingara che cazzo vuoi io so che cosa fai/stringo il portafogli vai via o chiamo la polizia/maquanto puzzerai tu non ti lavi mai/zingara ci fosse lui vi bruciava tutti sai/se siete ancora qui è colpa dei buonisti”. Insomma si registra una sorta di aggiornamento, in chiave di cronaca nera e di stigmatizzazione criminale, dell’immagine popolare dello zingaro. Bisogna guardarsene, bisogna proteggersene, bisogna essere disposti ad adottare mezzi eccezionali, vista l’eccezionalità del pericolo che costituiscono. Come si vede, il parlato di questi brani intende restituire il discorso domestico e pubblico quale si manifesta nei luoghi della vita quotidiana: nei bar, negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle case. E, tuttavia, di quella radicale estraneità dell’eroe gitano sopravvive una traccia, sia pure deformata, nei tratti di una insopprimibile resistenza all’integrazione che, manifestandosi come dato naturale, evoca una sorta di condizionepre-civile se non addirittura pre-umana. In qualche modo “animale”.
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Terribile involuzione. Racconto questo: davanti alla Coop di Vicchio stava ( 2010? ) un giovanotto zingaro che , quando gli dissi che non avevo spiccioli, mi augurò a mezza voce che i miei soldi li spendessi tutti in medicine. Replicai anche a te e famiglia e la cosa finì lì. La seconda volta che lo incontrai decisi che la partita non poteva chiudersi così e gli diedi un euro. Mi ringraziò sorpreso. Insomma, siamo diventati amici. L’ho ritrovato quattro anni dopo in via dei Servi, ci siamo abbracciati, gli ho dato 5 euro e mi ha proclamato grand’uomo tra lo stupore dei passanti. Non l’ho più visto. La lezione è che si supera il muro, di là c’è una creatura proprio come te, che non mendica perché gli piace, che si lava e profuma appena può e ti può raccontare di quella sua libertà dal luogo, dalla casa, dal panorama di ogni giorno. Però che lunga strada dobbiamo fare, gente.