Caro Adriano,
non posso che partire dalla domanda che mi poni a inizio e fine della tua lettera, di cui ti ringrazio, e dal richiamo affettuoso al “lunghissimo tempo in comune” che abbiamo avuto. A partire dal nostro primo incontro come matricole alla Scuola Normale di Pisa, è vero che non ci siamo mai persi del tutto di vista, da vicino o leggendoci da lontano. Ti meravigli che questo lungo tratto di vita e di storia, che a volte si è anche intrecciato – penso a Lotta continua, negli anni Settanta -, non ci porti oggi a trovare almeno un “compromesso” tra le nostre diverse opinioni rispetto a un “frangente cruciale” come la guerra. In Ucraina, ma io aggiungo: rispetto a tutte le guerre. Ti chiedi se, al di là di tutto quello che condividiamo – e che occupa gran parte del tuo scritto -, a dividere le nostre scelte non sia quel “resto”, che è “la differenza fra me donna e te uomo”.
Mi viene immediato e facile risponderti che ci sono uomini che la pensano come me, e con argomentazioni analoghe, e donne che conosco, a cui mi lega una lunga amicizia, che condividono la tua idea che sia necessario “dare un’arma di difesa a chi è aggredito”. Non intendo dire che l’appartenenza a un sesso e all’altro sia di per sé insignificante, ma la prima e la più rivoluzionaria intuizione del femminismo è stato riconoscere che le donne hanno purtroppo, forzatamente e loro malgrado, fatta propria la visione maschile del mondo. Che altro potevano fare, una volta confinate nel ruolo di madri e mogli, cancellata la loro sessualità e il loro essere persone e non “un genere”? Anche gli uomini hanno ereditato, di padre in figlio – e con quell’anello di trasmissione che è l’educazione materna – una cultura sessista, un privilegio ma anche la mutilazione di parti essenziali dell’umano, considerate “per natura” femminili. “Per molti uomini – scrive bell hooks – è difficile essere dei patriarchi. Molti di loro sono disturbati dall’odio e dalla paura delle donne, dalla violenza maschile contro le donne, perfino gli uomini che perpetuano tale violenza. Tuttavia hanno paura di rinunciare a dei benefici. Perciò trovano più facile sostenere passivamente il dominio maschile anche quando, nel profondo della loro mente e del loro cuore, sanno che è sbagliato (…) se conoscessero meglio il femminismo, smetterebbero di averne paura, perché nel movimento femminista troverebbero la speranza della loro stessa liberazione.” Quello che più mi ha colpito nella tua lettera è la ricchezza dei ragionamenti e delle citazioni che dicono quanto questa conoscenza abbia avuto un peso nella tua formazione politica, oltre che personale. La guerra, tu dici, e io posso confermare, è “un culmine della formazione maschile”, o virile, così come della “estraneità femminile, e femminista”: esalta la disuguaglianza di genere, ricaccia indietro libertà conquistate, investe il corpo delle donne, sia che vengono uccise o stuprate, le riporta dentro quell’ordine e quei valori, considerati “naturali”, di cui hanno già conosciuto il peso. E aggiungi : “La bomba atomica – comparsa nelle minacce di Putin – è il deposito materiale in cui culmina la storia dell’Uomo, il capolavoro del
capolavoro del patriarcato (…) Ora, le donne hanno una forte ragione, seppur non intera, a dissociarsi dalla storia che è arrivata alla bomba e a rivendicarne un’altra direzione”. Su un altro aspetto siamo d’accordo e mi fa piacere che tu l’abbia nominato, ed è il rapporto tra sessualità e politica, sessualità e guerra. Illuminante è il collegamento tra l’aggressione di Putin all’Ucraina ribelle, un paese che considera ancora suo e che perciò non può essere di nessun altro, e il femminicidio, la vendetta di certi uomini sulla ex moglie che li ha lasciati. Dove sta allora lo “scarto” o l’ “irriducibile resto” di ragione che sta al fondo delle nostre divergenze? Ho creduto di poterlo rintracciare, sia pure indirettamente, nell’accostamento che fai tra il breve saggio di Virginia Woolf del 1940, dove si parla dell’ “hitlerismo incoscio” o del desiderio di dominare che accomuna soldati inglesi e tedeschi, i difensori e gli aggressori, in quanto uomini – un desiderio da cui non sono esenti neppure le donne, “schiave che cercano di rendere schiavi gli altri” – e la lettera di Gandhi agli inglesi ispirata a un pacifismo assoluto, e quindi, se ne deduce, al rifiuto della seconda guerra mondiale che ha liberato l’Europa dal nazismo. “Putin non è Hitler”, è la tua precisazione, ma “la resistenza armata è necessaria”. E fai notare che anche le donne destinate all’esilio, a prendersi cura di bambini e vecchi, lasciando gli uomini a combattere, alcuni forse contro la loro volontà, non hanno levato la voce per “scongiurare la resistenza del loro paese e del loro governo”. Come se fosse facile per chi si trova a essere tra le principali vittime della guerra non odiare chi le ha ricacciate in una servitù ancora peggiore di quella già conosciuta. Ma dove è più evidente il tuo bisogno di strappare anche al femminismo un qualche “compromesso”, è nella citazione del Manifesto delle femministe russe, riportato solo per la parte in cui si chiede di “mobilitarsi contro la guerra in Ucraina e la dittatura di Putin”. Mi permetto di aggiungere il seguito di quella citazione: “Il movimento femminista in Russia lotta per i soggetti più deboli e per lo sviluppo di una società giusta con pari opportunità e prospettive, in cui non può esserci spazio per la violenza e i conflitti militari. Guerra significa violenza, povertà, sfollamenti forzati, vite spezzate, insicurezza, mancanza di futuro. Tutto ciò è inconciliabile con i valori e gli obiettivi del movimento femminista. La guerra intensifica la disuguaglianza di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i diritti umani. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale (…) Siamo l’opposizione alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo (…) Ed è anche fondamentale far vedere che le femministe sono contrarie a questa guerra e a qualsiasi tipo di guerra”.
Tu dici che la distanza “fra No Fly Zone”, che vorrebbe il governo ucraino per sconfiggere Putin, e “la fornitura di armi difensive” agli aggrediti, sta “in bilico” difronte alla minaccia della bomba atomica, e cioè di una guerra di inimmaginabile devastazione, da aggiungere ad altre minacce, come il clima e la pandemia. Se non bastasse il dubbio che l’invio di armi dai paesi europei sia già una sorta di co-belligeranza, una spinta all’intensificazione della guerra, dovrebbe far riflettere il fatto inequivocabile che i trattati di pace hanno sempre creato finora i presupposti per nuove guerre, e che solo dicendo con chiarezza che la guerra non è il modo per risolvere i conflitti si può sperare che la storia volga, come ci auguriamo entrambi, verso “un’altra direzione”.
Concludo dicendo che il pacifismo, nella sua radicalità, non può essere applicato retroattivamente alle guerre del passato, ma va riportato all’oggi, alle consapevolezze che grazie a movimenti libertari come il femminismo sono approdate alla coscienza dei singol* e dei popoli. La storia può cambiare? Mi verrebbe da dire che la storia è già cambiata dal momento che ha portato allo scoperto il dominio maschile, gli orrori della “virilità guerriera”, i legami tra sessismo, razzismo, classismo, nazionalismo, ecc. “Pace” oggi per me, come per molte altre femministe, vuol dire porsi “su un altro piano”, andare alle radici di quel primo atto di guerra che è stata la sottomissione delle donne, considerate “natura inferiore”, “animalità”, il loro asservimento al sesso vincitore. E’ da questa guerra mai dichiarata, e perciò più subdola, invisibile perché coperta dalla sua “naturalità”, che nasce il perverso connubio tra distruzione e salvezza, tra guerra e umanitarismo, guerra e religione. Se, come ho scritto più volte, “gli orrori hanno un genere”, è da questo fondamentale retroterra che dobbiamo partire per dar modo al pensiero e all’immaginazione di scoprire nuovi modi per uscire dalla barbarie che abbiamo ereditato.
Per esprimerti la mia gratitudine, finisco dicendo che questa nostra conversazione è già nell’ordine di un “si vis pacem, para pacem”, da intendersi in senso generale, ma anche nei rapporti tra le persone.
Con affetto
lea
Lea Melandri, Il riformista, 16 marzo 2022
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