Tra gli ultimi atti del Parlamento europeo prima delle elezioni arriva al voto a Strasburgo la Direttiva sulla riforma del copyright, proposta dalla Commissione europea nel 2016. L’urgenza è grandissima: non ci sono i tempi per un aggiornamento di seduta e la legge sarebbe rinviata alla prossima legislatura per ricominciare l’iter di una normativa fortemente contrastata dai nuovi poteri forti dell’informatica.
Si tratta di aggiornare il copyright per imporre alle multinazionali del digitale il riconoscimento del “giusto compenso” per l’uso di testi, anche video, protetti dal diritto d’autore e attualmente non pagati sulle piattaforme digitali. Il lavoro strumentale delle lobby è forte: sono girate campagne denigratorie e addirittura minacce di morte (il relatore cristianodemocratico Axel Voss ha subito allarmi-bomba a casa e in ufficio) e gruppi interessati pagano 350 euro a chi va a manifestare contro. Una finestra di particolare vulnerabilità è rappresentata dai paesi dell’Est, anelli deboli delle libertà civili, esposti alle pressioni delle lobby. Si temono anche gli emendamenti del gruppo socialista che, sperando di migliorare un testo già buono, rischiano di provocare la caduta di una direttiva necessaria.
La norma è, infatti, di assoluta importanza. Sarà che il 16 febbraio 1977 sono stata relatrice della ratifica da parte dello Stato italiano della Convenzione universale del diritto d’autore (1971), ma in ogni caso intendo enfatizzare la necessità di un’innovazione importante non solo per tutto ciò che significa, come dicevo in anni lontani, “il diritto alla creatività”, ma le insidie che sul mezzo e sui messaggi metteva in guardia Marshall McLuhan, ben consapevole dell’ingresso del mondo nell'”età della comunicazione”.
Circa i contenuti, detto in soldoni, la gente non ha nulla da temere (o tanto meno da pagare). Chi deve pagare sono le grandi imprese del virtuale che praticano, senza pagare gli autori, la pirateria dei testi di cui tutti ci serviamo per acquisire conoscenze di opere e per recuperare citazioni. Si tratta di difendere non i giornalisti, ma la stampa e la “libertà di stampa”, che è “libertà di opinione per tutti” e non per gli addetti ai lavori. La stampa deve conservarsi forte e indipendente: è il primo baluardo contro le fake news e solo la garanzia della professionalità e la pluralita’ delle idee assicurano la democrazia. Un costo necessario per mantenere i diritti di tutti a non subire danni dal nuovo imperialismo culturale informatico. Ne fanno le spese i giovani ormai incorporati negli smartphone e ideologizzati dai social, ma l’attentato alla libertà di pensiero intacca anche gli adulti acculturati che subiscono l’effetto-verità che deriva da messaggi-merce.
Un tempo in molti eravamo favorevoli all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti (istituito nel 1963), proposta referendaria del partito radicale respinta nel 1997: oggi sembra necessario farne il garante delle regole che si è dato – Carta dei doveri giornalistici e Direttiva del Consiglio d’Europa sull’etica nel giornalismo,1993; Carta deontologica,1995; Carta di Treviso sui minori, 2006; Carta di Roma su rifugiati e immigrati, 2008 (la cittadinanza italiana o comunitaria non limita l’iscrizione all’Albo); decalogo sui giornalisti sportivi, 2009; codice di autoregolamentazione su vicende giudiziarie trasmesse per radio e tv – e delle leggi dello Stato che attuano il diritto all’informazione previsto dalla Costituzione.
Il governo italiano voterà contro la riforma. Non che il rispetto italiano della libertà sia mai stato esemplare, se il nostro paese è al 26 posto nella graduatoria di Reporter senza frontiere; ma dagli slogan della campagna elettorale 2018 si era già capito che le voci scomode non erano gradite: “i giornaloni ci attaccano perché non vogliono rinunciare ai finanziamenti” (detto sapendo che da anni i finanziamenti sono stati aboliti), “i pennivendoli” hanno offeso la Raggi “ma le puttane sono loro”, gli “infimi sciacalli”, “menategli a ‘sti giornalisti”, “vanno indicati all’opinione pubblica”…. Questi slogan sono stati elettoralmente premiati: vorrei sperare per disattenzione, come gli inglesi per Brexit.
McLuhan aveva avvertito che nel grande beneficio delle innovazioni era riposta una grande insidia: i padroni del vapore vogliono ancora una volta la coscienza di quelli che da sudditi sono diventati cittadini. Se i cittadini diventano “gente” (e non “Popolo”) e tornano all’analfabetismo dei diritti, la libertà non viene rinnegata nel lessico, ma naufraga nell’alienazione digitale e chi voterà sotto l’effetto dei messaggi forse pagherà la sua superficialità. I padroni non sterminano più come nella Manchester di Peterloo; ma possiamo sapere quello che vi successe in un grande film perché il 16 agosto 1819, giorno del massacro di St. Peter’s Field, era presente un giornalista del Times che tornò subito a Londra per dare la notizia.
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