Adriano Sofri, Il Foglio, 19 luglio 2022
Il 15 luglio ho camminato sul lungofiume di Dnipro fino a esserne esausto. Ho filmato ragazzi che ballavano, uomini e donne che pescavano con la canna o, alcuni, si bagnavano nel Dnieper, battelli-ristorante dai quali veniva fuori una musica forte, ho fotografato una coppia in posa con i suoi cinque bassotti. Ho visto che non solo Odessa rifiuta di farsi rubare l’estate e la felicità dalla guerra, anche a Dnipro è così, nonostante la vicinanza ai luoghi più accaniti – Zhaporizhja è a 80 km. Anzi, mentre Odessa è mutilata della metà in cui si specchia, il mare minato e chiuso, Dnipro è padrona del suo gran fiume. Poi era sera, tornavo verso l’albergo, e sei missili sono piovuti sulla città, vicini. Le persone in strada avevano bambini, erano spaventate, sono scomparse. C’era un anziano, lui è rimasto. Non ci capivamo tanto, ci additavamo il fumo nero delle esplosioni. Si fa amicizia, ci si accomiata malvolentieri.
C’erano stati tre morti e 15 feriti: soltanto. Gli artiglieri russi devono avere dei tic. Lo scorso 28 giugno, al tramonto, avevano già lanciato su Dnipro sei missili, e come questa volta la contraerea ne aveva intercettati quattro. Allora erano arrivati dal Mar Nero, questa volta dal cielo sopra il Mar Caspio. Gli artiglieri russi non badano a spese. Questi nuovi sei missili Kh-101, dal raggio di 5000 km, sono costati loro 78 milioni di dollari.
Il giorno dopo, sabato, la mattina la città sembrava meno affollata. La sera, sul lungofiume, c’era musica forte, passeggio, biciclette, raduno di motociclisti, ragazzi che amoreggiavano, anziani sulle panchine, incontri di cani e padroni. Come la sera prima, di più.
Da Odessa a Dnipro, in treno, ci sono meno di 400 km, ci avevo messo un po’ più di 14 ore, ed ero arrivato in orario. Non so a che cosa sia dovuta la lentezza, se alla condizione precaria di alcuni tratti della linea. Si viaggia tutta la notte, e non c’è niente da vedere, ma a sorpresa – era venerdì – un chiaro di luna sfolgorante, lo scampolo della “luna del cervo”, incorniciata a lungo nel finestrino della cuccetta, e ogni tanto specchiata in un corso d’acqua. Dall’alba in poi ho guardato l’Ucraina, ma i vetri dei finestrini erano appannati da qualche liquido, deliberatamente, penso, per motivi di sicurezza.
Dnipro è per me una rivelazione. E’ una città grande, un milione, la terza o la quarta dopo Kyiv e Kharkiv: una parte ingente dei suoi cittadini è andata via, la più benestante, una parte è arrivata dai luoghi più colpiti, Mariupol, Lysychansk, Severodonetsk, la più povera. In ambedue i casi donne, bambini, anziani. Gli sfollati si riconoscono dai pesi che trascinano. L’energico sindaco di Dnipro, Borys Filatov, non fa che esortare chiunque possa a rifugiarsi altrove, e almeno negli scantinati. Accanto al gran Diorama della battaglia per il Dnieper, l’edificio della Biblioteca è adibito alla registrazione – c’è una presenza capillare della World Central Kitchen – al tendone accanto si distribuiscono indumenti e alimenti. Tra la gente mogia che fa la coda c’è una signora anziana, grembiule e fazzoletto in testa, con una faccia allegra, che fa la maglia.
Avevo due domande. Come reagisce la popolazione di un’altra città grande circa come Odessa. E come è diventata la città più “sovietica” della vecchia Ucraina dopo la “decomunistizzazione”. La Dnipro sovietica, con l’intero suo distretto, dal 1959 e fino al 1987, era una “città chiusa” agli stranieri, sigillata, anche ai cittadini degli altri paesi “socialisti”, perché era la “Rocket city”, il sito dei razzi e dei missili balistici e spaziali. Ed era stata la città di Brezhnev e della cerchia invadente di notabili politici della sua epoca. A Dnipropetrovsk, come si chiamava fino al 1916, si parlava (e si parla) per lo più russo, e si riteneva che la Russia vi avesse una salda presa. Dal fatidico 2014, dopo Maidan e Crimea, successe al contrario che la guerra civile nel Donbass trasformasse Dnipro nell’ “avamposto” del patriottismo ucraino e, già da allora, nel maggior centro di accoglienza degli sfollati. Ebbe un ruolo di rilievo, se non determinante, l’oligarca ucraino israeliano e cipriota Igor Kolomoyskyi, già governatore, lo stesso cui si attribuisce la regia dell’avventura politica di Zelensky. Queste le premesse, quando mi inoltro nella città. Le città sconosciute sono affare di piedi e di passi, un modo è di lasciarsi portare, finché arrivo in centro. Che si riconosce da un faraonico palazzo, un blocco centrale e due ali laterali, un Palazzo Pitti sognato da Stalin, davanti un vastissimo spiazzo rattoppato dal quale si sente che manca qualcosa: la gran statua di Lenin, cui la piazza era intitolata. Dal marzo 2014 si chiama Piazza degli Eroi di Maidan. La statua venne scrupolosamente demolita nell’aprile 2014. Asfalto spigionato, in attesa di. Nel giugno a Dnipro venne abbattuto anche un altro Lenin e sostituito da un combattente nel Donbass. Nella guerra civile del Donbass, fra il 2014 e il 2018, furono 20 mila i soldati dell’oblast’ di Dnipro dalla parte ucraina, e 559 i caduti.
Guardo l’incombente palazzo con la guida di una coppia di sposi, Serhyi e Gloria, lui parla un ottimo inglese (il mio è pessimo) lei è gentile e paziente. Era la sede del partito. Indico una grande stella di lampadine spente, in un punto della facciata – “No, quella è di Natale”, ride Serhyi, e mi mostra invece i medaglioni con la stella e la falce e martello che corrono ancora lungo i kilometri di cornicione. Dal 2014 i giovani sono stati investiti in pieno dagli avvenimenti e dalla scoperta del passato, dice: la storia ci riguardava, come un fatto personale. Ha 32 anni, è ingegnere, professione tipica di Dnipro, ha una settimana di vacanza ma non dal fronte, dal lavoro in una compagnia pubblica: “Al servizio militare non ho una preparazione, sono esperto di software, sono più utile così”. Il gran palazzo sarcofago ora è tutto diviso e affittato a uffici privati. Al piano terreno, su un lato, si sono insediati dei bar deliziosi, con tavolini e poltrone esterne, qualcuna a dondolo, e ragazze e ragazzi a servire, e la combinazione col palazzone staliniano mette di buonumore. (Combinazioni imprevedibili, come abbiamo appena visto in Sri Lanka, quando il popolo in rivolta si è tuffato nella piscina del presidente fuggito alle Maldive).
Mi è capitato un esperimento sulle statue. Dnipro ha una dedizione monumentale – può darsi che sia così tutta l’Ucraina, finora conosco solo Odessa e Mykolaiv. Anche Odessa è prodiga di sculture, ma con una componente più sbarazzina, così come nelle architetture, in cui si infilano rococò e liberty. Dnipro è una sequela di memoriali, che ora sono arrivati alla resa dei conti. Compresi quelli della Seconda Guerra, che commemorano insieme i nemici giurati di oggi. Nell’arteria principale della città,
già Avenue Carlo Marx, oggi intitolata a Dmytro Yavornytsky, il “padre della storia” dei Cosacchi zaporoghi, c’è uno slargo alberato con la grande statua di un uomo fiero in redingote. Non riesco a leggerne il nome nel corsivo del piedistallo, forse consumato, e chiedo. Sono tutte e tutti gentili, ma non sanno. Un giovane militare prende a cuore la cosa, gira attorno alla statua, consulta il telefono, e finalmente mi dice: “Vasily Chertkov!”. Più tardi controllo: Chertkov, figura minore, militare e traduttore, è morto nel 1793, il tipo del monumento è palesemente ottocentesco. E’ Alexander Pol, 1832-1890, archeologo e geologo, scopritore del giacimento di ferro che farà la fortuna di Kryvoj Rog / Kryvyi Rih, la città natale di Zelensky. Mi chiedo che cosa succederebbe se ci mettessimo a chiedere ai passanti chi è chi nelle statue delle città italiane. Forse è un buon segno, e promette di risparmiarne qualcuna dagli eccessi di zelo: se non sai chi sono, ne abbatterai di meno. (Un esempio di zelo? A Fontanka, pressi di Odessa, una via intitolata a Vladimir Mayakovsky gli è stata tolta per trasferirla a Boris Johnson). Bisogna però tenere il conto: “Più di 1300 monumenti a Vladimir Lenin caddero durante la rivoluzione di Maidan del 2013-2014”. La vera notizia dunque è che c’erano più di 1300 monumenti a Lenin – di fatto, nel 1991 ce n’erano 5.500. Per intenderci, in Italia le statue a Giuseppe Garibaldi sono 420. Gli eccessi rispondono di norma ad altri eccessi. Diceva appunto Lenin che per raddrizzare un bastone succede di doverlo piegare dalla parte opposta – sentenza gravida di danni collaterali.
Nell’estate del 2016 furono cambiati, col nome della città, anche quelli di oltre 350 vie, piazzi e parchi: il 12 per cento di tutti i toponimi cittadini.
Attenzione, può venir voglia di confrontare questa revisione della storia e della memoria del dopo-Maidan, e a maggior ragione dopo la guerra di oggi, con quello che avvenne in Italia dopo la Liberazione: l’epurazione e la defascistizzazione (e la decolonizzazione) mancate o inadeguate, vecchia storia. Ma il confronto cui la vicenda ucraina invita può riguardare esattamente lo stesso tema: la “decomunistizzazione”. Che, in Italia, non è avvenuta, e tanto meno con il cambio di nome del Partito Comunista, semplicemente passato a un nuovo ordine del giorno. La motivazione di sempre, abbastanza fondata, stava nella “diversità” del Pci e in particolare della sua storia. Ma il “comunismo” è stato, come si sa, “i comunismi”, e fu confiscato fin quasi al monopolio dall’identificazione col sovietismo, il regime dell’Urss e del suo Partito guida, il Pcus. Da quell’identificazione, che nei partiti “fratelli” fu soprattutto una servitù, il Pci prese le sue distanze, in un gran ritardo e con pesanti ritorni all’indietro, senza mai toccare le fondamenta. Quando, nel 1976, Berlinguer disse di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato, e poi, nel 1981 – all’indomani del colpo di Jaruzelski in Polonia – che “la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell’est europeo, è venuta esaurendosi”, le sue posizioni poterono sembrare insieme “coraggiose” e, per così dire, adattamenti estemporanei a ultime notizie. E’ curioso come la commemorazione commossa e vasta di Berlinguer nel centenario della nascita, lo scorso 27 maggio, si sia svolta, nel pieno della guerra d’Ucraina, contemporaneamente a un’acutizzazione della ostilità alla Nato, che ha fatto recuperare in vecchi restati e nuovi arrivati lo slogan “Fuori l’Italia dalla Nato”, senza sentire alcuna contraddizione. Di più: persone e gruppi di sinistra che avevano fatto della soggezione del Pci all’Urss il motivo della propria dissociazione, hanno ora ripristinato un giudizio sulla Russia e sulla quota di eredità rivoluzionaria che ancora serberebbe, che le ha attivamente opposte alla solidarietà con l’Ucraina. Questi paradossi hanno in apparenza a che fare più con le biografie e i sentimenti personali che con la ragione politica, ma si rimandano reciprocamente. Chi ha partecipato di quella soggezione alla mitologia sovietica e perfino alla tirannide stalinista non si rassegna a vedere la resistenza ucraina all’invasione come l’ultimo episodio di una lotta davvero eroica dei popoli dell’Europa Centrale, di Budapest, di Praga, allora destinata a essere schiacciata, oggi, dopo Solidarnosc, dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo il 1991, no. Dico con la rozzezza appropriata: la guerra d’Ucraina è anche da noi l’occasione di una “decomunistizzazione”, di quel socialismo “reale” che sterminò e umiliò avversari e comunisti. Quanto alla Nato, se non siamo capaci di trovare qualcosa di meglio, peggio per lei, peggio per noi.
La revisione ucraina è impressionante perché avviene così tardi, e per questo anche così suscettibile di sbandate. Come quella sulla lingua. Ho fatto amicizia con un medico di Dnipro, ha 45 anni, parla italiano, ora la sua famiglia è riparata in Italia. Nella sua famiglia d’origine si parlava ucraino, è la lingua madre sua e dei suoi. Ancora quando sono andato all’università, ricorda, chi parlava ucraino veniva guardato con sufficienza, “come un contadino”. “Anzi – precisa – come un villano. E guarda che solo da poco sono stato capace di ricostruirlo e spiegarmelo”. E’ chiaro che togliere il nome di Lev Tostoi a una strada o a una stazione di metropolitana è un errore penoso. Ma torniamo a Dnipro. Che si chiama così oggi perché nel 2016 si cancellò il nome Dnipropetrovsk. Potete pensare che si trattasse della combinazione fra il nome del fiume e quello di Pietro il Grande: nient’affatto. Si trattava di Hryhorii Petrovskyi, Grigory Ivanovich Petrovsky (1898-1978), ucraino della provincia di Kharkiv, operaio, rivoluzionario bolscevico, incarcerato, dirigente di Ekaterinoslav – il nome di allora della città che è oggi Dnipro – leader del Partito comunista, organizzatore del Terrore rosso, e principale autore, con Lazar Kaganovich, della collettivizzazione delle campagne e del Holodomor, la carestia provocata che in pochi mesi tra il 1932 e il 1933 provocò la morte per fame di milioni di contadini ucraini. Accantonato più tardi da Stalin e tuttavia risparmiato, non perse l’onore che dal 1926 gli era stato dedicato, di dare il proprio nome alla città e alla regione: Dnepropetrovsk. Solo nel 2009 una sua grande statua eretta a Kyiv fu rimossa. Quella di Dnepropetrovsk, enorme, nella piazza della stazione, fu abbattuta nel gennaio del 2016. E a causa del dettato costituzionale che tutela i nomi delle regioni, l’oblast’ di Dnipro si chiama tuttora così, Dnepropetrovsk: col nome di uno dei massimi responsabili del Holodomor.
Leave A Reply