Chi si aspettava da Matteo Renzi una qualche autocritica dopo la repentina sconfitta elettorale, non potrà che rimanere deluso. Ha invece ripetuto, nel suo primo discorso di commento, il comportamento adottato in precedenti occasioni. Ovvero dopo le perdite severe nelle elezioni comunali e dopo il referendum sul sistema istituzionale. Anche allora rifiutò una seria analisi del voto con l’irragionevole convinzione di poter ritornare comunque al 40% delle elezioni europee del 2014.
Oggi, difronte a una debacle clamorosa che immiserisce la forza del Pd a meno il 20%, sembra voler rispondere, con i toni come sempre altezzosi, a chi, all’interno dello stesso partito, propone “caminetti” per escogitare un qualche ruolo “responsabile”. E annuncia che si, certo, rinuncerà alla guida del partito, ma solo dopo l’insediamento di un nuovo governo (che chissà quando sarà possibile formare). E sarà lui a guidare l’operazione non un qualche “reggente”, ipotesi evidentemente suggerita da qualche amico-nemico interno. Il nuovo segretario dovrà essere eletto da nuove primarie. E verrà così convocata, annuncia, un’assemblea nazionale per aprire una fase congressuale. Onde aprire una riflessione sulla sconfitta? Nemmeno per idea. Sarà l’occasione per un confronto “risolutivo”. Ovvero non un congresso che si apre “e non finisce mai”. Basta con remore, perplessità opinioni divergenti, insomma. Vuole il potere assoluto, un partito tutto suo. Altro che dimissioni. Un avvertimento a Orlando, Emiliano, ma anche a Franceschini, Veltroni, eccetera.
Lo stesso presidente della Repubblica pare essere tirato in ballo. Perché secondo Renzi l’unico vero grande errore commesso non è stato, ad esempio, quello di una scarsa attenzione ai problemi drammatici del mondo del lavoro giovanile. No. L’errore (ma anche questo non suo) è stato quello di non aver portato il paese alle urne nel 2017, in concomitanza con le elezioni francesi. Chi avrebbe commesso quell’errore? Molti hanno pensato, appunto, al presidente Mattarella.
Ha ben commentato il presidente dei senatori del Pd Luigi Zanda: “Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno. E quando si decide di darle, si danno senza manovre. In un momento in cui al Pd servirebbe il massimo di quella collegialità che è l’esatto opposto dei cosiddetti caminetti, annunciare le dimissioni e insieme rinviarne l’operatività per continuare a gestire il partito e i passaggi istituzionali delle prossime settimane è impossibile da spiegare”.
Matteo Renzi, con queste ipotetiche dimissioni, pare accettare i punti di vista di alcuni “irriducibili” sostenitori del “giglio magico”. Coloro che gli suggeriscono di uscire dalla cosiddetta “fase zen” e di approfittare dell’occasione per liberarsi degli ultimi “pesi” che lo circondano, considerati un “piombo” nelle ali del segretario. E’ spinto, in definitiva, a chiudersi nel gruppo dei suoi fedeli per ritornare al ruolo del rottamatore. Con la non scalfita convinzione di poter fare del Pd un piccolo partito tutto suo, capace di seguire le orme di un Trump o di un Macron. Una scelta che comunque non sarà semplice adottare se si tiene conto dei tanti – Mattarella, Gentiloni, Veltroni, Prodi, Napolitano – che non esiteranno, crediamo, a suggerire comportamenti, anche in questa desolante occasione, improntati al senso di responsabilità.
Certo un’alternativa doverosa, difronte al disastro elettorale dovrebbe essere, per quel che resta della sinistra, fuori del Pd e dentro il Pd, quella di un ribaltamento generale. Coinvolgendo non solo Renzi o altri dirigenti del Pd o di altre formazioni, come Liberi e Eguali. Cominciando a ricostruire, dalla base, un partito, un movimento, sconfitto, umiliato e disperso.
6 Comments
Caro Ugolini, ottimo contributo giornalistico. Tu vieni dal quel mondo, ti frequento da moltissimi anni. Quindi, pur se carico di livore, è ben scritto. Ma, a mio giudizio, errato in chiave procedurale. Come coniugarlo, infatti, con gli obblighi statutari a cui Renzi e chiunque al suo posto non può soprassedere? Mi spiego. Un segretario politico di un Partito strutturato come il PD e non “social” o personale, nella fattispecie poi eletto da 1.6oo.ooo persone fisiche erranti e non “profilate” e poltronate, ha l’obbligo di dimettersi non in diretta tv o con la stampa schierata, cui può annunciare tutto anche cose personali se vuole, ma rimettere il mandato politico all’organismo dirigente che glielo ha conferito. In quella sede, infatti, dovrà stabilirsi, come da Statuto (scritto, discusso ed approvato dal partito stesso), di accettare o respingere le dimissioni confermando la linea politica o sottoporne un’altra alla riflessione degli iscritti. E subito dopo un’ampia ed articolata discussione, dovrà stabilire, altresì, le procedure di consultazione degli iscritti, gente in carne ed ossa e con in tasca una tessera di partecipazione quotata in Euro, non un mouse. E questo proprio per l’esigenza di collegialità che Zanda giustamente invoca. Parliamo del Capogruppo al Senato con una vita politica di grande valore alle spalle. Si può auspicare da lui una critica ai contenuti ma non alla forma ( le dimissioni si danno o non si danno, senza manovre) che è ben scritta nello statuto. Da qui in poi Ugolini usa, per avvalorare la sua tesi, il “dico e non dico”. Per capire: Renzi “pare” accettare (ipotesi) ciò che gli “suggeriscono” quelli del giglio magico e approfittarne per eliminare i “pesi” (tesi). Così si rischia di avere sempre ragione. E se Ugolini avesse torto? E’ sempre un’ipotesi. La critica “politica” sfocia, poi, in quella personale, alimentata da un “crediamo” al senso di responsabilità di altri dirigenti del partito di cui non mi pare aver letto ad ora alcuna dichiarazione. “Pare, crediamo”. Stimo Ugolini. Spero non se ne abbia a male se non voglio che la mia formazione politica diventi, questo si, un movimento “Napoleonico” o “personale”, ma un luogo di discussione ed approfondimento di proposte e la ricerca condivisa di strumenti per concretizzarle. Compreso il mandato a rappresentarle nelle opportune sedi. A me pare di aver capito questo dagli insegnamenti di Moro e Berlinguer
Ottima risposta, Massimo.
Camillo Repetti
Molto bene ha fatto Massimo a sottolineare quali sono le procedure che portano alla decadenza dalla carica di Segretario nel nostro Partito, per cui ogni “malevola” interpretazione data alle “non dimissioni” di Renzi, specie dopo l’ufficializzazione delle stesse con lettera, dovrebbe essere ritirata, con scuse! Renzi, seppure dimissionario, è ancora il Segretario in carica, fino a quando tali dimissioni non saranno ratificate dall’organo statutario preposto, che credo sia la Direzione, la quale dovrà poi convocare il congresso. Quindi, tutta quella fretta che hanno alcuni di “togliersi dalle palle” Renzi mi lascia interdetto. E poi, pensiamo che i problemi del PD saranno risolti?
Certo se questo è il clima che si respira nel Partito mi sento fortunato a starmene lontano.
Sono comunque un elettore PD proveniente dalla storia PCI/DS, ho sempre votato PD senza turarmi il naso, stavolta ho fatto fatica di fronte a tanta divisione e accuse alle persone, ma ci sono comunque andato.
Dopo la sconfitta è giusto che si apre una discussione anche aspra, cosi si faceva nel PCI, ma leggere il signor Ugolini (omonimo del giornalista dell’Unità?) mi fa accaparrare la pelle.
Non solo perchè si continua a criticare pesantemente stando dietro le chiacchiere dei giornali e dalle poche parole dette da Renzi in quel breve comunicato televisivo, ma soprattutto per il livore che si esprime.
Io penso che Renzi sia una persona intelligente ed ha capito che con il 4 marzo è arrivato a capolinea e le sue dimissioni anche se possono sembrare postdatate saranno esecutive già da lunedi e si andrà avanti fino al congresso con un reggente.
Sono anche convinto che nella testa di Renzi non gli passa nemmeno il pensiero di un nuovo Partito alla Macron perchè sa benissimo che in Italia non sfonderebbe soprattutto se fatto da uno che è stato già Presidente del consiglio e che viene da due sconfitte. e poi è giovane ed ha tutto il tempo, a tempo debito di una rivincita.
Bruno Ugolini è il giornalista de l’Unità, storico redattore della sindacale.
Non mi perdevo un suo articolo, ma stavolta non sono d’accordo.