E’ una cosa che sogniamo tutti noi, quella di affrontare temi complessi trattati con molta semplicità e chiarezza. E’ quello che fa Wlodek Goldkorn in questa intervista. Non potete non uscirne con la testa piena di fermenti, non lattici ma ben più vitali. Grazie Wlodek e grazie Goffredo Pistelli, instancabile intervistatore.
Accoglienza non è integrazione. Anche se la sinistra, pasticciando, confonde le categorie.
Wlodek Goldkorn, inviato dell’Espresso, analizza il disagio diffuso nella gente d’oggi
di Goffredo Pistelli
L’incontro avviene in un bar di Sant’Ambrogio, fra La Nazione e il mercato coperto. Siamo a Firenze, perché qui è la casa di Wlodek Goldkorn, questo ebreo che lasciò la Polonia nel 1968, coi genitori, per un’ondata di antisemitismo crescente, comunista stavolta «Con cinque dollari a testa», scrive nel suo bellissimo Il bambino nella neve, uscito per Feltrinelli nel 2017 e a giorni ristampato in edizione economica. Gli abbiamo proposto di parlare di Europa e di populismi, visto che la Polonia rischia la procedura di infrazione europea per violazione dello stato di diritto per alcune riforme. Goldkorn, inviato de L’Espresso, dopo averne diretto a lungo la cultura, è un grande esperto di Europa centro-orientale, sui cui ha scritto numerosi saggi. La conversazione parte e si ferma quasi subito: «Sono abituato a intervistare più che a essere intervisto», dice ridendo.
Domanda. Goldkorn la Polonia è sul banco degli imputati.
R. Ci sono diverse questioni, alcune specifiche, altre general generiche. Soprattutto una, fra le generiche, riguarda il governo, che ha nel partito di Jaroslaw Kaczynski, Diritto e giustizia, il suo fulcro, e quello che sta facendo.
D. Ossia?
R. Posso sbagliare, spero di sbagliare ma temo di non sbagliare, quando dico che è l’esempio di un possibile, malaugurato futuro per molti Paesi europei. Vale a dire, un esecutivo che non abolisce le istituzioni formali della democrazia: continua a esistere il Parlamento, ci sono le elezioni, la libera stampa, che si tenta di limitare ma non direttamente, i giornali, cioè, possono uscire
D. Ma?
R. Ma si svuota la democrazia della sua carica liberale, non rispettando la minoranza. Siamo alla possibilità, cioè, di una democrazia che non contempla il rispetto di chi si oppone: «Facciamo quello che ci pare». Qualche volta anche Silvio Berlusconi, qui da noi, ci ha pensato.
D. Sta dicendo che Kaczynski è come il Cavaliere?
R. Berlusconi non è Kaczynski, per fortuna. Innanzitutto non si è mai considerato il salvatore della patria e non ha la carica identitaria che il leader polacco ha. Berlusconi è un ricco signore, soddisfatto della vita che ha avuto, delle donne che ha amato, e tutto quel sappiamo. Kaczynski no.
D. E le questioni specifiche?
R. Rimandano alla pericolosa rapidità dei passaggio di questo periodo storico. Che cos’è successo alla Polonia che era esempio di modernità, che sapeva usare meglio i fondi europei, che cresceva? Dov’è finita la Varsavia che attirava giovani come fosse Berlino? E il Paese che sapeva andare dialogare anche con un avversario storico, come la Germania? D’un colpo s’è rovesciato tutto?
D. Lei che cosa ne pensa?
R. Che questa rapidità tremenda è significativa della fase di capitalismo che stiamo vivendo. Da questo punto di vista, è utilissima la lezione di Zygmunt Baumann.
D. A cui lei è stato molto vicino negli ultimi anni.
R. Sì ci incontravamo e parlavamo moltissimo. Ma la lezione a cui mi riferivo non era semplicemente quella della «società liquida», quanto piuttosto il riferimento che faceva al distacco, avvenuto e sempre più forte, fra potere e politica e fra capitale e territorio. E per cui tutto il mondo occidentale vive una fase di terribile incertezza.
D. Perché?
R. Perché i politici possono solo promettere cose che non possono mantenere, come dimostra la vicenda del Pd e dello Ius soli, su cui torniamo.
D. Sì, ci torniamo. Vada avanti sulla politica che non ha potere.
R. Le decisioni vengono prese altrove. E non solo perché l’Europa decide, come si dice spesso, ma perché basta che un fondo di investimento delle vedove dei minatori, dall’altra parte dell’Atlantico, faccia scelte di investimento diverse, e la Borsa cade o sale.
D. Prima non era così?
R. Prima il capitale era legato al territorio. La Fiat a Torino determinava un sacco di cose: carriere, modi di vivere, con benefici innegabili per la città. Oggi non c’è più niente di tutto questo. E questa incertezza si è riverberata sulla politica: l’opinione pubblica è estremamente propensa a cambiare idea con nulla.
D. Ci sono anche le fake news, dice qualcuno, che la rendono più vulnerabile.
R. Le fake news ci sono sempre state, ma quando hanno avuto influenza? Quando l’incertezza ha dominato, ossia nei momenti di grande instabilità politica, durante le rivoluzioni o le occupazioni militari.
D. Quindi la Polonia sarebbe vittima anche di questo complesso di cose. C’entra l’uscita dal comunismo, che la accomuna all’Ungheria e a certi rigurgiti neonazisti dell’ex-Germania Orientale?
R. Questa è una teoria nota: è colpa del comunismo, si dice. Dopodiché non si spiega perché nei primi vent’anni dalla caduta del Muro non sia successo niente di tutto questo, anzi, sia accaduto che i Paesi ex-comunisti siano stati indicati come i modelli da seguire, per certi versi. E poi
D. E poi?
R. E poi, oltre i 40 anni di comunismo, ci sarebbero da valutare anche i 26 di globalizzazione, alla quale Paesi che hanno azzerato interi sistemi economici, sono state molto esposti. Ma poi questa idea della «colpa del comunismo» non torna, anche per un altro motivo.
D. Quale?
R. C’è al potere, oggi, una generazione di 40-50enni che il comunismo lo appena conosciuto. Ci pensi: è come se, nel 1971, in Italia si fosse parlato della pesante eredità di Benito Mussolini. Non avrebbe avuto senso. E c’è un ulteriore motivo, mi scusi.
D. Avanti.
R. L’Austria, col comunismo, non ha nulla a che vedere, eppure…
D. Qual è la sua idea, allora?
R. Che ci sia una specificità dell’Europa centrale, cioè di nazioni dall’identità molto incerta, mobile, spesso messa in questione. La Polonia attuale, dopo la Seconda Guerra, è stata spostata di 300 chilometri verso la Germania, e non ci sono più tre milioni di ebrei ossia il 10 per cento della popolazione. O pensi all’Ungheria che, dopo la Prima Guerra, perse i due terzi del proprio territorio: rimase Budapest e poco più. O, infine, alla Cecoslovacchia, nazione che non esiste più, ma che era stata «inventata» sempre dopo quel conflitto.
D. Con le conseguenti rivendicazioni, anni dopo, da parte di Hitler sui Sudeti.
R. Un’area, quella dell’Europa centrale, dove questioni etniche sono sovente sovrapposte a quelle religiose. Prenda la mia Polonia che, dal ‘700, è stato un Paese diviso in due: con una metà di cattolici ad etnicità polacca e l’altra metà che sogna un modello plurietnico e pluriculturale, fatto di ebrei, di tedeschi, di ucraini.
D. Venendo qua, mi sono ricordato de Il Tamburo di latta, il romanzo di Gunter Grass ambientato fra i casciubi, che vivevano a Danzica.
R. Già i casciubi: c’erano anche loro. Le ricordo che, nel 1922, un presidente polacco, Gabriel Narutowicz, espressione della Polonia plurietnica e pluricuturale, fu ucciso per mano dei nazionalisti.
D. Quindi la Polonia cattolica è un cliché?
R. Sì, come vorrei ricordare che le manifestazioni dei mesi scorsi
D. …quelle degli affollatissimi rosari recitati sui confini?
R. Si è detto che reagivano all’immigrazione musulmana, che erano innescate dal contatto fra cattolicesimo polacco e l’islamismo, prima sconosciuto.
D. Invece?
R. Invece per secoli la Polonia è stata il confine con l’islam: la frontiera con la Turchia, fino al ‘600, era la nostra. Tanto da influenzare l’identità polacca e persino la cucina.
D. Ma perché c’è in Polonia questa forte sentimento anti-islamico?
R. La crisi porta a questa semplificazione identitaria ma, guardi, che non è diverso da quello che è accaduto qui in Italia sullo Ius soli. Il rifiuto dell’altro è irrazionale, è un’altra forma della stessa paura, è l’acchiapparsi alla stessa forma identitaria. Dopodiché
D. Dopodiché?
R. Dopodiché, in Italia, la gente è più umana, più umanitariamente aperta, riconosce che, se uno è in mare, in pericolo, lo si deve aiutare. Ci aggiunga che la Chiesa italiana non è chiusa e un po’ xenofoba, come quella polacca, che in Italia il cattolicesimo non si è mai identificato con la nazione, e che i cattolici sono stati sempre liberali e spesso anche antifascisti.
D. Senta, parte dei suoi connazionali si preoccupano per l’islam mentre, secondo lei, è solo il nome che una paura più generale che li attanaglia. Non di meno, concederà che c’è un islam radicale, in giro per l’Europa, che però un problema lo rappresenta.
R. L’islam radicale è un problema grossissimo e difficile ma, anche qui, mi faccia citare l’ultimo Baumann, quello di Retrotopia, il suo lavoro uscito postumo.
D. E che cosa dice?
R. Che le nostre utopie sono sempre rivolte al passato e ne ricostruiscono uno che non è mai esistito, pensando che possa essere non il futuro ma il presente. Questa corsa identitaria riguarda gli islamici ma riguarda tutti. La si vede, pensi, anche nella pubblicità.
D. Nella pubblicità?
R. Sì quando ci presentano certe famiglie contadine, belle e felici. Mentre, ancora negli anni 50, erano sporche, affamate, feroci e violente.
D. Perché le utopie guardano indietro?
R. Perché, fino a pochi anni fa, eravamo convinti che il progresso esistesse. Che ci fosse un nesso fra democrazia, libertà, benessere, che cioè, essendo più liberi, democratici, e istruiti, saremmo anche stati migliori, avremmo mangiato meglio, vissuto meglio. In questo quadro l’immigrato doveva essere integrato. E così è stato, per un certo periodo. Pensi all’America, dove la società era aperta, e che integrò quegli italiani, irlandesi ed ebrei che pure dettero linfa alla peggiore malavita di inizio ‘900.
D. Il progresso è finito?
R. Oggi non c’è il progresso e allora scatta, per gli islamici d’Europa, il richiamo dei paesi di origine. E ci sono l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo a finanziare. Così le moschea non è più qualcosa che esiste perché ci sono i musulmani, ma diventa una fortezza identitaria. E poi c’è una certa miopia della sinistra, diciamolo pure.
D. Spieghiamo perché.
R. La sinistra confonde accoglienza e integrazione. Ti accolgo, ma poi ti posso anche chiedere alcune cose.
D. Per esempio?
R. Io non sono un fan degli stati nazionali ma viviamo in Europa, che è appunto formata da stati-nazione, da lingue e da territorio. E la lingua comporta cultura, sensibilità anche estetica.
D. Dove vuole arrivare, Goldkorn?
R. A un pensiero che sembrerà di destra: non puoi essere italiano se non conosci Dante. E se vuoi conoscere Dante, devi conoscere il Vangelo. Saranno cose minime ma…
D. Non troppo minime.
R. Il mio modello è Saul Bellow.
D. Grande scrittore ebreo americano, Nobel per la letteratura.
R. Nell’incipit de Le avventure di Augie March, scrive: «Sono americano, nato a Chicago». Lui, ucraino d’origine, ed ebreo. Insomma, per tornare a noi, se voglio fare il giornalista in Italia, non posso non aver letto e capito i Promessi sposi.
D. Diranno che è un’imposizione.
R. Anche la scuola dell’obbligo lo è, anche le tasse, anche il semaforo. Se sei qui, non puoi non conoscere una lingua che è così fin dal 1300. Anche in Germania impongono agli immigrati di imparare il tedesco. Purtroppo da noi la sinistra, per paura di sembrare colonialista e razzista, commette questo errore.
D. Torno all’Europa e alla Polonia: potrebbero arrivare addirittura la procedure di infrazione, il cui processo è iniziato.
R. L’Europa ha fatto benissimo, anche se credo che l’Ungheria voterà contro e quindi non passeranno. In Polonia, però, ci penseranno bene: hanno avuto tantissimo coi fondi europei. Sono un paese di 40 milioni di persone, fra Germania e Russia. Un paese troppo grande per essere piccolo e troppo piccolo per essere grande. Produce problemi per definizione: si figuri che ha un parte importante della propria memoria nazionale in Lituania. È infatti a Vilnius che nasce tutta la poesia, il romanticismo, l’illuminismo polacco.
D. Al di là di quello che succederà in Polonia, c’è una crescita populista in tutta Europa. Come lo spiega?
R. La sinistra ha cercato di essere realista e responsabile in tutta Europa: ha accettato tutte le regole del liberismo, portato all’estremo. Ma dopo il liberismo è arrivato il populismo.
D. Giudizio severo.
R. D’altronde viviamo in un tempo in cui, con tre clic su computer, ti arricchisci come non sono riusciti a fare tre generazioni di imprenditori su un territorio. Un tempo in cui puoi essere anche l’ingegnere più bravo del mondo ma, se in quel momento l’azienda vuole delocalizzare, te ne resti a casa. Il discorso liberista, che poi sarebbe liberale, arriva al nichilismo: e non comporta nessun trascendenza, solo quanto guadagno conta. Viviamo, per certi versi, in un comunismo rovesciato: si procede, a tappe forzate, ad abbassare i salari, a smontare le garanzie sociali che erano la correzione stato ipertrofico. La società non esiste più, diceva Maggie Thatcher.
D. Dal suo punto di vista, vede segnali di speranza?
R. Sì, il Papa.
D. Perché le piace Francesco?
R. Che è una delle poche autorità mondiale che mette in questione le verità rivelate del liberismo e parla dei poveri. Non penso che sia di sinistra, intendiamoci.
D. E che cosa, allora?
R. Un’autorità religiosa e morale, che dimostra in qualche modo, che esiste la società, valore solidarietà, essere umano è tale, non distinto dal passaporto. La parola «clandestino» divide l’umanità fra coloro che hanno i documenti giusti e non. Ma Walter Benjamin, ricordiamocelo, morì senza aver il visto per entrare negli Stati Uniti. Ed era apolide.
D. Solo il Papa, dunque?
R. No, c’è anche da capire cosa succederà in Cina e in India. Come mi diceva Eric Hobsbawm, a cui ho fatto l’ultima intervista.
D. Il grande storico britannico, che coniò l’espressione «secolo breve», riferita al ‘900. Che cosa le disse?
R. A un certo punto della conversazione, gli dissi: «Professore, il proletariato non esiste più». E lui mi interruppe subito, obiettandomi: «Non è vero, vada in Cina». E aveva ragione, lì il capitalismo di Stato ha creato un nuovo proletariato.
4 Comments
Insomma, siamo talmente disperati che solo il Papa ci sembra adeguato!
Per carità, Papa Francesco è certamente molto più adeguato degli ultimi due, ma è pur sempre un anacronistico sovrano assoluto di uno Stato teocratico, che non dovrebbe avere posto nel mondo moderno.
E non è nemmeno l’unico stato teocratico esistente …
In più, oltre all’autorità morale, non ha neanche tutto quel potere che ci si potrebbe aspettare, costretto com’è dai vincoli della rigida e reazionaria struttura ecclesiastica.
Allora, malgrado tutto, perché tanta disperazione?
E’ tutto vero: l’ascensore sociale che non funziona più come una volta (ma in Italia ha mai funzionato davvero? Abbiamo mai avuto Presidenti venuti dal nulla come Jimmy Carter o Bill Clinton o Barack Obama? O piuttosto non abbiamo sempre avuto una classe dirigente politica, economica, finanziaria, anche culturale, che si è auto-cooptata per decenni?).
E’ vero: le aspettative sul futuro sono poco chiare, il progresso (chi lo dice che non c’è più il progresso? Chiedetelo ai cinesi, agli indiani, alle centinaia di milioni che sono usciti dalla povertà, …) il progresso è difficile da gestire, la complessità del mondo globalizzato richiede un livello di specializzazione più alto, ci viene richiesto uno sforzo interpretativo più intenso, maggior grado di istruzione, nuove categorie di giudizio, e via così.
Ma la politica a che serve, se non ad affrontare tutto questo?
Il populismo è essenzialmente ignoranza, vuoto di progetti, paura del futuro, mancanza di speranza nelle capacità umane, di confidenza nelle proprie capacità, di fiducia nelle possibilità di emancipazione collettiva.
La politica deve rispondere a tutto questo.
E per farlo richiede competenza ed idee chiare, non improvvisazione.
I cittadini hanno diritto ad un servizio di alto livello, altro che prendere i primi venuti e farli provare a governare, con una farsa di democrazia diretta!
Serve visione, serve un progetto, serve elasticità mentale per adattarsi alle condizioni mutevoli, serve coraggio per non disperarsi.
E su che basi, se non queste, è nato il PD? Per accogliere e cimentarsi in queste sfide, con una classe dirigente possibilmente laica e distaccata dalle dogmaticità precedenti.
Anche Tony Blair ci ha provato, e in buona parte è riuscito, a cambiare la pelle della sinistra. Ha commesso clamorosi errori di politica estera, rovinando quasi tutto, ma gli era chiaro che la sinistra del Novecento non aveva gli strumenti giusti per la sfida del nuovo millennio ed ha provato ad usarne di nuovi.
Il PD è nato nel 2007 su basi ancora più concrete, il progetto del Lingotto era credibile; non ha commesso errori marchiani, checché se ne dica, ha suscitato speranze, ha coinvolto milioni di persone, ha tentato di rimettere in moto i meccanismi sociali inceppati, ha promosso riforme, sempre auspicate e mai fatte.
Ha provato a governare il cambiamento e la ripartenza del Paese dopo la crisi.
Ha anche rotto le scatole a molti interessi consolidati: ed ora è sul banco degli imputati, con pochi disposti a riconoscergli gli sforzi fatti.
In questa tornata elettorale solo il PD può proporre risorse e classe dirigente adeguate. Lo sanno e lo vedono tutti gli addetti ai lavori, che proprio per questo lavorano alacremente allo sfascio.
Bisogna allora farlo capire alla gente ed a chi orienta la gente, la gente normale, non i pasdaran.
Credono forse Cairo, De Benedetti, gli intellettuali sedicenti di sinistra che c’è alternativa migliore?
O piuttosto auspicano il tanto peggio tanto meglio, purché si torni allo stato sonnacchioso precedente?
Il loro nemico Matteo Renzi ha dato molte spallate, qualcuna anche maldestra, ma da dove venivamo? dove eravamo arrivati nel 2013?
E ora cosa ci aspettiamo tutti noi? Cosa si aspettano questi critici per partito preso?
Vorrei che tutti noi facessimo uno sforzo di immaginazione positivo, provassimo a guardare oltre i problemi di oggi, che, presi da soli, rischiano di schiantarci.
Non so se le nazioni centro-europee troveranno una strada per uscire dalle loro ubbie.
So che noi dobbiamo farlo perché abbiamo maggiori responsabilità: siamo liberi da 70 anni, abbiamo fondato l’Unione e adesso dobbiamo indicare una via, con Francia e Germania, visto che UK ha scelto di isolarsi.
Dobbiamo giocare tra i leader, nella serie A del continente. Solo l’integrazione europea ci può dare una mano concreta.
E’ questa la strada, a mio giudizio, non il provincialismo gretto e populista.
Caro Ernesto,
mi sembra che nella appassionata e giusta difesa che fai dell’idea di PD confondi spesso le critiche pregiudiziali fatte al PD con critiche riguardanti invece la gestione di Renzi. E’ quest’ultima, a mio avviso, che sta mostrando la corda e i conseguenti limiti del nostro segretario. La stessa gestione del caso Bonino dimostra una volta ancora la frettolosità e la superficialità che ormai caratterizzano lo strettissimo gruppo dirigente. Quando mai è partita la collegialità di cui si è tanto parlato? Sbaglio?
Grazie a Ernesto Trotta per i suoi commenti sempre pacati, mai astiosi, e lucidi nella loro esposizione. Fa piacere sapere che esistono persone come lui, ti danno coraggio e forza di andare avanti nell’impegno politico di tutti i giorni per quelli che come me vivono in un piccolo paese e non hanno l’aspirazione di cambiare il mondo, ma di dare testimonianza tutti i giorni ai valori in cui crede e per i quali si batte.
Caro Sergio,
non confondo, credimi, non confondo affatto.
E’ che senza la spinta di Renzi il PD si sarebbe arenato nelle secche di una gestione senza coraggio e senza idee.
Ti invito a ricordare la deprimente campagna elettorale di Bersani nel 2013, dove dilapidammo qualche milione di voti (quattro, cinque?) per correre dietro all’ectoplasma di Mario Monti.
“Non faremo mai un Governo da soli, neanche se prendessimo il 51%!” Ricordi questa demenziale affermazione?
E frotte di incazzati fuggivano per sempre.
E Letta “palle d’acciaio”? Cincischiare per un anno con l’IMU, succube, lui sì, di Berlusconi.
Non confondo affatto: ho ben chiara la situazione e ripeto: ringraziate Renzi, che ha rivitalizzato un Partito spento e sulla via del declino.
Adesso siete convinti che il problema sia lui; bene!
Se perderemo le elezioni (tutti lo danno per scontato!) lo manderemo a casa tra i fischi.
E poi? Chiamiamo Grasso? O Bonino e Tabacci?
Ricominciamo a fare una bella opposizione, dura e pura, ché così ci divertiamo?
Credimi, Renzi avrà pure tutti i difetti del mondo ma il PD, o è protagonista, o muore.
Serve energia, coraggio e anche spregiudicatezza, non sogni, chiacchiere e cautela.
Serve per l’interesse dei cittadini, tutti, mica per chi fa sacchetti di plastica …