Ho apprezzato il tono e l’onestà politica della relazione di Maurizio. A partire dal giudizio sul voto.
La sconfitta non ha precedenti.
Per la sinistra nel suo complesso è il dato peggiore nella storia repubblicana.
Molte ragioni del risultato sono incise nell’ultima stagione.
Dirlo è giusto, ma non basta perché oltre alle ragioni, legate alla cronaca, la sconfitta ha radici che affondano più lontano.
Almeno negli ultimi dieci anni – l’intero arco di vita del Pd – e anche da prima.
Cavarsi dai guai rovesciando tutto il peso sul segretario che si è dimesso – e al quale va la mia solidarietà sul piano umano – è una soluzione senza onestà.
Questo risultato interroga e incalza l’intera classe dirigente del centrosinistra.
Partito.
Governo.
Padri nobili e minoranze.
Chi ha scelto di piantare la tenda altrove e ha raccolto pochissimo.
Sono responsabilità diverse, certo.
Perché c’era chi ha comandato e chi no.
Chi ha sempre applaudito. E chi no.
Chi ha chiesto di cambiare per tempo. E chi no.
Ma poiché la sinistra rischia di dileguarsi questo, per tutti, non può che essere un tempo di verità e di svolta.
Abbagli, limiti, del progetto del Pd hanno accentuato nella stagione più recente una regressione evidente.
Noi però non perdiamo per una singola riforma venuta male.
Perdiamo per molte vie.
Una è il declino rovinoso delle soluzioni che la sinistra ha offerto alle democrazie dell’Occidente nell’ultimo quarto di secolo.
Perdiamo per la incapacità di restituire a valori proclamati – uguaglianza e dignità in primo piano – un legame saldo con i bisogni della parte più fragile dentro la società.
Ancora.
Noi perdiamo per un vuoto decennale di identità.
Di senso.
Pensare che l’aridità degli statuti potesse colmare il venir meno di una appartenenza fondata su simboli e culture è stata una illusione drammatica.
Si è buttata a mare la sola cosa che andava rifondata: un pensiero attrezzato sulla società, l’economia, gli interessi.
Mentre si è innalzato a modello un primato della guida associando il concetto di “comando” a quello di modernità.
Veltroni, Bersani, Renzi: con profili diversi, lo schema che si è imposto è rimasto lo stesso.
Con una differenza nella collegialità, aspetto che pure conta.
Anche questo schema va rovesciato adesso se vogliamo tornare in superficie.
Ed è per questo che dinanzi alla valanga del 4 marzo ripartire dai nomi non aiuta.
Non è quello che i tempi ci chiedono.
Non è ciò che serve per rialzarsi dalla sconfitta peggiore della nostra vita.
L’agenda ci mette davanti a due questioni.
La prima – ha ragione Maurizio – oggi possiamo solo abbozzarla nel titolo.
Riguarda le cause del risultato e le scelte che saremo chiamati a compiere.
Credo che l’ultima settimana non sia stata la prima del nuovo corso ma la coda della campagna elettorale.
Dire che la nostra collocazione è di minoranza – e dunque di opposizione – mi pare un dato di realtà. Ma ricostruire chiederà tempo e fatica.
All’indomani del referendum del 4 dicembre, in questa stessa sala, avevo ascoltato compagni e amici spiegare che noi “non avevamo paura del voto”.
Mi ero permesso di aggiungere che non lo temevo neppure io: il voto.
Io temevo il risultato.
Ho letto nei giorni scorsi dichiarazioni eguali fatte dopo domenica scorsa: “non temiamo il voto”.
Questa volta la prendo per una espressione dadaista.
Il punto è che questo Paese un governo dovrà averlo.
Non sarà facile arrivarci.
Noi non dovremo fare la stampella di nessuno.
Ed è giusto che la parola passi a chi si dichiara vincitore: e almeno nelle percentuali lo è.
Ma non credo si debba escludere la terza forza del Parlamento dal compito che le deriva dalle urne: fare politica.
Usare il consenso raccolto per cercare lo sbocco possibile evitando una paralisi deleteria per l’Italia.
Anche eventualmente con un governo di scopo che si rivolga al complesso delle forze e degli schieramenti.
Con un programma limitato e poi un ritorno governato alle urne.
Ma su questo il tempo dirà.
La seconda questione della nostra agenda è persino più preziosa.
Almeno se vogliamo rifondare assieme:
• una presenza lì dove da tempo non siamo e non ci votano;
• il pensiero in grado, quella presenza, di sorreggerla;
• e uno spirito di comunità che in troppi luoghi non esiste più.
Vuol dire ripensare molto.
Introdurre categorie in grado di spezzare tanto l’ortodossia del vecchio laburismo socialista che i miti dell’innovazione depurati da classi, diseguaglianze e nuove miserie.
Su questo dovremo discutere nei prossimi mesi.
E scegliere.
La verità è che in questi anni quello che è stato chiamato il “renzismo” (la combinazione della personalità e della politica di Matteo Renzi e del suo gruppo dirigente) è stato un disegno forte.
Lo dico io che spesso ho detto le mie ragioni di distanza da quella impostazione.
Ma non vi è dubbio che quello fosse un disegno politico.
Una strategia che puntava a governare una nuova fase dello sviluppo del Paese.
Quel disegno è prevalso: prima qui dentro, poi per un tratto anche fuori da qui.
E ha prevalso anche perché – lo dico con onestà – a quel disegno non abbiamo saputo contrapporre alcuna vera alternativa.
Né qui dentro, né fuori da qui.
Ma il 4 marzo ha detto una cosa netta e diversa.
Che quel disegno è stato sconfitto. E sta qui il limite fondamentale dell’intervista, stamane, di Renzi.
Nel rimuovere ancora una volta la realtà per come si è manifestata ed espressa.
Quel disegno non ha convinto una parte larghissima del Paese e dell’elettorato stesso della sinistra.
E allora il ricambio necessario di una leadership e una classe dirigente non sono solo il frutto di una percentuale bassa e deludente nelle urne.
Sono la risposta dovuta a quel giudizio politico.
Toccherà costruirla un’alternativa.
Presto.
E toccherà farlo perché dalle grandi crisi – il ‘900 lo ha dimostrato – non si esce col mondo di prima.
Servono analisi e ricette in larga misura sconosciute.
Lo stesso vale per le grandi sconfitte.
Non basterà correggere qualcosa o cambiare la disposizione degli arredi.
Bisognerà rifondare: una teoria e una pratica.
Programmi, alleanze sociali, i riferimenti nel mondo.
Insomma se non vogliamo restare esclusi dalla storia adesso bisogna pensare a un edificio profondamente diverso.
Conteranno le nostre decisioni, a partire da qui e dalla fiducia a Maurizio perché sia garante di questa svolta.
Il che equivale ad azzerare la segreteria e costituire subito una collegialità che coinvolga la ricchezza del nostro pluralismo. Colmando anche la ferita prodotta in quell’ultima notte sulla composizione delle liste.
Dopo conterà molto altro.
La discussione che faremo. Le cose che diremo.
Chi sarà chiamato a interpretare la riscossa necessaria.
Abbiamo perso, ma questa è la cronaca.
Tocca a noi dimostrare che può non essere un destino.
3 Comments
Intervento nel perfetto stile di Cuperlo, molto articolato, anche condivisibile su diversi aspetti, ma che non mi convince assolutamente quando chiama in causa Renzi, troppe volte, per colpe che lui, da fermo oppositore dell’ex segretario, continua ad attribuirgli ma che io, da convinto sostenitore di Matteo, gli contesto. Ritengo, infatti, che quella di Cuperlo sia solo una modalità per trovare degli alibi e nascondere, ancora una volta, le vere ragioni che stanno alla base del disastro elettorale! Consiglio anche a lui un’attenta e “meditata” lettura dello scritto di Enzo Puro (“In Italia l’inverno è arrivato. E sarà lungo. Cronaca di una sconfitta”) che ho inviato a Sergio. Su una cosa, però, concordo con Cuperlo ed è quando indica che la crisi della sinistra viene da molto lontano, da molto prima dell’arrivo di Renzi.
Ottima argomentazione, anche io sono un estimatore di Renzi e dico che per cambiare serviva una guida forte nel partito e nel governo.
Sono stato smentito, quindi avanti con i numeri 2 , 3 ,4 del partito, tipo Martina, Gentiloni, Cuperlo e che dio ce la mandi buona.
L’inverno sarà duro e lungo e faremo tanti caminetti per scaldarci.
Camillo Repetti
Apprezzo l’intervento di Cuperlo per il suo modo di argomentare i suoi ragionamenti, il suo stile, la sua educazione ed anche la sua onestà e coerenza intellettuale, doti che mi spinsero a votare per lui alle primarie del dopo Bersani.
Detto questo però voglio evidenziare alcuni punti da lui trascurati o accennati superficialmente.
Secondo me manca un riconoscimento del lavoro fatto in questa legislatura che è bene ricordare nata morta è invece arrivata alla sua scadenza naturale e con buoni risultati, certo si poteva fare meglio ma è sempre cosi che si dice.
Si accenna sempre alla grave crisi economica e morale ma poi si sottovalutano le ricadute dal punto di vista sociale. Certo che il superamento della crisi, come dimostrano i macro dati economici, è un dato di fatto ma è anche vero che questi miglioramenti prima che arrivino fra la gente vogliono i loro tempi ed è ben ricordarlo nulla sarà più come prima nel campo dei rapporti di lavoro e non per colpa del jobs act, perchè cosi sta avvenendo in tutto il mondo.
E’ vero non siamo più presenti nelle periferie, ma ditemi quale partito o movimento lo è, nessuno nemmeno i 5 stelle. Le sezioni sono cominciate a svuotarsi già dai tempi dell’ultimo PCI e con il PD non sono mai nate.
Quando si parla di periferie bisogna parlare anche di immigrazione e cattiva integrazione che ha scatenato la guerra fra poveri e quando troviamo un ministro che stava mettendo il fenomeno sotto controllo la Sinistra lo insulta dandogli dell’assassino.
In questo clima gioco forza che le forze di opposizioni e populiste hanno facile gioco.
Se poi ci mettiamo pure noi a fare la guerra tra di noi (devo dare atto a Cuperlo di non essersi mai prestato a questa autodistruzione) bè che risultato ci potevamo aspettare.
A loro è bastato cavalcare la paura del diverso (lega nelle zone rosse) e promettere il reddito di cittadinanza (M5S nel Sud senza speranza) per fare bottino pieno.