Memorie. La vita romanzesca dello storico caporedattore che introdusse la satira nel quotidiano del Pci: “Potevo finire male, ma il giornalismo mi ha salvato”
“Il momento più difficile della giornata arriva col buio. Lì mi assale tristezza”. È una mattina di fine marzo e Carlo Ricchini osserva i tetti del Nomentano dalla finestra del salotto. A novembre ha perso la moglie, Elsa, che se ne è andata a 86 anni dopo una breve malattia. “Abbiamo fatto tutto insieme negli ultimi settant’anni”, dice con un sospiro.
I capiredattori della sua generazione erano tutti burberi, sergenti di ferro. Carlo invece è malinconico. È stato per una vita il caporedattore all’Unità, il maestro artigiano che ha insegnato il mestiere a generazioni di cronisti. Un tipo di comunista non settario. Si deve a lui la comparsa della satira sulla stampa di partito: lanciò Staino e Elle Kappa, una scoperta che poi generò l’inserto Tango. Si inventò i primi supplementi allegati al quotidiano: i libri di Gramsci, la storia del Pci di Paolo Spriano. Negli anni Novanta varò un settimanale Il Salvagente, pioniere nell’informazione di servizio in Italia. Soprattutto Ricchini sa cos’è la guerra. L’ha vissuta in pieno. Un’infanzia picaresca di uno di quegli uomini non illustri ma con una storia potente che qui vale la pena rievocare. “Ehi”, dice quando lo invitiamo a farlo, “io ho ormai 92 anni”. E il suo tono tradisce come una punta di incredulità.
A casa sua circolavano i libri?
“Neanche uno. Eravamo poverissimi”.
In che famiglia è cresciuto?
“Mio padre faceva l’operaio alla Termomeccanica a Spezia, dove costruivano le pompe per le navi. Mia madre era sarta, ma faceva fatica a trovare clienti. Eravamo tre figli, Gisella, Attilio, ed io, che ero il più piccolo. Vivevamo in un appartamento misero: due stanze, una cucina, un corridoio cieco, nel quale dormivamo noi ragazzi. Mio padre rimase a lungo senza lavoro perché la fabbrica era stata distrutta dai bombardamenti”.
È questo il primo ricordo di guerra?
“Sì, Spezia venne bombardata subito, dagli aerei francesi, proprio all’indomani dell’entrata in guerra, il 10 giugno 1940”.
Che flash le è rimasto?
“Alle spalle di casa nostra, in via dei Colli, avevano piazzato una batteria della contraerea. Le bombe distrussero le abitazioni nei paraggi. Mia madre mi abbracciò forte e in quel momento capii che la guerra sarebbe durata a lungo”.
La percezione che sarebbe durata anni?
“Sì, una sensazione che ebbero in tanti. Nel palazzo accanto al nostro, abitava un mio coetaneo, Eros Monducci. Tornò esultante per l’annuncio di Mussolini. Il padre, ufficiale della marina militare, per quella reazione lo percosse duramente. Eros ne fu umiliato, non si fece vedere in giro per giorni”.
Lei quanti anni aveva?
“Ne avevo appena compiuti dieci”.
Qual è il sentimento che affiora con più forza?
“La paura. Quando suonava l’allarme anti aereo bisognava trovare un riparo. Nei pressi della stazione c’era una galleria da raggiungere correndo a perdifiato. Distava seicento metri da casa nostra, una distanza enorme nel pericolo”.
Riesce a datare questo ricordo?
“Ricordo che nell’estate del 1941 e del 1942 i bombardamenti americani si fecero particolarmente violenti e allora i miei mi mandarono a Ferrara, dove viveva la sorella di mia mamma, la zia Maria. Aveva cinque figli”.
Perché Ferrara?
“Era ritenuta una città più sicura. Rimasi lì un anno. Pullulava di fascisti. Gli zii abitavano in un piccolo appartamento nei pressi di piazza Ariostea. Un giorno di giugno a Pontelagoscuro – facevamo il bagno nelle pozze dei residui di acqua delle fabbriche di gomma – mio cugino Armando rischiò di annegare. Gli andai in soccorso, mi afferrò e a un certo punto temetti di annegare anch’io. Sapevo nuotare e lo salvai”.
Un anno di guerra.
“Non ne ho un bel ricordo. Anche dopo quel salvataggio rimanevo un ospite non particolarmente desiderato, una bocca in più da sfamare”.
Non si sentì accolto?
“Vagavo per la città senza meta, scrivevo lettere amare ai miei. Non legai con nessuno, nemmeno con Armando, che aveva la mia stessa età”.
Carlo Ricchini visto da Sergio Staino Poi però il fascismo cadde.
“Mia sorella Gisella, la più intelligente della famiglia, mi venne a prendere dopo il 25 luglio 1943. Il Duce era stato destituito, eravamo convinti che la guerra sarebbe finita presto”.
Tornò a La Spezia?
“No, nel frattempo la nostra casa era stata danneggiata, perciò sfollammo a Ponzano Magra in campagna. Qui occupammo una casa abbandonata. Era senza luce, l’acqua l’andavamo a prelevare in una fontana vicina”.
E a scuola dove andava?
“Non ci andavo. Anche a Ferrara ci ero andato irregolarmente, per pochi mesi. Infatti regredii e cominciai a parlare in dialetto”.
Che posto era Ponzano?
“Era un avamposto dei partigiani. Poi un giorno assistetti alla cattura di tre di loro da parte dei tedeschi. Furono sottoposti a un processo sommario, davanti ad una villetta che fungeva da comando nazista: si svolse all’aperto, affinché tutti potessero vedere. Anch’io li osservai da lontano. Ai partigiani avevano legato le mani dietro la schiena. Quindi li condussero a piedi sulla collina, in un prato dietro la chiesa e lì li costrinsero a scavare con le loro mani la fossa dove li avrebbero seppelliti dopo la fucilazione”.
Li uccisero davanti ai suoi occhi?
“Uno di loro, Dario, gettò una palata di terra sul volto dei nazisti, quindi si buttò in un canalone pieno di sterpi e scappò. Gli spararono addosso, ma incredibilmente non riuscirono a colpirlo. Si salvò, e divenne un partigiano importante”.
Quando tornò a studiare?
“A guerra finita”.
Ma com’è possibile?
“Dopo le elementari mio padre era stato convocato dal maestro. “Questo ragazzo deve studiare!”. Gli suggerì di mandarmi alle medie, mio padre gli spiegò che non aveva i soldi per pagare l’esame di ammissione. Così mi iscrissi, come era d’uso per i figli dei poveri, all’avviamento commerciale. La scuola chiuse però presto per i bombardamenti e poi io andai a Ferrara. Mi ritrovai alla fine della guerra senza niente in mano. E avevo già 15 anni”.
(foto di Concetto Vecchio) Che vita conduceva allora?
“Ero diventato una specie di vice capo famiglia. Mio fratello era stato deportato in Germania, tornò vivo, ma gravemente depresso. Papà lavorava poco e niente, mamma faceva quel che poteva. Vivevamo grazie ai pochi soldi che prendeva Gisella, commessa in un negozio di calzature, il Melley. Dovetti perciò darmi da fare. Ma non trovavo la strada giusta”.
In che senso?
“Frequentavo i bar, soprattutto il Moderno, dove si giocava a biliardo o a ramino, a boccette, a scala 40. Si puntava forte. Ed era pieno di pregiudicati, li conoscevo ad uno ad uno. Era anche il ritrovo di operai che lavoravano nel vicino arsenale: venivano dalla campagna, ingenui, creduloni. Cominciai a fregarli. Non se ne accorgevano”.
Li truffava?
“Sì, facevo il furbo, e poi un giorno accadde un episodio che non so se raccontare”.
Cioè?
“Un ragazzo che conoscevo rubò i gioielli in famiglia e me li portò per piazzarli. Andai dall’unico gioielliere disponibile della città e glieli rivendetti. Qualche giorno dopo mi chiamarono i carabinieri, il mio amico era stato arrestato ed io venni incriminato”.
Per ricettazione?
“Sì, ci fu un’inchiesta, al termine della quale però ebbi il perdono giudiziale, perché minorenne”.
Perché l’aveva fatto?
“Non saprei. Sentivo confusamente il bisogno di essere libero, ero molto confuso. La guerra mi aveva disorientato. Come vedi ho rischiato di finire male, nella delinquenza”.
Con la moglie Elsa, in vacanza. Come si salvò?
“Devo tutto a un ragazzo, si chiamava Giovannino. Aveva un paio di anni più di me. Nuotavamo insieme. Viveva con la nonna, perché i suoi si erano separati. Un pomeriggio, mentre tornavamo a casa dalla spiaggia, mi disse: “Non tornarci più al bar, riprendi a studiare, non buttarti via”.
E lei come reagì?
“Gli diedi retta. Quelle parole mi fecero impressione. Giovannino aveva ragione. Mi stavo buttando via”.
Come rimediò?
“Mi iscrissi ai corsi serali che due insegnanti, i fratelli Formentini, organizzavano in città. Uno insegnava latino, l’altro italiano. Io ero uno degli alunni più giovani, molti erano reduci di guerra, i partigiani arrivavano e posavano la pistola sul banco. Giovannino quasi ogni sera mi accompagnava fino ai primi gradini della scuola: voleva essere sicuro che entrassi davvero in classe”.
Erano dei corsi di recupero?
“Una specie. In quel modo presi finalmente la licenza media, poi scelsi il liceo classico, che frequentai solo per alcuni mesi”.
Che fine ha fatto Giovannino?
“Non lo so”.
Non siete rimasti in contatto?
“No, un giorno litigammo, per colpa di una ragazza”.
Ve la contendevate?
“No, no. Lui si era fidanzato con una coetanea e la madre di questa giovane voleva che io mi mettessi con la sorella gemella. Andammo in gita a Lerici tutti e cinque e una volta lì la signora non fece alcun mistero delle sue mire. Non ne avevo alcuna intenzione. Quella ragazza non mi piaceva. Era scialba fisicamente, non particolarmente acuta. Suggerii a Giovannino di non farlo nemmeno lui, di lasciare perdere. Lui invece si era già convinto di sposarla. Litigammo così violentemente che mi tolse il saluto. Non ci siamo più visti”.
Mai più?
“Sì, mai più. So solo che si è imbarcato, è diventato nostromo, come desiderava. Mi rimane il rammarico per quella rottura. Gli devo moltissimo”.
Come fu il Dopoguerra?
“Per certi versi peggiore della guerra”.
In che senso?
“Perché in guerra conosci i tuoi nemici, i pericoli sono chiari, ma dopo tutto è più confuso. Il ciambellone che vedevo nella vetrina della pasticceria, e che tanto desideravo, non me lo potevo permettere. Perciò mi disperavo. Andammo incontro a un periodo di ristrettezze terribili”.
Che cosa fece?
“Tentai di arruolarmi negli sminatori, ma non mi presero. Provai ad espatriare in Belgio, per fare il minatore. Non mi accettarono. Mi assunsero invece come miticoltore, i raccoglitori di cozze”.
Che lavoro era?
“Durissimo. Mi misero a prua delle barche, a sollevare le reste di cozze, che ad ogni strappo diventavano sempre più pesanti. La sera tornavo a casa così stanco che mi lavava mia madre. Si lavorava mani nude, non c’erano guanti di gomma e quelli di cuoio a contatto con l’acqua si indurivano ed erano inutilizzabili. Mi procurai dei tagli profondi ai pollici che andarono in suppurazione: dovetti curarmi con gli antibiotici, soffrire, rinunciare”.
Anni Ottanta. Con Sergio Staino alla Festa dell’Unità. Quanto guadagnava?
“Una miseria: cinque lire a settimana”.
Quanti anni aveva?
“Diciotto. Fu però un’esperienza che formò la mia coscienza di classe. Nel luglio del 1948 attentarono alla vita di Palmiro Togliatti, il che mi spinse a iscrivermi al PCI. Mi sentivo un uomo ormai. Cominciai a frequentare le sezioni del partito, erano piene di libri, che presi in prestito. Leggevo avidamente testi politici e i classici della letteratura”.
Il Pci era pedagogico?
“Sì, ebbi la sensazione che si occupava di quelli come me, se ne prendeva cura. La mattina frequentavo i corsi politici in Federazione, e per un mese la scuola di partito a Genova. Lì conobbi Aldo Tortorella”.
Ma quando diventa giornalista?
“Un mio conoscente, che lavorava in arsenale, mi disse che il suo capocontabile, Francesco Cauda, gestiva la pagina locale del Lavoro nuovo, il giornale socialista di Genova, diretto da Sandro Pertini. Cauda cercava un bocia che lo aiutasse a trovare le notizie, andando negli ospedali e in questura”.
Fu la scoperta di un mondo?
“Anche la redazione era piena di libri, leggevo tutto quello che mi capitava a tiro. Imparai a battere a macchina. Scrivevo di fretta le notiziole che trovavo. Entrai in contatto con i lavoratori dei cantieri navali, che stavano occupando le fabbriche a rischio chiusura. Capii che quella era la mia strada: il giornalismo”.
In redazione Quanto guadagnava?
“Quasi niente Prendevo dieci lire a settimana per scrivere di cronaca e sport. Dopo un po’ l’Unità aprì una pagina dedicata a La Spezia, e mi chiesero di andare con loro. Mi diedero un leggero aumento, 18 lire a settimana. Ho sempre guadagnato pochissimo”.
Che giornalismo era?
“Bisognava correre, sudarsi ogni storia. Facevamo tutto, cronaca nera, cronaca cittadina, il costume. Un giorno si sparse la voce che Brigitte Bardot sarebbe venuta a Lerici in vacanza ed io naturalmente mi precipitai”.
Ha intervistato Brigitte Bardot?
“Sì. Toh, guarda questa foto. È lei che entra in macchina e io sono alle sue spalle con una macchina fotografica”.
Anni Cinquanta. Brigitte Bardot a Lerici, Ricchini, con la camicia bianca, immortala la scena. Qual è il pezzo di cui va più fiero?
“L’Unità riuscì a far destituire il prefetto. I prefetti negli anni Cinquanta erano potentissimi, molti erano sopravvissuti alla fine del fascismo e condizionavano le amministrazioni di sinistra”.
Come andò?
“Un giorno una giovane donna crollò svenuta davanti alla porta a vetri della nostra redazione. Disse che era la nuora del prefetto Forni. Si era separata da poco dal marito, che aveva portato con sé la figlia. Venne fuori che era stata di fatto sequestrata in prefettura e poi in ospedale, ma le autorità ne avevano occultato la permanenza. Raccontai la storia. All’indomani ricevetti una telefonata: “Viva il Pci”. Il tribunale restituì la bambina alla madre, il prefetto venne destinato ad altro incarico”.
Come ha conosciuto sua moglie?
“Facendo le vasche sotto i portici in via Chiodo. Ci incontravamo lì, come si usava fare in provincia. Era figlia di un operaio dell’Arsenale”.
Con la moglie Elsa, negli anni Sessanta Quando capì di averla conquistata?
“Elsa aveva una sorella malata di cuore. Una sera venne a cercarmi per dirmi che era in fin di vita e mi pregava di condurla dal cardiologo. La portammo dal medico, il quale non ci diede alcuna speranza. Di lì a poco morì”.
A che età si è sposato?
“A 26 anni, Elsa ne aveva 22. Guadagnava più di me. Lavorava come impiegata in un’impresa di laterizi. Io prendevo in nero 30mila lire al mese, lei 40. Ci sposammo nel 1956, Elsa indossò un vestito da sposa bianco, con pizzi, scollato, e un grazioso cappello. Era molto bella”.
Come festeggiaste?
“Niente rinfreschi, mangiammo in trattoria con i nostri genitori e partimmo subito per il viaggio di nozze, a Madonna di Campiglio, in una baita. Elsa rimase subito incinta di Adriana”.
Era dura arrivare alla fine del mese?
“Sì, ce la facevamo a stento. Tutta la mia vita mi sono trovato con l’acqua alla gola. Ho chiesto anticipi: sul tfr, sulla tredicesima, acconti al giornale, prestiti. Gli stipendi di un giornalista dell’Unità erano quelli di un metalmeccanico. C’era poco da scialare. “Un giorno vorrei arrivare senza patemi alla fine del mese”, diceva sempre Elsa”.
Eravate precari.
“Sì, ma avevamo una grande fede nel futuro. In qualche modo le cose si sarebbero sistemate, questo ci fece andare avanti”.
Quanto è stata importante Elsa?
“Direi decisiva. Mi ha sempre sostenuto. Non mi ha mai fatto pesare le tante assenze, io stavo sempre al giornale. Ha cresciuto da sola le nostre figlie, Adriana e Silvia”.
Come arriva a Roma?
“Nel 1961 mi telefonò Luigi Pintor e mi propose di trasferirmi. Le bambine erano piccolissime, ma Elsa mi incoraggiò. L’impatto con Roma però fu tremendo”.
Straniante?
“Gli affitti erano proibitivi per le nostre tasche, trovammo casa, dopo lungo cercare, in via Pais, alla Nomentana, in un palazzo in costruzione. Mi comprai una Seicento con cui giravo per una città immensa e sconosciuta, c’era tanta cronaca nera. Uscivo di casa la mattina e tornavo la notte. Elsa rimaneva tutto il tempo da sola, in un mondo che non era il suo”.
Era un mestiere totalizzante?
“Per forza. Ricordo un episodio di cui ora mi vergogno. Ero alle prese con il mio primo grande caso di cronaca nera, fino a quel momento mi avevano fatto fare solo l’informatore. In una villa sulla via Cassia un metronotte era stato trovato morto, accanto a una piscina, con la testa fracassata. Lo avevano ucciso due ragazzi di borgata che lui aveva sorpreso a fare il bagno. Stavo scrivendo furiosamente il mio articolo quando Elsa mi telefonò tutta agitata per dirmi che i ladri erano entrati in casa nostra e avevano messo tutto sottosopra, sporcando dappertutto per le ferite che si erano procurati rompendo il vetro del terrazzo”.
E lei?
“Mi chiese di raggiungerla subito, ma io dovevo consegnare l’articolo, e le dissi di no. Scelsi il giornale. Mandai al mio posto un caro collega, Franco Magagnini, che abitava in via Ungarelli, nella via parallela. Fu lui a chiamare i carabinieri. Elsa non me lo perdonò mai”.
Franco Magagnini a Repubblica negli anni Ottanta, tra Sandra Bonsanti e Sandro Pertini Anni dopo Franco Magagnini, caporedattore storico del nostro giornale, le chiese di venire a lavorare a “Repubblica”.
“E io rifiutai. Mi offrivano pure un sacco di soldi”.
Quanti?
“Dieci volte tanto quello che prendevo all’Unita”.
Dieci volte tanto mi sembra un’esagerazione.
(Ci pensa). “Forse dieci volte no, ma erano davvero tanti soldi”.
Perché rifiutò?
“Mi sembrava un tradimento verso i miei compagni. In quegli anni Scalfari ne assunse tanti dalla stampa comunista, da Paese sera e dall’Unità. Ricordo che a un certo punto il direttore dell’Unità, Alfredo Reichlin, fece un’assemblea e disse: “Compagni, voi siete come i membri del comitato centrale, lasciare il giornale significa lasciare il partito. Ero già redattore capo. Mi sentivo responsabile verso quella comunità”.
Con il direttore dell’Unità Alfredo Reichlin e Berlinguer nel 1976. Ricchini è a destra nella foto Una diserzione?
“Sì, una sorta di diserzione”.
Ed Elsa?
“Mi disse: “Decidi tu”. Ricordo che Magagnini, che aveva un carattere fumantino, la chiamò con fare spiccio. “Devi convincerlo! Siete nella miseria”. “No, decide lui”, gli rispose Elsa”.
È pentito?
“No, no. Lo rifarei”.
Per diverse generazioni lei è stato un maestro?
“Non mi sento tale. Con molti di loro sono sempre in contatto. Mi vengono a trovare. L’altro giorno sono passati Staino ed Elle Kappa”.
Come arriva la satira sull’Unità?
“Dissi a Macaluso che bisognava ingaggiare Staino. Lo leggevo su Linus. Portammo anche Altan in prima pagina”.
Era merito suo anche Fortebraccio?
“No, quella era stata un’intuizione di Luisa Melograni. Lo scegliemmo insieme, diciamo. Poi negli anni Ottanta la società era cambiata e l’Unità era un giornale troppo severo, polveroso. “Qui serve aria fresca”, dissi a Macaluso. Mi sostenne in ogni modo. È stato il direttore più bravo che ho avuto”.
Con Fortebraccio in redazione Fece collaborare anche Zavattini?
“Eravamo molto amici. Abitava qui dietro, in via Sant’Angelo dei Merici. Era esuberante, affettuoso, un vulcano di idee. Passeggiavamo qui attorno a casa nostra, lunghe chiacchierate circumnavigando l’isolato. Poi, dopo, trovavo sempre un suo biglietto nella buca delle lettere”.
Perché?
“Era pieno di dubbi, e quel biglietto serviva a chiarire un punto oscuro della chiacchierata. Precisava, aggiungeva, esplicava. Ed io gli rispondevo, per iscritto”.
L’Unità esce una volta all’anno, per non far decadere la testata. Ma il cdr protesta: ci tengono in ostaggio.
“Trovo scandaloso il fatto che venga designato come direttore, per fortuna di un solo giorno, un personaggio di destra. Ma tutta la vicenda della chiusura dell’Unità è scandalosa. Chi sono i veri proprietari della testata? Si sa che sono degli imprenditori edili che hanno chiuso il giornale improvvisamente, senza corrispondere liquidazioni, senza cassa integrazione. Decine di persone sono così finite sul lastrico senza alcun sostegno”.
Chi ha sbagliato?
“Ci sono molte responsabilità. Anche quella del Pd, che non muove una foglia, eppure l’Unità è figlia del suo sangue. E ogni anno chiama i cittadini e i compagni alle Feste nel suo nome glorioso”.
Lei all’Unità ha inventato i cosiddetti collaterali.
“Sì, i libri venduti insieme al giornale. Quello che facemmo su Enrico Berlinguer, un anno dopo la sua morte, vendette 800mila copie. Portammo una copia anche a Pertini, al Quirinale”.
Con Emanuele Macaluso e Franco Tatò al Quirinale, da Sandro Pertini: giugno 1985. Berlinguer l’ha conosciuto bene?
“Certe notti passava in redazione a prendere la copia fresca di stampa. Allora si fermava a parlare con noi. Un altro che passava spesso era il sindaco di Roma, Luigi Petroselli. “Non vai a dormire?” gli chiesi una volta. “Ora torno in Campidoglio, perché ho paura che mi cambino i colori del Piano regolatore”.
Di Berlinguer che ricordo ha?
“Un episodio relativo al congresso di Milano, nel marzo del 1983: un anno prima della morte. Il Palasport si era svuotato, c’eravamo solo noi, io nel mio ufficio che scrivevo, lui nel suo. A un certo punto venne da me e mi chiese di vedere insieme il telegiornale, la sua tv non funzionava. Il Tg1 aprì con la notizia del congresso e a un certo punto il notista disse: “Berlinguer ha rinnovato lo strappo con l’Urss, ma non è andato oltre”. Berlinguer spense il televisore”
Per rabbia?
“Sì, con stizza. Rivolto verso a me disse: “Ma io lo voglio fare un partito nuovo, ma non è il momento, perché una metà si staccherebbe”.
Era quello che poi fece Occhetto.
“Sì, sei anni dopo, col Muro crollato. Mi colpì quella frase, perché pensavo anch’io che occorresse cambiare rotta, lo dicevo spesso al giornale”.
L’avrebbe fatto, prima o poi, se non fosse morto?
“Sì, ma in una maniera meno rocambolesca di come lo fece poi Occhetto”.
Con Enrico Berlinguer Adesso per chi vota?
“Per la sinistra e per il Pd”.
E come guarda oggi a questa altra guerra, in Ucraina?
“Sono d’accordo con il Pd. Bisogna distinguere l’aggressore e i resistenti. Sono dalla parte degli ucraini, e dei resistenti”.
Come trascorre le sue giornate?
“Leggo libri, i due principali quotidiani, scrivo molto, ho una governante ecuadoregna che mi aiuta in casa. Adriana e Silvia vengono a trovarmi quasi ogni giorno”.
Non è contento?
“È tutto nuovo, senza Elsa. Mi manca molto”.
Concetto Vecchio, Repubblica, 12 maggio 2022
4 Comments
Carlo Marx, quando Scrisse la sua famosa filosofia, nella sua grande opera titolata ‘il Capitale”, che segno’, nel bene nel male” una grande parte della storia umana ed ancora adesso resiste nel tempo, secondo me, commise un errore.
Liberò gli esseri umani dalla schiavitù padronale e li affido’ alla schiavitù dei funzionari del nuovo partito comunista ed in generale allo stesso. Con la grande rivoluzione bolscevica, la dittatura del proletariato sostituì quella degli oligarchici, con un aggravante: aumento’ il fiume di sangue su cui galleggio’ il nuovo regime per parecchi anni. Non solo, ma l’odio di classe che fino ad allora era stato represso e comunque attutito esplose e resiste tutt’ora. Certo gli schiavi, ai quali la mia famiglia apparteneva, forse anche quella dell’ex capo redattore del giornale “L’Unità” , il compagno Carlo Ricchini, furono attratti e glorificati dai nuovi regimi comunisti che andavano nascendo sulla terra legandosi inizialmente a quello della grande Unione Sovietica. Io devo gran parte del mio riscatto sociale al Partito Comunista Italiano che ringrazio ancora e non rinnego. Non avrei potuto imparare a scrivere, mentre pascolava le pecore, se quest’ultimo non si fosse battuto per creare nelle campagne del profondo sud le scuole multiclassi affidate a degli insegnanti/e disagiate ed amati da noi ultimi dei contadini. Non solo, ma non avrei potuto accedere alle scuole medie inferiore, superiore e poi all’università, se il PCI non si fosse battuto per creare la scuola media per televisione e gli incentivi, per i poveracci come me, ad esempio libri gratis e borse di studio. A quanto sopra aggiungo, e ringrazio ancora, per l’incoraggiamento e la seguente famosa frase, che ha guidato Il cammino della mia vita, l’ex, oramai defunto, segretario del Partito Comunista del mio paese, il compianto compagno Michele De Risi. Tutte le volte che mi incontrava mentre lui andava a lavorare nei campi e io andavo a scuola mi diceva: ” bravo, coraggio ed impegno mi raccomando, perché se vuoi entrare nella stanza di chi guiderà’ la nostra futura società devi studiare tanto e con motivazione, buona scuola e buona giornata.” Io ho seguito il suo consiglio e lo ringrazio ancora, ma dopo aver percorso con l’ascensore sociale tutte le classi da pastore, operaio, impiegato sindacalista a dirigente aziendale, sono considerato” venduto” dai compagni di rifondazione comunista ai quali io non mi sento più legato e penso e dico. Il comunismo non si può rifondare: ha dimostrato il suo fallimento in tutte le parti del mondo in cui è stato applicato, dalla grande Unione Sovietica alla Cina, a Cuba, al Venezuela eccetera eccetera. Il motivo della mancata realizzazione della società comunista, Secondo me, è semplicemte il seguente. Agli esseri umani non si possono togliere, come fa la filosofia comunista, i tre seguenti principi fondamentali: la competitività, la libertà di parola e la dignità. Per quanto mi riguardo concludo dicendo che non c’è altra via per gestire la nostra società, rispetto a quella del compromesso delle idee, tra le varie culture e sensibilità e bene ha fatto il PCI a trasformarsi come risulta attualmente ed Addio compagni. Serena giornata a tutti/e coloro che leggono su questo democratico Antonio De Matteo Milano
Caro Antonio, non sono conclusioni facili da raggiungere quelle a cui, invece, sei arrivato tu. E’ doloroso riconoscerlo ma è proprio così. Un grande “bravo” e un grandissimo abbraccio. Sergio
Bellissima l’intervista a Ricchini, che non conoscevo, e bello e assolutamente condivisibile il commento di Antonio.
Un abbraccio e ancora scusa a tutti per l’assenza dal blog. Devo ancora abituarmi al lavoro che ho iniziato da poco più di un mese. Ma leggo sempre con enorme piacere testi e vignette.
Massimiliano
Proviamo a ridere un po’?
Ecco una barzelletta che spero faccia effetto.
In uno ufficio di una grande azienda, la segreteria del direttore generale si accorge che il suo capo ha la cerniera dei pantaloni aperta e dice: ” ingegnere guardi che la porta del suo garage è aperta.
Il dirigente non capisce subito, ma poi
istintivamente guarda in basso, scopre il misfatto e rimedia velocemente, mentre dice:” spero non abbia visto la mia Porsche super lusso”
La replica veloce della segretaria: ” No! no! tranquillo! ho visto solo una Volkswagen con due gomme a terra”
Buona giornata e buon inizio settimana Antonio De Matteo Milano