La “guerra per Kirkuk” è scoppiata alla mezzanotte fra domenica e lunedì. Lunedì mattina era sostanzialmente finita, con un esito che travolge il governo regionale curdo come l’abbiamo conosciuto fino alla vigilia. L’esercito iracheno e soprattutto le sue truppe a prevalenza sciita Ashd al Shaabi (la “Mobilitazione popolare”), agli ordini formali del primo ministro Abadi ed effettivi dell’uomo forte iraniano Qasem Soleimani, sono riuscite a occupare il territorio e la città di Kirkuk trovando una resistenza inferiore a qualunque previsione. Che cosa è mancato alla resistenza dei peshmerga impegnati al fronte e alle migliaia di volontari accorsi da ogni parte? Una cosa che non sapevano, e una che non credevano. Non sapevano che un accordo era stato stabilito dagli attaccanti e per loro personalmente dal generale Soleimani con l’ala del Partito di Suleymanyah e Kirkuk che fa capo alla famiglia Talabani, e che in tutto l’ultimo periodo ha alternato le pubbliche adesioni al referendum e alla sua difesa con i tentativi di ostacolarne svolgimento ed esito prima, e di sconfessarlo poi. Questa corrente (che lo nega) ha sottratto alla resistenza una parte essenziale di armati e armi, ritirandoli in piena battaglia e isolando le divisioni fedeli alla decisione presa, al comando del veterano Kosrat. E che cosa non credevano? Che la “coalizione”, quella di cui erano stati per tre anni e mezzo gli stivali sul terreno, e in particolare gli americani, avrebbero lasciato mano libera all’avanzata irachena, anche dopo che a Baghdad si era motivata la presenza di Soleimani (nella lista nera dei paesi occidentali) come quella di un “consigliere militare” delle milizie Ashd al Shaabi. Gli ingredienti di questa precipitazione possono suggerire echi shakespeariani: c’è la vedova di Jalal Talabani che simula il consenso alla vigilia e trama, con figli e nipoti, per eliminare i rivali; c’è l’eminenza nera del fronte nemico che viene in casa curda a commemorare il defunto Mam Jalal e da lì passa a comandare le operazioni contro i curdi… Troppo alto, Shakespeare, per queste stature: io, che seguo da anni e non di rado ora per ora le cose di qui e sono sbalordito da quanto riescano a superare la mia comprensione, ho spesso la tentazione di ricorrere al vecchio Machiavelli, alle sue corti, ai suoi attori travolgenti quando il vento soffia in loro favore e travolti appena gira, alle sue doppiezze, ai suoi capitani di ventura in bilico sempre fra il soldo e l’ambizione personale. Alla sua Fortuna, con una variante: che qui la Fortuna si compra all’asta. Machiavelli avrebbe dovuto conoscere la signora Hero Talabani, e anche Masud Barzani, così trasparente, così sconosciuto. La notte di lunedì a Kirkuk era gremita di uomini e donne risoluti, perfino entusiasti, ad affrontare la prova, ragazzi e vecchi, molti con le loro armi personali, leggere, un po’ tristi quelli che l’arma non ce l’avevano e però aspettavano di toglierne una al nemico da un momento all’altro. All’improvviso, dopo poche ore in cui l’avanzata irachena sembrava respinta dovunque, ma i peshmerga si trovavano a corto di munizioni, quella gente gridava al tradimento e non tratteneva il pianto dirotto. Uno degli uomini forti che ora piangevano aveva gridato prima: “Non abbiamo avuto paura di Ali il Chimico, e volete che abbiamo paura di Abadi, che vendeva polpette a Londra?”. Spiegavano dei peshmerga di aver ricevuto l’ordine di ritirarsi dalle postazioni loro assegnate. Arrivavano rinforzi, ma era una partita persa. E già l’idea che le postazioni sguarnite da peshmerga del Puk, così fieri della loro bravura, venissero rimpiazzate da peshmerga del Pdk di Erbil o Duhok sembrava alla gente di Kirkuk come un’onta.
Scrivo quando non so ancora valutare l’entità degli scontri a fuoco, più prolungati in città accanitamente divise come Tuz Khurmathu, e di morti o feriti. Ma a mezza mattina di lunedì le famiglie curde del circondario e di Kirkuk riempivano già la strada della fuga verso Erbil, e le stesse due divisioni di Kosrat ripiegavano verso Suleymanyah, dove qualche resa di conti sarà inevitabile. E la “coalizione”? La prevalenza dello humour anglosassone è riconoscibile in questa dichiarazione: “The US-led Global Coalition states that the ‘engagement’ between the Iraqi and Kurdish forces on Monday near Kirkuk were not ‘attacks’ but ‘misunderstanding’”. Si è lasciato che la disobbedienza imprevedibilmente tenace di Barzani e Kosrat nello svolgimento del referendum venisse castigata, e che il negoziato auspicato fosse sostituito dal fatto compiuto del passaggio in mano irachena (leggi: iraniana) dell’intero territorio abbandonato dai militari iracheni in fuga davanti all’Isis nel 2014, e difeso dai curdi. Un Kurdistan non solo pressoché dimezzato dalla perdita dei territori “contesi”, ma ulteriormente spaccato in due, tra una Suleymanyah infeudata all’Iran e una Erbil inevitabilmente rigettata nelle braccia della Turchia, riporta il sogno dell’indipendenza curda al più duro dei risvegli. Forse è troppo presto per questa conclusione e molti fili restano da tirare: non so. Le preoccupazioni sollevate nelle stesse ore nei potenti vicini dalla vittoria finale dei curdi del Rojava e della coalizione contro l’Isis a Raqqa trovano un primo sollievo nella sconfitta di questi curdi adiacenti.
Si potrà ammonire che questo esito era iscritto nella decisione di sfidare l’intera comunità internazionale con il referendum. E’ vero anche il contrario: che l’opposizione strenua a un referendum voluto come simbolico e capace di inaugurare un confronto pacifico ha offerto ai troppi nemici dei curdi un’occasione per mostrarsi titolari di un’autorizzazione internazionale. Fin qui, il punto più alto è stato segnato baldanzosamente dall’Iran, e da quel potere iraniano, i Guardiani della Rivoluzione, che la retorica di Trump aveva appena denunciato come il responsabile principale del terrorismo esterno e della spoliazione dei cittadini iraniani. Sul versante iracheno le milizie Hashd al Shaabi, nelle circostanze della guerra all’Isis e nell’attuale ostilità ai curdi, hanno sempre più preso un potere somigliante a quello dei pasdaran iraniani.
Un’amarezza era nel conto fin dalla vigilia: che una volta passata, com’era nel copione, la parola alle armi, si sarebbe trattato comunque di armi americane fornite agli uni e agli altri. In questo caso, molto più agli uni che agli altri. Un ex ambasciatore americano, peraltro notorio amico dei curdi, ha detto che non era un bello spettacolo vedere i luccicanti carri Abrams americani forniti all’esercito iracheno avanzare in mano agli Ashd al Shaabi contro i curdi. Kirkuk ha da lunedì un nuovo governatore nominato da Baghdad, arabo. Il prezzo del petrolio ha fatto un balzo.
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