Il filosofo francese: “Lo Zar non può tollerare che nasca una democrazia alle sue porte, la Cina è oramai stalinista”
«L’Ucraina crede nella democrazia, e un Paese alle porte della Russia che ha questo grande sogno è inaccettabile per Putin». Bernard-Henri Lévy, filosofo e saggista francese, infaticabile sostenitore dei movimenti democratici, delle cause del Darfur, dei cristiani perseguitati in Nigeria, dei curdi spazzati via in Siria e delle minoranze tartassate in Cina, ha il pregio di evitare ambiguità lanciando anche scudisciate all’Occidente, «codardo» dice, dinanzi alle prepotenze dei tiranni. Così nei quaranta minuti di colloquio all’Hudson Institute cui La Stampa è stata invitata, l’uomo simbolo di una Francia sugli scudi per i diritti umani, va a ruota libera su Olimpiadi, massacro degli uiguri, Cina e appeasement. Senza omettere, presentandosi, di dirsi «americano nello spirito» perché ovunque «vado nel mondo resto sempre colpito di come la stella americana brilli presso la popolazione».
La Cina è criticata per la soppressione delle libertà e gli attacchi alle minoranze, penso a quanto accade nello Xinjiang…
«La Cina è una dittatura. Non ci sono dubbi. Il suo potere non ha limiti. Vi regna una fede immutabile nel Partito comunista. Come era ai tempi di Stalin nell’Urss. C’è una sola fede, le altre sono nemici da abbattere. Ed è quello che accade ai musulmani nello Xinjiang. Ma non solo. Uiguri, tibetani, hongkonghesi non sono un gregge di pecore, vogliono esprimere se stessi in un modo che per Pechino è intollerabile. I dittatori quel senso di libertà non lo possono sostenere».
Per riferirsi alla Cina si è rispolverata la terminologia “Guerra Fredda”. La trova una definizione corretta?
«Si attribuisce un significato infame a questa frase, ma non la trovo così terribile. Vogliamo che la guerra si surriscaldi? In realtà la Guerra Fredda nacque dopo terribili conflitti e garantisce la possibilità a un blocco di Paesi di sostenere i propri principi e diritti senza cadere nel confitto. Oggi siamo in un clima simile alla Guerra Fredda».
Come le democrazie devono affrontare i regimi?
«Non certo con l’appeasement. Quando si applica questo modello si incoraggiano solo i malvagi a proseguire nei loro atteggiamenti. Nel Dna delle democrazie c’è la tendenza a estendersi. Non si può essere democrazie da soli, incapsulati da qualche parte, la democrazia è universale. Se si lascia Putin comportarsi con durezza verso l’Ucraina, poi succederà la stessa cosa nei Baltici e in Polonia. Discorso identico per la Cina. Le democrazie devono avvertire Pechino che non si possono tollerare certi comportamenti contro gli uiguri. Difendere loro significa difendere tutti».
Eppure, solo 8 Paesi hanno definito quanto accade nello Xinjiang un genocidio. Perché?
«Paura della Cina, appeasement, mancanza di leadership. Codardia».
Il 4 febbraio si apriranno le Olimpiadi invernali a Pechino. Alcuni Paesi – fra cui gli Stati Uniti – hanno attivato un boicottaggio diplomatico legato al mancato rispetto dei diritti umani. Perché il mondo non capisce la lezione di Berlino ‘36?
«La lobby dello sport vuole giocare. Nel 1936 ci furono i giochi alternativi a Barcellona e alcuni Paesi decisero di partecipare a quella iniziativa anziché alle Olimpiadi tedesche. Sei mesi fa le grandi democrazie avrebbero dovuto unirsi e organizzare dei Giochi alternativi. Oggi è tardi purtroppo».
Sarebbe favorevole a un boicottaggio più ampio di quello diplomatico?
«Boicottaggio è una bellissima parola, di fronte a un Paese che schiavizza il suo popolo e lo priva della libertà non farlo è un peccato».
Pechino ha detto: “Gli atleti gareggino e tengano la bocca chiusa”.
«L’esperienza ci insegna che non bisogna mai sottovalutare la coscienza degli atleti. C’è sempre stato uno sportivo capace di ribellarsi, di sfidare il regno del terrore. Voglio fare una scommessa: avremo delle sorprese durante i Giochi. Il regime può confiscare i cellulari, tenere gli atleti nella bolla degli hotel, ma non può impedire che il loro cuore batta e la loro testa ragioni quando si troveranno davanti alle telecamere di tutto il mondo».
Quanto è fiducioso sul fatto che la comunità internazionale riesca a contrastare gli autoritarismi nel mondo sostenuti da Paesi come la Cina e la Russia?
«Ho ragioni per essere ottimista perché il gioco non è mai finito. La Storia non è guidata da una mano invisibile che ci conduce automaticamente in una dimensione migliore. Se ci addormentiamo sul sedile del treno della Storia convinti che arriveremo alla giusta destinazione, quello non succederà. Ma d’altra parte non credo che il mondo sia destinato a un inevitabile declino. Non credo nell’entropia storica, non credo in Spengler o nel progressismo di Marx. Il mio ottimismo dipende dalla convinzione che non c’è una legge predeterminata che condanna uomini e donne al peggio e le società al collasso. La mia filosofia della Storia si regge sulla convinzione che poche persone, un piccolo gruppo, talvolta un singolo individuo possono cambiare il corso del mondo. Prendiamo l’Urss: era forte, aveva un esercito che si credeva invincibile. Negli Anni 70 c’era la visione che il mondo fosse diviso in due forze che sarebbero rimaste per sempre: la Chiesa cattolica e l’Urss. Ma sappiamo cosa è successo. Pochi dissidenti, alcuni operai polacchi e Giovanni Paolo II hanno fatto, certo con l’aiuto di Reagan, collassare il sistema».
Lo ritiene possibile oggi?
«Quell’esempio storico non viene colto. L’establishment americano e quello europeo non credono nel regime change in Cina come allora non credevano sarebbe caduta l’Urss. Eppure, quanto capitato a Mosca può accadere a Pechino un domani. La dittatura può durare a lungo e cadere rapidamente».
La Cina è criticata per la soppressione delle libertà e gli attacchi alle minoranze, penso a quanto accade nello Xinjiang…
«La Cina è una dittatura. Non ci sono dubbi. Il suo potere non ha limiti. Vi regna una fede immutabile nel Partito comunista. Come era ai tempi di Stalin nell’Urss. C’è una sola fede, le altre sono nemici da abbattere. Ed è quello che accade ai musulmani nello Xinjiang. Ma non solo. Uiguri, tibetani, hongkonghesi non sono un gregge di pecore, vogliono esprimere se stessi in un modo che per Pechino è intollerabile. I dittatori quel senso di libertà non lo possono sostenere».
Per riferirsi alla Cina si è rispolverata la terminologia “Guerra Fredda”. La trova una definizione corretta?
«Si attribuisce un significato infame a questa frase, ma non la trovo così terribile. Vogliamo che la guerra si surriscaldi? In realtà la Guerra Fredda nacque dopo terribili conflitti e garantisce la possibilità a un blocco di Paesi di sostenere i propri principi e diritti senza cadere nel confitto. Oggi siamo in un clima simile alla Guerra Fredda».
Come le democrazie devono affrontare i regimi?
«Non certo con l’appeasement. Quando si applica questo modello si incoraggiano solo i malvagi a proseguire nei loro atteggiamenti. Nel Dna delle democrazie c’è la tendenza a estendersi. Non si può essere democrazie da soli, incapsulati da qualche parte, la democrazia è universale. Se si lascia Putin comportarsi con durezza verso l’Ucraina, poi succederà la stessa cosa nei Baltici e in Polonia. Discorso identico per la Cina. Le democrazie devono avvertire Pechino che non si possono tollerare certi comportamenti contro gli uiguri. Difendere loro significa difendere tutti».
Eppure, solo 8 Paesi hanno definito quanto accade nello Xinjiang un genocidio. Perché?
«Paura della Cina, appeasement, mancanza di leadership. Codardia».
Il 4 febbraio si apriranno le Olimpiadi invernali a Pechino. Alcuni Paesi – fra cui gli Stati Uniti – hanno attivato un boicottaggio diplomatico legato al mancato rispetto dei diritti umani. Perché il mondo non capisce la lezione di Berlino ‘36?
«La lobby dello sport vuole giocare. Nel 1936 ci furono i giochi alternativi a Barcellona e alcuni Paesi decisero di partecipare a quella iniziativa anziché alle Olimpiadi tedesche. Sei mesi fa le grandi democrazie avrebbero dovuto unirsi e organizzare dei Giochi alternativi. Oggi è tardi purtroppo».
Sarebbe favorevole a un boicottaggio più ampio di quello diplomatico?
«Boicottaggio è una bellissima parola, di fronte a un Paese che schiavizza il suo popolo e lo priva della libertà non farlo è un peccato».
Pechino ha detto: “Gli atleti gareggino e tengano la bocca chiusa”.
«L’esperienza ci insegna che non bisogna mai sottovalutare la coscienza degli atleti. C’è sempre stato uno sportivo capace di ribellarsi, di sfidare il regno del terrore. Voglio fare una scommessa: avremo delle sorprese durante i Giochi. Il regime può confiscare i cellulari, tenere gli atleti nella bolla degli hotel, ma non può impedire che il loro cuore batta e la loro testa ragioni quando si troveranno davanti alle telecamere di tutto il mondo».
Quanto è fiducioso sul fatto che la comunità internazionale riesca a contrastare gli autoritarismi nel mondo sostenuti da Paesi come la Cina e la Russia?
«Ho ragioni per essere ottimista perché il gioco non è mai finito. La Storia non è guidata da una mano invisibile che ci conduce automaticamente in una dimensione migliore. Se ci addormentiamo sul sedile del treno della Storia convinti che arriveremo alla giusta destinazione, quello non succederà. Ma d’altra parte non credo che il mondo sia destinato a un inevitabile declino. Non credo nell’entropia storica, non credo in Spengler o nel progressismo di Marx. Il mio ottimismo dipende dalla convinzione che non c’è una legge predeterminata che condanna uomini e donne al peggio e le società al collasso. La mia filosofia della Storia si regge sulla convinzione che poche persone, un piccolo gruppo, talvolta un singolo individuo possono cambiare il corso del mondo. Prendiamo l’Urss: era forte, aveva un esercito che si credeva invincibile. Negli Anni 70 c’era la visione che il mondo fosse diviso in due forze che sarebbero rimaste per sempre: la Chiesa cattolica e l’Urss. Ma sappiamo cosa è successo. Pochi dissidenti, alcuni operai polacchi e Giovanni Paolo II hanno fatto, certo con l’aiuto di Reagan, collassare il sistema».
Lo ritiene possibile oggi?
«Quell’esempio storico non viene colto. L’establishment americano e quello europeo non credono nel regime change in Cina come allora non credevano sarebbe caduta l’Urss. Eppure, quanto capitato a Mosca può accadere a Pechino un domani. La dittatura può durare a lungo e cadere rapidamente».
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La storia umana si ripete,secondo me, come una rappresentazione teatrale, ma, a differenza del teatro, cambiano continuamente gli attori e le attrici. Peccato che nessuno umano lo ammetterà mai e meno che meno i filosofi che siano francesi, russi, americani o di Canicattì. Il presidente russo Putin, a differenza di quanto sostenuto dal filosofo francese nell’intervista sopra postata, sta difendendo i suoi confini, il suo potere come lo ha fatto, lo fa e lo farà qualsiasi altro umano dai cinesi agli americani. Solo col compromesso dell’idee si può trovare una soluzione pacifica di convivenza: con la guerra tutti i contendenti perderanno, come ha sempre dimostrato la storia umana. Speriamo che le parti in causa trovino un accordo. Buona giornata a chi legge Antonio De Matteo Milano