Due donne. Il caso le ha messe insieme, nel giro di poche ore, e il caso ha una malignità incomparabile con quella degli umani più cattivi. Una donna è Adelina 113, nome di copertura di Alma Sejdini, nata a Durazzo nel 1974, morta suicida giù dal Ponte Garibaldi, a due passi dal ministero della Giustizia – non ci avrà nemmeno pensato. L’altra donna è Mareya Bashir, nata a Kabul nel 1970, già procuratrice generale a Herat durante la presenza militare italiana. A Bashir il governo ha appena assegnato la cittadinanza italiana, riconoscimento a un impegno strenuo a difesa della vita e della dignità delle donne afghane, a rischio continuo della sua vita. Ad Adelina le autorità italiane, che si erano valse da vent’anni del suo coraggio per colpire duramente la tratta di giovani donne schiavizzate e prostituite, avevano appena dato un foglio di via da Roma, e un rifiuto ottuso della cittadinanza. La cittadinanza che avrebbe fatto di lei, gravemente malata, invalida e indigente, “la persona più felice del mondo”.
La cittadinanza a Mareya Bashir (Maria, la chiamavano i nostri) è un atto che onora l’Italia. Nel 2014 l’Università di Sassari, la città che dà il nome alla brigata, le aveva dato la laurea ad honorem. L’avevo incontrata l’anno prima a Herat, e raccontata così: “Maria Bashir è a capo della procura di Herat. Si guadagnò ammirazione e odio nel 2005 indagando il marito-padrone di Nadia Anjuman, poetessa uccisa a 25 anni. A Herat spose bambine e giovani violate si danno ancora fuoco, o si impiccano. La nostra, dice, è la condizione di chi passa dal buio alla luce. Bisogna abituare gli occhi. Abbiamo vissuto una interminabile guerra intestina, subìto governi che schiacciavano le donne, ne spegnevano la voce. Mi chiede del reato che va sotto il nome di prostituzione: nel codice penale un rapporto sessuale a pagamento viene punito, e purtroppo anche fra due persone non sposate consenzienti. È la legge, poi c’è la nostra ragionevolezza. Abbiamo da 8 mesi un ufficio per le violenze domestiche, abbiamo mandato a processo 168 uomini. C’è una forte preoccupazione per il 2014 (quando era annunciato il ritiro della forza internazionale, nda) soprattutto per donne e bambini. Io continuo a meravigliarmi di trovarmi in questo posto. Mi riempio di farmaci mattina e sera, ieri ero attaccata a una flebo, subisco pressioni pesantissime. Due giorni fa ho fatto arrestare un notabile per corruzione, ieri mi ha chiamato l’uomo più potente di Herat e mi ha intimato di rilasciarlo entro le 10 di questa mattina, ha chiamato il governatore, il capo della polizia, tutti. Ha minacciato di far assediare il palazzo. Le cose che mi impegnano di più sono il narcotraffico, la corruzione, la mafia delle costruzioni, i sequestri. Come sono arrivata qui? Grazie ai miei genitori. Mia madre era un’insegnante di sartoria, ora sta in casa perché non vede più, prega per me. Mio padre dirigeva una banca. Ero la primogenita di una famiglia educata. Ho tre figli, una studia in Italia. Dice che gli italiani hanno lavorato bene, in particolare per donne, scuole, sanità. ‘La differenza, oltre alla cordialità, sta nel disinteresse. I loro aiuti non hanno un secondo fine’”.
Splendida storia. Leggo che la ministra Cartabia si è specialmente adoperata per il suo esito, e che la signora Bashir ha detto che grazie all’Italia si sente al sicuro, e capace di continuare il suo impegno.
Non è un caso che a descrivere il diavolo e la sua coda si sia scelto di sostantivare l’aggettivo: “il Maligno”. Adelina era stata una protagonista della giustizia, dal marciapiede sul quale l’avevano gettata, violata, torturata, i suoi rapitori. Aveva fatto arrestare decine di farabutti, albanesi e italiani. Aveva trovato un ruolo di spicco nella vita pubblica. Convegni, persone delle forze dell’ordine, programmi radio e televisivi avevano raccolto le sue opinioni – scettiche sulla libertà di prostituirsi, convinte della necessità di punire i “clienti”, complici consapevoli. Chiedeva una carta d’identità su cui non fossero più stampate le x dell’apolide e tanto meno il ripristino della nazionalità “albanese” che ne avrebbe segnato rimpatrio e condanna, e che le è arrivato. La sua storia, le sue lettere, gli appelli, stavano sui tavoli del Quirinale, del Viminale, delle questure, del Parlamento – in cui era stata accolta a parlare lei di ciò di cui era esperta. Si è ammazzata così penosamente, pateticamente, con una sciarpa tricolore al collo, avvertendone via Facebook, dopo aver abbandonato un ospedale, pochi giorni dopo essersi data fuoco davanti al Viminale. Una creatura, quanto allo stato, sola, disturbata, che disturbava.
Due donne, due cittadinanze. E la mano maligna che pesa sul piatto della bilancia su cui sta la cittadinanza mancata.
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