Un traditore leale. Un moralista spregiudicato. Un sincero bugiardo. Un perdente di successo. Un infallibile conquistatore di secondi posti. Insomma, un ossimoro in carne e ossa. Per chi segue la politica italiana con l’occhio dell’entomologo o dell’antropologo, cioè per quasi tutti ormai, costretti a questo esercizio accademico dalla deriva di una comunità di professionisti improvvisati incapaci di affrontare le questioni vere con conflitti veri, e ridotti a seguire, eventualmente tifando, il quotidiano talent show delle ambizioni personali, Dario Franceschini è uno dei soggetti più misteriosi e quindi intriganti.
Nella Prima repubblica fu zaccagniniano, moroteo, demitiano e martinazzoliano, nella seconda mattarelliano, prodiano, veltroniano, bersaniano, renziano e zingarettiano. Adesso, in vista della corsa al Quirinale, è per la prima volta, a 63 anni, schiettamente franceschiniano. E non si capisce se è il segno di una raggiunta maturità politica o solo la mesta conseguenza del declino.
Tra tutti i cripto-candidati al Quirinale appare però l’unico in grado di mettere al servizio di esigue possibilità di successo una strategia lineare: si propone come l’unico vero anti-Draghi per il popolo dei peones che il mese prossimo, quando i grandi elettori si riuniranno a Montecitorio per scegliere il successore di Sergio Mattarella, saranno presi dalla fregola di impallinare nel segreto dell’urna il presidente del Consiglio, troppo marchese del Grillo per i gusti di una plebe che il privilegio se lo suda ogni giorno.
Il potere immobile
I silenziosi calcoli dell’eterno ministro della Cultura, in carica dal febbraio 2014 con la sola breve parentesi del governo gialloverde (giugno 2018-settembre 2019), traducono in prassi immobile ciò che il nostro eroe ha imparato in 40 anni di pazienti avanzate e sconfitte brucianti. Si copre a destra flirtando con Giorgia Meloni e nominando alla direzione dell’Archivio centrale dello stato Andrea De Pasquale, l’uomo che poco tempo prima, da direttore della Biblioteca nazionale, aveva accolto la donazione dell’archivio del neofascista Pino Rauti con gioia solenne, come se fosse un padre della patria.
Il ministro dei Beni culturali incassa in silenzio la blanda censura di Mario Draghi, che toglie a De Pasquale la competenza sui documenti desecretati sulle stragi neofasciste, e conferma la nomina fatta mentre annuncia trionfale, guardando a sinistra, di aver tolto ai sovranisti di Steve Bannon la storica certosa di Trisulti che pure gli aveva consegnato lui quattro anni prima, guardando a destra. Si guarda intorno e calcola. A settembre 2019, mentre si propone come principale sponsor politico del nuovo governo giallorosso di Giuseppe Conte, nomina segretario generale Salvatore Nastasi, di fatto consegnandogli un ministero che lo annoia, avendolo individuato come prezioso anello di collegamento con il mondo renziano e con quello berlusconiano, via Gianni Letta. È amico di tutti ma gli unici dissapori che non smentisce mai sono quelli con Draghi che non si sa bene che cosa gli abbia fatto, e anzi cerca ogni tanto di porgere al suo ministro ramoscelli d’ulivo, ma lui non raccoglie: sappiano i peones che hanno in uggia Supermario che, se alla roulette di gennaio riescono a impallinarlo, il loro uomo è Dario da Ferrara.
Lezioni democristiane
Franceschini ricama i suoi arabeschi psico-politici intrecciando i 45 anni di esperienza politica con le tecniche della democristianità e innegabili doti personali. Le prime le ha apprese fin da piccolo dal padre Giorgio, avvocato di Ferrara di cui il figlio seguirà anche le orme professionali, partigiano democristiano e poi deputato scelbiano (cioè la destra più a destra della Dc). Ma Ferrara era una storica roccaforte rossa.
Negli anni Settanta dello strapotere democristiano sull’Italia, esordire in politica da adolescente democristiano nelle battaglie studentesche al liceo scientifico Antonio Roiti è stato il primo ossimoro del giovane Dario, democristiano in minoranza e all’opposizione. Questa particolare scuola di sopravvivenza affina le sue doti: velocità nel vedere prima degli altri il cambiamento dei venti, tempismo micidiale nello scegliere l’attimo giusto per il cambio di rotta e spregiudicatezza estrema, moralmente giustificata dalla necessità di difendere i valori cristiani in terra nemica, in partibus infidelium .
L’omaggio più solenne a queste abilità lo pronunciò un giorno Matteo Renzi, proveniente dalla stessa corrente dc: «Dove c’è Franceschini c’è maggioranza». Eppure mai è stato leader fino in fondo, e quando ci ha provato è stato sempre sconfitto, per una ragione profonda che solo lui conosce, forse. In questo il ragazzo del 1958 attratto alla Dc non tanto dal vagamente reazionario esempio paterno quanto dal fascino inedito di Benigno Zaccagnini, “l’onesto Zac”, il segretario per bene che fece sognare ai giovani democristiani del post ’68 una militanza eticamente ed esteticamente legittimata come quella dei giovani comunisti un po’ di simpatia la fa. Qualche spontanea intemperanza interferisce con il cinismo delle sue trame.
L’eredità negata
Nel baratro della politica italiana, oggi impegnata a discutere con serietà apparente l’ipotesi di avere come presidente della Repubblica l’evasore fiscale profeta del Bunga bunga, è quindi doveroso chiedersi se sia una prospettiva orribile o confortante quella di avere un giorno al Quirinale l’autore del romanzo Daccapo (Bompiani 2011) .
E sì, perché a partire dal 2008, anno del terzo e ultimo trionfo elettorale di Silvio Berlusconi, la vita di Franceschini ha corso su due binari paralleli. Sul primo, politico, è il vice di Walter Veltroni alla segreteria del neonato Pd; nel 2009 il fondatore si dimette e lui viene eletto come segretario di transizione grazie ai voti di Pier Luigi Bersani ottenuti, nonostante la larvata ostilità di Romano Prodi e Massimo D’Alema, in cambio della promessa di non candidarsi alle imminenti primarie; poi invece si candida proprio contro Bersani che non la prende bene; poi si fa promettere da Bersani, che è persona paziente, il posto di capogruppo alla Camera in caso di sconfitta; poi smentisce il Corriere della sera che rivela il patto («Una menzogna e per me un insulto, vecchie tecniche da palazzi romani», sibila a schiena dritta); poi, appena Bersani viene eletto segretario incassa la nomina a capogruppo; poi conduce per due anni la ferma opposizione al governo Berlusconi che sta conducendo l’Italia verso il baratro da cui viene asseritamente salvata dal presidente Giorgio Napolitano che chiama Mario Monti come salvatore della patria (novembre 2011). Mentre avviene tutto questo, Franceschini segue il binario parallelo della sua mente vergando i capitoli di Daccapo, che merita un posto nella storia della narrativa per la trama. Dunque, c’è un vecchio notaio di Mantova che sul letto di morte confida al figlio, notaio anche lui, che nel corso della sua vita morigerata ha ingravidato ben 52 (cinquantadue) prostitute che hanno sfornato altrettanti bambini e bambine dei quali il prolifico giureconsulto fornisce al collega figlio accurato catalogo.
Fatta la sconvolgente rivelazione, il notaio padre perde definitivamente conoscenza, come l’impiegato della Zecca nella scena iniziale di La banda degli onesti , film di culto per la generazione di Franceschini interpretato in modo immortale da Totò e Peppino De Filippo.
Il notaio figlio si mette alla ricerca del piccolo esercito di fratelli non germani. Nel frattempo il notaio padre muore e il notaio figlio trova due testamenti, uno che lascia tutto al figlio legittimo, un altro che ordina di dividere il patrimonio in parti uguali tra tutti i 53 figli.
Il notaio figlio, formato all’insegnamento dell’onesto Zac, strappa il testamento che lascia tutto a lui e si predispone a dividere fraternamente con i fratelli figli di madri (ig)note.
In questa trama fantasiosa si rintraccia in filigrana il tema autobiografico dell’eredità negata. Nel 1984 Ciriaco De Mita (capo della Dc dal 1982 al 1989) aveva designato il giovane consigliere comunale di Ferrara come capo del movimento giovanile, ma all’immediata vigilia del tumultuoso congresso di Maiori (nella penisola sorrentina) cambiò idea e benedisse Renzo Lusetti di Reggio Emilia, coetaneo del trombando di Ferrara. Tre anni dopo, a 28 anni, Lusetti era già deputato.
Franceschini è rimasto a fare il consigliere comunale per altri 17 anni, durante i quali, da buon democristiano, è però riuscito a portarsi a casa una nomina nel collegio sindacale dell’Eni, un buon sostegno al reddito e alle relazioni.
Nel 1994, approfittando del rimescolamento di carte dopo Mani pulite, porta il Ppi (Partito popolare italiano, effimero successore della Dc) nella maggioranza del comune di Ferrara e diventa assessore alla Cultura del mitico ed eterno sindaco comunista Roberto Soffritti.
Un anno dopo si candida contro Soffritti che però non si spaventa: è sindaco da 12 anni e vince a mani basse, Franceschini prende il 19 per cento e non va neppure al ballottaggio. Non fa di lui un profeta in patria neppure l’essere diventato, all’inizio di quell’anno, uno dei due giovani vicesegretari del Ppi messi al fianco dell’anziano leader Franco Marini: l’altro è Enrico Letta.
Il problema Letta
Il capitolo Letta è uno dei più complessi del romanzo Franceschini. Il ragazzo di Ferrara si dichiara figlio di Zaccagnini, il cuore antico di una Dc tutta politica (onesta) e sacrestia; il ragazzo di Pisa è figlio di Nino Andreatta, il cuore moderno di una Dc tutta politica e tecnocrazia. Zaccagnini, un medico prestato alla politica, restituisce a ragazzi stanchi della degenerazione clientelare dei capicorrente il piacere dell’onestà e la nostalgia di una passata età dell’oro; Andreatta, un economista eretico e anticonformista, pensa globale e insegna a coniugare la politica italiana con le dinamiche del capitalismo mondiale.
Zaccagnini ha più figli del notaio di Mantova, Andreatta ne ha solo due, Romano Prodi e Enrico Letta. Per cui non si può non notare nella biografia politica e umana di Franceschini un dettaglio gravido di conseguenze: nel 1993 il 35enne avvocato di Ferrara fa il consigliere comunale di opposizione (doloroso contrappasso per un democristiano) mentre il 27enne studioso di Pisa è non solo braccio destro del capo del Movimento giovanile Dc Simone Guerrini (oggi capo della segretaria politica di Mattarella) e capo dei giovani Dc europei, ma soprattutto capo della segreteria del ministro degli Esteri, appunto Andreatta. Franceschini e Letta corrono affiancati per tre anni con Marini, fino a che, nel 1998, cade il governo Prodi e Andreatta piazza nel governo D’Alema proprio il suo braccio destro. Letta diventa il più giovane ministro della storia.
Franceschini cerca di mettersi in pari con le armi che ha. Chiede e ottiene da Marini la promessa che il successore alla segreteria del Ppi sarà lui. Ma anche stavolta qualcosa va storto. Sei mesi dopo, in vista delle elezioni Europee del 1999, si profila la candidatura di Pierluigi Castagnetti come capolista nel collegio Nordest (Emilia-Romagna, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia).
Castagnetti è stato segretario della Dc dell’Emilia Romagna quando Franceschini esordiva in politica ed è un riferimento della sinistra Dc, la stessa correntona del ragazzo di Ferrara.
A un certo punto il placido Castagnetti si imbizzarrisce e accusa Franceschini di tramare contro di lui: starebbe lavorando per candidare al suo posto il boss ferrarese Nino Cristofori, storico braccio destro di Giulio Andreotti anche a Palazzo Chigi.
Castagnetti minaccia di ritirare la sua candidatura e Marini si fa in quattro per ricucire. Franceschini deve giurare a un Castagnetti inopinatamente incazzato che lui mai e poi mai avrebbe solo pensato una simile trama. Passano pochi mesi, Castagnetti si candida alla segreteria del Ppi e l’uscente Marini decide di appoggiarlo, chiedendo a Franceschini di farsi da parte. Il giovanotto si impunta e decide di andare avanti lo stesso, fedele a un pilastro della sapienza Dc (che un giorno Renzi, proprio lui, gli rinfaccerà): anche quando non hai alcuna possibilità di successo, una candidatura ti posiziona.
Va alla sfida contro Castagnetti, perde sonoramente, con il 16 per cento dei voti dei delegati contro il 70 per cento del vincitore, e va subito all’incasso: sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle riforme istituzionali.
Si occuperà della famigerata riforma del titolo V della Costituzione, il federalismo disfunzionale in salsa di centrosinistra, disastro che naturalmente non rivendicherà mai, come Trisulti a Steve Bannon. Nel frattempo però l’arcirivale Letta ottiene la promozione a ministro dell’Industria e il nostro continua a soffrire.
Quando arriva il Pd
Nel 2001 entra finalmente in parlamento e dopo la rielezione del 2006 diventa capogruppo alla Camera dell’Ulivo, la formazione che precede la fusione di Ds e Margherita e la nascita del Pd. Nel 2007 Veltroni lo sceglie come vicesegretario del nuovo partito, rendendo esplicitamente omaggio al tempismo con cui era stato tra i primi a salire sul carro del futuro vincitore, ma anche predisponendolo alla madre di tutte le sconfitte, quella contro Bersani nel 2009.
Il giovane di Ferrara aiuta volenterosamente Veltroni a scavare la fossa al governo Prodi. In nome della “vocazione maggioritaria” del neonato partito i due cercano le elezioni anticipate per provare su strada il prototipo. Escono di strada alla prima curva e dalla disfatta elettorale del 2008 la sinistra italiana non si è ancora ripresa. Rosy Bindi li fulmina a caldo: «Veltroni e Franceschini hanno distrutto il centrosinistra». Renzi, più sintetico, ribattezza Franceschini “vicedisastro”.
La partita contro Bersani nasce dunque storta. Franceschini gli aveva promesso di non sfidarlo alle primarie. Ma la parte più rancorosa di un partito dominato dai rancori lo convince a correre come se non fosse il segretario ma lo sfidante del potere costituito. Denuncia l’esilità del suo pensiero politico lasciandosi imbambolare da rottamatori nuovi (il sindaco di Firenze Renzi) o improbabili (l’ex segretario dei Ds Piero Fassino) che lo usano come testa d’ariete per la loro spedizione punitiva contro la “ditta” bersaniana (e dalemiana). Lui lascia che vecchi arnesi post comunisti usino la sua campagna congressuale per i loro regolamenti di conti.
Mai numero uno
Così si manifesta definitivamente inadeguato ai ruoli da numero uno, come dimostra la gaffe con cui accusa Berlusconi di aver evitato il servizio militare. Gli parte la fesseria che un vero leader deve evitare, la balla autoelogiativa: «Io ho conosciuto dall’interno le Forze armate perché ho fatto il servizio militare, soldato semplice nell’artiglieria contraerea».
Pensa di dimostrare così che la sinistra è più vicina della destra alle forze armate. Passano solo tre giorni e sul berlusconiano Giornale l’affilato cronista Gianni Pennacchi dimostra che “l’artigliere Franceschini”, da figlio di papà super privilegiato in quanto consigliere comunale, aveva ottenuto il cosiddetto “avvicinamento” e fatto il militare al centralino del Distretto militare di Ferrara, respingendo telefonate (non bombardieri nemici) a pochi metri dalla casa paterna dove andava a dormire tutte le sere, risolvendosi il suo servizio alla patria in otto ore di turno in ufficio. Ma è proprio dopo la disfatta contro Bersani che nasce il Franceschini 2.0, quello che non punta più a essere un numero uno (e del resto mai un numero uno della politica è riuscito a centrare l’obiettivo del Quirinale).
Antirenziano renziano
Da capo del gruppo parlamentare alla Camera comincia a tessere la sua fitta tela di relazioni a 360 gradi che non dimentica nessun angolo d’Italia, nessun assessore, nessun piccolo sindaco.
Nasce la sua corrente AreaDem, un gruppone a geometria variabile che oggi dispone di uno strano sito internet dove non c’è scritto che è una corrente del Pd né chi ne è capo e chi ne fa parte, forse perché le sue sorti sono in declino, con i parlamentari fedelissimi ridotti a una quindicina su un migliaio totale. Franceschini capisce di poter contare negli equilibri interni del partito con la sua pattuglia di parlamentari. anche senza ambire al vertice.
Mette in campo il fiuto meteorologico e porta sempre al sicuro i suoi, come il navigatore John Franklin che salvava le navi e gli equipaggi perché vedeva le secche prima degli altri.
Nel 2012, quando Renzi sfida Bersani per la candidatura a premier, Franceschini è netto: «Con tutto il rispetto per Renzi, non so cosa accadrebbe se dovesse toccare a lui di subentrare a Monti». Nell’estate seguente, quando si avvicinano le primarie per la scelta del nuovo segretario Pd, è ancora abrasivo: «Matteo più che sognare un governo che faccia contenti gli italiani sogna più concretamente un governo guidato da lui».
Ma poche settimane dopo, in seguito a una visita privata al sindaco di Firenze per “parlare d’arte”, si schiera con lui contro Gianni Cuperlo: «Mi sfugge dove sia il tradimento». In quel momento è ministro per i Rapporti con il parlamento del governo Letta. Renzi diventa segretario del Pd a dicembre 2013 e prepara il colpo di mano con cui in due mesi farà le scarpe a Letta (#enricostaisereno). Franceschini si unisce alla schiera, ampia, degli accoltellatori e diventa ministro dei Beni culturali. Forse era quella “l’arte” di cui parlava con Renzi sei mesi prima. Ma prima c’è la drammatica resa dei conti con l’amico-rivale di sempre. Letta, secondo il Corriere della sera , lo accusa: «Dario, io ti ho creduto quando giuravi che quelle riunioni con i dirigenti renziani e con i leader del partito le facevi per il mio governo. E invece no, scopro che trattavi per il governo Renzi». Letta, andreattianamente, smentisce la frase nella sua letteralità ma non il litigio. Che c’è stato, durissimo. Franceschini, zaccagninianamente, nega tutto e accusa i giornalisti di «gettare fango sulle persone e sui rapporti personali». La partita è ancora aperta e accompagnerà la corrida quirinalizia.
Giorgio Meletti, Domani, 6 dicembre 2021
4 Comments
Mah, Sergio, è la storia piuttosto noiosetta di un democristiano DOC, uno di quelli (tanti) che comunque hanno fatto (bene o male) la Repubblica.
Non ci vedo particolari scabrosità: se volessimo perdere del tempo a raccontare le piroette e le vicissitudini di un qualsiasi politico (ripeto, qualsiasi, di qualsiasi schieramento e qualsiasi epoca …) potremmo passarci molte notti di Natale, ma saremmo sopraffatti dal sonno.
Ben altre (ecco il benaltrismo …!) sono le scabrosità della politica: altro che Franceschini …!
Non ti pare?
Meletti fa parte dei cultori del pettegolezzo politico che non mi hanno mai appassionato (il Fatto, da cui proviene, ne è d’altronde la Bibbia assoluta).
Mamma mia che fatica faccio a leggere gli intellettuali, come il giornalista Giorgio Meletti che scrive per Domani che non è un giorno, ma un giornale di proprietà di un trombato dalla politica, dal capitalismo e dalla famiglia. Scusate, ma a furia di stare con lo zoppo cerchi di zoppicare ed io non faccio eccezione. Mi riesce male però questa andatura e cercherò di evitarla nel commentare, l’articolo del succitato intellettuale sul ministro in carica dei beni culturali, Dario Franceschini. Naturalmente so di guadagnarmi la gogna da parte degli intellettuali, ma commenterò con il mio algoritmo retto dal compromesso delle idee e dalla concretezza, che alla elite dei miei avversari sembra e sembrerà sempre pochezza se non addirittura mondezza.
Siamo, per fortuna, in una democrazia rappresentativa ed io, che mi ci trovo benissimo, rispetto gli intellettuali, ma non li condivido e scrivo qui il mio pensiero, il più sintetico possibile, sul politico/ scrittore Dario Franceschini,
La politica, tra tutte le scienze, è la più importante, secondo me, per gli umani ed i politici si si dividono tra urlatori meteoriti e concreti statisti. Nel suddetto campo Dario Franceschino è uno statista: ha trasformato il suo Ministero da fatiscente a cavallo trainante dell’economia italiano ed ha contribuito e contribuisce a tenere insieme il PD nonostante i numerosi condottieri roboanti e poi disertori. Con questi fatti concreti, al di là di quello che scrivono i vari Maletti indellettualeti, ringrazio per l’attenzione ed auguro buona giornata, a tutti coloro che leggono su questo democratico, e per me vitale, blog.
Antonio De Matteo Milano
Mi fai ridere, lo dico con affetto, caro Antonio, sempre a chiamare in causa gli intellettuali e tu scrivi in un modo che a volte mi sembra di leggere Cacciari.
Un abbraccio,
Sergio
Caro Sergio mi fa piacere che tu rida quando io “chiamo in causa gli intellettuali” , ma non ho capito se sono questi ultimi o il sottoscritto a stimolarti. Comunque Sorrido anch’io, Caro Sergio, prima perché alla nostra età, e tu hai qualche anno in più di me, poche volte ci capita un sorriso, visto gli acciacchi e quello che ci toccherà, ma soprattutto mi scappa da ridere quando tu mi paragoni nello scrivere al prof. Cacciari che io ho sempre considerato un professore con la penna dal tratto rosso/ blu usato per additare come asini da screditare coloro che hanno difficoltà ad imparare le sue teorie. Quindi, Caro Sergio, io che ho sempre predicato e predico il compromesso delle idee e l’esaltazione della democrazia rappresentativa, Come mai scrivo, secondo te, come l’intellettuale suddetto, ovviamente non come forma, ma come contenuto ? Non è che strada facendo Mi sono rincoglionito? Con affetto, umilmente e con un sorriso chiedo una risposta.
Un grande abbraccio Sergio a te e a tutti coloro che scrivono sul tuo blog. Antonio De Matteo Milano