Se la lettura deve essere frettolosa, meglio che rimandiate: questo testo di Trotta merita molta attenzione e quindi una lettura calma e riflessiva. Personalmente lo trovo anche molto utile e per questo vi invito a trovare il momento giusto per studiarlo.
Sergio
Qualche tempo fa Giuseppe Turani ha sostenuto che contro Matteo Renzi si è mobilitato il corpaccione dell’Italia consociativa, quella dove nessuno vince o perde mai davvero e tutti ottengono qualcosa in cambio del quieto vivere e della possibilità di continuare a mugugnare; ha anche fatto notare come molti nel PD smaniano per un qualsiasi strapuntino di potere, disposti anche a fare da “punching ball” per Grillo, Di Maio e la Casaleggio e Associati.
Ma, lasciando perdere per un attimo la pur motivata vis polemica di Turani, non può essere tutto qui quello che muove ed ha mosso la lotta politica in Italia negli ultimi tempi.
In fondo, nel malessere della sinistra, e non solo quella italiana, a me pare esserci anche qualcosa di più “serio”, di più profondo, di più radicale.
E si tratta, a mio parere, della mai risolta dialettica tra la sinistra democratica di cultura liberale e la sinistra democratica di matrice socialista (ed ex-comunista), a cui si aggiunge anche la sinistra cattolico-solidaristica.
Non è cosa da poco: ho personalmente ricordi molto vivi di quando, quasi cinquant’anni fa (allora avevo poco più di 16 anni e mi affacciavo con giovanile entusiasmo sul mondo della politica), con la mia estrazione liberale di sinistra cercavo sponde nel movimento studentesco e nel PCI e trovavo molto spesso porte non solo chiuse, ma sbattute, come se si trattasse dell’unione tra il diavolo e l’acqua santa.
Così non era allora e così non è oggi.
Anche se mi fa un po’ impressione che, dopo tanto tempo, i temi in gioco siano rimasti gli stessi, come se nel frattempo non fosse cambiato tutto il mondo, e non di poco.
Ho perseguito per tutta la vita la sintesi tra due culture e due mondi che la storia aveva separato, poi riavvicinato, poi di nuovo separato, e così via, infinite volte.
Ci sono stati momenti, a partire dalla Resistenza, e poi il compromesso storico, l’Ulivo, la creazione del PD, nei quali pareva cosa fatta, pareva che finalmente si fosse riusciti a comprendere tutte le enormi sinergie tra le due culture: e poi di nuovo crack, rotture, litigi, complicanze, persino feroci scontri personali.
Insomma, ancora oggi io vedo questa spaccatura operare subdolamente all’interno della sinistra e del PD che, guarda caso, sarebbe nato nel frattempo proprio per superare queste divisioni.
E allora, di nuovo, la sponda socialista, che coltiva diffidenza per l’individualismo, per l’impresa, per la selezione meritocratica, a volte perfino per il perseguimento del benessere e per il concetto di potere costituito, e la sponda liberale che accusa l’altra di egualitarismo, assistenzialismo, anche pauperismo, conservatorismo e consociativismo, di voler fare opposizione a vita senza prendersi responsabilità di governo, in attesa di non si sa quale sol dell’avvenire.
È ovvio che su queste si inneschino mille altre motivazioni, ma è a mio avviso innegabile che, al fondo, tra le persone più serie, questa distinzione permane e lavora per l’incomprensione e la separazione.
Come fare a venirne fuori?
Prendere atto che è difficile e tirare avanti lo stesso rischia, come stiamo purtroppo vedendo, di consegnare irresponsabilmente la storia al populismo, al sovranismo, a quanto di peggio un progressista (ma sul concetto di “progresso” siamo davvero tutti d’accordo?) di sinistra possa immaginare.
Dovrebbe quindi essere obbiettivo primario comune quello di trovare la sintesi, urgentemente, senza remore né diffidenze reciproche.
Sarò un illuso, un inguaribile ingenuo ottimista, ma a me non è mai parso particolarmente difficile immaginare una politica che sintetizzi e realizzi il meglio delle due, o forse tre, culture.
Dopotutto, non ci riconosciamo tutti in “liberté, egalité, fraternité”?
Cos’altro c’è da aggiungere? L’ordine dei fattori? Può darsi, ma di fronte a chi apertamente professa di nuovo esclusione, segregazione, supremazia della razza e della cultura bianca e cattolica, è mai possibile non capire che SI PUO’ e si deve immaginare un mondo diverso, dove:
- la libertà sia tutta quella che non offende l’altro da sé e mira alla liberazione dai bisogni primari
- l’uguaglianza sia quella delle opportunità, dei punti di partenza, dei diritti e dei doveri di tutti
- la fraternità sia quella che garantisce gli ultimi, non lascia indietro nessuno, non permette la sopraffazione dell’uomo sull’uomo?
Perché deve essere così difficile accettare che queste culture costituiscono il meglio del lascito dei secoli dal XVIII in poi, dell’era moderna, insomma; delle lotte e delle guerre costate milioni e milioni di morti da tutte le parti, delle inenarrabili sofferenze di popoli interi che hanno pagato a caro prezzo la loro voglia di riscatto?
Perché dobbiamo fermarci di fronte all’art. 18, ai poteri dei presidi, ai voucher o inezie (scusatemi!) del genere?
A me pare chiaro e lampante che per cambiare il mondo non basta stare all’opposizione, che solo andando al governo si può mettere mano alle riforme, che non si può giocare sempre di rimessa, che la vocazione maggioritaria non è una follia ma una condizione pressoché inevitabile in un sistema democratico, che non si può avere tutto e subito ma che serve gradualità, che non si può accontentare proprio tutti ma qualcuno contro te lo troverai e dovrai fartene una ragione, e via così.
Politica normale, insomma, ma capace di incidere sulle vite dei cittadini, gradualmente migliorandole.
Sembra facile, ma la storia ci dimostra che non lo è affatto.
Venendo a noi, ai nostri poveri casi italiani, anche il più antirenziano degli antirenziani dovrà ammettere che il suddetto Renzi in questi anni ci ha provato.
Semmai giudicherà i provvedimenti presi, o proposti, tutti sbagliati, dannosi, ma negare che qualcosa sia successo, proprio non si può.
Che siano state prodotte politiche con entrambe le ispirazioni (liberale e socialista), nemmeno è negabile.
E allora, possibile che non si veda che almeno la direzione non può che essere quella?
Possibile che non si riesca a ragionare sul come fare meglio, sul come fare di più, sul come fare a conciliare esigenze che NON sono affatto in contrasto, se andiamo a fondo e rinunciamo ai preconcetti?
Insomma, possiamo per una volta parlare di politica e non di schieramenti?
Almeno gli intellettuali, in teoria meno coinvolti nella gestione del potere, dovrebbero aprire il confronto e proporre apertamente la sintesi definitiva, dialettica ma strutturalmente definitiva, tra le due anime della sinistra e creare le condizioni per farle diventare una soltanto, per sempre.
Se non si riesce a farlo è solo perché prevalgono le ragioni personalistiche, a volte persino corporative, cui accennavo all’inizio: difesa dello status quo, paura del nuovo, timore di perdere quanto acquisito.
E non dobbiamo stupirci che una parte del nostro elettorato tradizionale sia restia nel seguirci: è naturale che ci sia chi si senta minacciato dalle riforme e teme di perdere qualche rendita di posizione, vera o presunta che sia, ed allora diventi conservatore più dei conservatori tradizionali (valga per tutti l’esempio di una parte consistente del sindacato, che si ostina a non voler capire che il mondo del lavoro non è più quello degli anni Settanta e che la funzione di un sindacato moderno deve essere quella di assistere tutti i nuovi lavori, favorire la mobilità, promuovere la formazione continua e non pretendere regole e rigidità assolutamente non più coerenti col mondo moderno. E se questo impatta sugli equilibri di potere, ebbene, che ne cerchino di nuovi!).
D’altronde è facile mobilitare le masse quando queste sono col culo per terra (mi si passi la volgarità) e non hanno nulla da rischiare (il proletariato aveva solo la prole, non dimentichiamolo!).
Più difficile è mobilitarle quando esse hanno raggiunto un certo, anche minimo, livello di garanzie, assistenza, benessere, che in teoria potrebbero essere soggetti a rischio.
Ma non per questo la sinistra deve smettere di perseguire il meglio, di perseguire il progresso, senza troppa paura di subire contraccolpi.
Suvvia, saremo capaci di gestire con oculatezza le evoluzioni economiche e sociali. O no?
Siamo davvero progressisti o siamo diventati conservatori, nostalgici di un mondo che ci ha scavalcato?
Io non ho dubbi: abbiamo le capacità per evolverci senza distruggere duecento anni di storia, senza compromettere i risultati raggiunti, senza mettere a rischio conquiste costate sangue, sudore e lacrime.
Serve coraggio, serve avere chiara la direzione, serve parlare con le parole giuste, senza illudere ma senza spaventare.
Serve infine credere davvero che non di due mondi parliamo ma di uno solo, frutto di duecento anni di storia umana, perché l’altro, quello avverso, il mondo che davvero ci minaccia, il mostro, è fatto di paure, di fobie, di menzogne, di truffa ai danni del popolo, che a volte ci casca, come abbiamo tragicamente appreso negli anni Venti e Trenta del secolo scorso.
È un mondo fatto di violenza fisica, verbale, senza cultura. E noi non possiamo transigere sui principi.
Populismi e sovranismi sono, quelli sì, incompatibili con le culture liberali, socialiste, solidaristiche.
La nostra diversità è la nostra forza: così come il metodo scientifico è incompatibile con altri modi fantasiosi di gestire la conoscenza, così le culture politiche che dalle scienze, umane o tecniche, discendono non possono ibridarsi con false culture basate sul controllo delle masse, sulla superstizione, sulla paura e sulla irrazionalità.
E dovremmo avere la forza di rivisitare anche i nostri sistemi istituzionali, visto che la democrazia rappresentativa, così come la conosciamo, sta ovunque mostrando segni di inefficienza ed inadeguatezza: inadeguatezza alle nuove tecnologie di comunicazione, alla situazione di conflittualità sociale, alla superficialità dilagante nella popolazione bombardata dalle fake news, drogata dai social, allo schematismo imperante che rifugge da ogni tipo di approfondimento.
La Brexit, l’elezione di Trump, la lunga paralisi istituzionale della Spagna, del Belgio, perfino della Germania, l’ascesa di movimenti che apertamente contestano quei principi di tolleranza e apertura che hanno connotato per decenni le democrazie occidentali, tutto questo sta lì a testimoniare che qualcosa si è rotto o si sta rompendo nel patto sociale che ha retto l’Occidente dalla fine della guerra in poi.
La democrazia come sistema istituzionale ha prosperato fino a quando il popolo voleva emanciparsi, voleva progredire, chiedeva partecipazione e coinvolgimento.
Ora che una parte importante del popolo ha paura di perdere tutto, teme il futuro, si sente minacciata da tutto e da tutti, è tentata da forme istituzionali più brutali, democrazie autoritarie, democratura, roba che vediamo in Russia, in Turchia, in Cina.
Noi dobbiamo essere capaci di proporre qualcosa di meglio, di più evoluto, di più funzionale: e se il meglio non scaturisce dalle culture che hanno costruito le civiltà occidentali nel corso degli ultimi due secoli e mezzo, da dove mai potrà arrivare? Le idee non mancheranno certo: abbiamo una tradizione lunga, esempi e maestri cui fare riferimento, esperienze e storia alle spalle. Cosa ci manca?
Su questi temi dobbiamo dibattere e trovare l’unità di intenti e di azione, non solo il Jobs Act o la riforma della scuola o della pubblica amministrazione, che sono temi applicativi sì importantissimi nell’immediato, ma comunque migliorabili, correggibili, discutibili, purché con spirito costruttivo e non di pura interdizione.
Abbiamo bisogno di ritrovare una purezza di intenti che abbiamo perso, una voglia di futuro che ci attragga, una capacità di visione che ci permetta di convincere la parte operosa e costruttiva della nostra società, che c’è e aspetta con impazienza di essere riportata in auge, contro i rumorosi estremismi del populismo e del sovranismo.
Insomma, ci giochiamo una partita storica: o lo capiamo in fretta o ci troveremo, appunto, fuori dalla storia.
3 Comments
Caro Trotta
Indiscutibilmente d’accordo su tutto. Cosa manca? Cosa serve?
Manca sicuramente un LEADER che poggi su queste basi di ragionamente. Un leader riconosciuto e da tutti sostenuto ad ogni costo anche se non è ad immagine e somiglianza del proprio ego. Per me Renzi lo era, se si aveva l’umiltà di non disquisire su ogni possibile mosca volante ma considerare un percorso di costruzione di un progetto più ambizioso fatto del passo dopo passo, che tenga conto dei rinnovamenti in corso e di un futuro a cui adeguarsi. Avere la presunzione e la voglia ad abbatterlo si doveva capire che il risultato sarebbe stato uno spostamento pericoloso a destra, e delle peggiori.
Cosa serve. Serve un nuovo progetto e se si vuole un adeguamento al progetto, che raccolga le riflessioni e gli obiettivi che facevi secondo me in un concetto non più Nazionale ma Europeo. Ecco perchè tifo per un PDE Partito Democratico Europeo, trasnazionale che raccolga tutto il meglio di quelle masse di persone su cui domini la ragione e non l’isterismo analfabeta che purtroppo rischia di dilagare in un grande Bar dello Sport.
Se non affrontiamo così la cosa allora sì, si “rischia, come stiamo purtroppo vedendo, di consegnare irresponsabilmente la storia al populismo, al sovranismo, a quanto di peggio un progressista di sinistra possa immaginare”.
Spero ci sia attorno a tutto ciò la voglia di fare passi avanti in modo deciso e determinato senza tenere conto ma anzi isolare e abbandonare, quella parte di sinistra velleitaria, storicamente ormai fuori da una politica costruttiva che eviti di farci fare un passo avanti e due indietro.
Un caro saluto
Gianni Moscatellini
Mi spiace che tu, come molti altri ferventi renziani (non è un’offesa, al contrario, è il riconoscimento di una posizione politica chiara) continui ad attribuire solo alle critiche interne e ad una presunta volontà distruttiva la sconfitta che abbiamo subito e che naturalmente ha subito Renzi. In altre parole mi pare che continui a considerare una cosa unica l’atteggiamento di chi è uscito fondando LeU e di chi, seriamente, è rimasto dentro il partito esprimendo lì le sue critiche. Personalmente condividerei i tuoi giudizi se questi riguardassero solo chi se ne è andato dal PD, innegabile che ci fosse una volontà di delegittimazione personale di Renzi che accecava ogni loro mossa politica. Lo stesso giudizio non posso assolutamente esprimere sui compagni della minoranza interna, persone generalmente molto serie e costruttive. Detto questo però se si vuole essere sinceri dobbiamo dire che nella nostra disfatta ha contato tantissimo anche un atteggiamento sbagliatissimo del segretario. In pratica un atteggiamento altezzoso e sprezzante nei confronti delle critiche interne ha generato un diffuso sentimento di sfiducia nelle sue capacità dirigenziali. Solo con queste precisazioni possiamo affrontare il problema della ripartenza del partito, tenendo anche presente la bella ipotesi del partito transnazionale europeo. Tutto quello che si costruisce pensando oltre i nostri confini troverà sempre il mio appoggio totale.
Sergio
Caro Sergio, tu che sei un personaggio famoso e sicuramente un uomo di cultura e di compromesso ( almeno così mi sembra) perché non fai arrivare tutte queste nostre considerazioni ed idee alla direzione del partito democratico? Io ci ho provato, ma l’unica risposta che ho avuto è stata quella “lapidaria” di Matteo Renzi che ti ho inviato e qui ripeto: “ caro Antonio io non ho rinunciato e non rinuncerò mai, avanti insieme”. Io ovviamente gli ponevo delle domande alle quali lui non ha risposto. Ho fatto la stessa mossa anche sul tuo blog.senza risultati ed intanto continuiamo ad assistere allo spettacolo indecoroso in parlamento dei parlamentari del PD che prima presentano un emendamento sul decreto del governo per il lavoro e poi il segretario Martina lo fa ritirare. Costava troppo discuterne prima? Il tuo blog caro Sergio, secondo me, può aiutare il collegamento tra il popolo del PD ed i suoi dirigenti e speriamo di trovare un dirigente che sappia fare quello che dice Trotta . Un abbraccio a tutti Antonio De Matteo