ROMA – Novantaquattro anni di storia scomparsi con un clic. È questa la triste fine che ha fatto, per ora, l’archivio storico digitale dell’Unità, cancellato da Internet un anno esatto fa.
Vittima di una disputa aziendale sul dominio del quotidiano, quando ‘unita.it’ fu spento, oltre al giornale sparì anche la sua memoria storica costruita pagina dopo pagina dal 12 febbraio 1924 dai giornalisti e da una schiera impressionante di intellettuali, politici, sindacalisti, che hanno narrato la storia dell’Italia e delle sue idee. Nulla di tutto ciò è più consultabile, per studiosi, ricercatori, studenti, giornalisti. A meno che non si inoltrino nel deep web. Perché un attimo prima che le macchine venissero spente alcune persone ci entrarono e scaricarono una buona parte di quell’immenso patrimonio, per renderlo subito disponibile a un indirizzo internet consultabile solo con il browser Tor.
Oggi in quel sito si registrano un paio di centinaia di ricerche al giorno, di ciò che altrimenti non si saprebbe dove trovare, e sono solo le ricerche di persone che in un qualche modo sono riuscite a trovare l’indirizzo giusto, e il giusto modo per arrivarci. Testimonianza di quanto quell’archivio, un patrimonio pubblico di proprietà privata, sia ancora vivo e indispensabile.
“Stanno usando contenuti non loro ed è un illecito serio” è il parere tecnico dell’avvocato Guido Scorza: “Sotto il profilo del diritto privato è legittimo renderlo inaccessibile, per chi ne è proprietario, che certo è anche responsabile della scomparsa dell’interesse pubblico dell’archivio, orfano di qualcuno in grado di farlo valere e di una sede nella quale farlo valere per restituire alla storia quel serbatoio di informazioni”.
La proprietà dell’archivio è oggi di Unità Srl, ovvero di Pessina Costruzioni, dal 2015 azionista di maggioranza della testata, con un 10 per cento in capo alla Fondazione Eyu, ovvero il Pd. Il giornale ha cessato le pubblicazioni nel giugno dello scorso anno, il dominio ‘unita.it’ aveva già chiuso a gennaio, sostituito da ‘unita.tv’, che a sua volta ha chiuso a luglio ed è poi stato rimpiazzato con l’attuale democratica.com.
Fra le vittime della scomparsa dell’archivio anche Walter Veltroni. Per recuperare un pezzo scritto da Nuccio Ciconte, storico giornalista deceduto a dicembre, e leggerlo al suo funerale, ha passato ore a cercarlo nel suo personale archivio cartaceo. L’ex direttore è lapidario: “È un assassinio della memoria, l’indisponibilità a tenere in rete questo patrimonio è un atto di violazione di elementari principi di civiltà culturale. Lì dentro c’è la storia del fascismo, della resistenza, della liberazione, della ricostruzione, della sinistra, del movimento operaio, dei partiti, del sindacato, credo che sia materia da Archivio di Stato, da ministero dei Beni culturali, sulla quale c’è bisogno di un intervento pubblico”.
L’archivio è stato digitalizzato quando proprietario del giornale divenne Renato Soru, dieci anni fa, “approfittando di competenze importanti che allora avevamo, all’epoca solo La Stampa aveva fatto un’operazione analoga, il primo caso al mondo fu il New York Times. Per salvare l’archivio, che rischiava di disperdersi, lo digitalizzammo e mettemmo online con funzionalità innovative”.
Poi, continua l’ex editore, “si sarebbe potuto ancora migliorare e promuovere, dopo che noi andammo via, e ora è sparito. Esiste ancora, ovviamente, le tecnologie ci sono e credo che al di là dei contenziosi rappresenti un pezzo di storia italiana importante, di cui potrebbe occuparsi ad esempio la Fondazione Gramsci. Il suo valore economico è abbastanza limitato, il valore storico e culturale è importantissimo e credo che debba prevalere, ci sono cose che vanno al di là della proprietà intellettuale e questo mi sembra il caso”.
Chi ha scaricato l’archivio dai server ha scelto di ricaricarlo su Tor per meglio proteggersi da eventuali azioni legali. Ma, specifica, “è stato fatto per salvaguardare quello che consideriamo un patrimonio culturale
pubblico, e rendere nello stesso tempo evidenti, tramite un atto provocatorio, le contraddizioni del rapporto tra le potenzialità tecnologiche, l’accesso universale alla conoscenza, e la realtà. Senza alcun lucro, e per un patrimonio che fino a quel momento era pubblico”.
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Non c’è limite all’imbecillità e alla grettezza umane.