Liberi e uguali, ma probabilmente anche effimeri. Nel terremoto che ha sconvolto la politica italiana e tramortito la sinistra, pochi sono oggi disponibili a scommettere su un domani per la formazione guidata da Piero Grasso. Il capolinea sembra già arrivato, dopo appena pochi mesi dalla scissione. Non si tratta solo del modestissimo risultato elettorale di Leu, al limite della sopravvivenza parlamentare. Quello che pesa – e in modo schiacciante – è il fallimento dell’assunto di partenza, su cui Bersani e compagni avevano costruito la loro avventura politica. Ovvero, una scissione compiuta con la scommessa di recuperare i voti in libera uscita dal PD verso i 5 Stelle e verso l’astensionismo. Non è stato così, tutt’altro. Chi ha smesso di votare PD è passato direttamente ai 5 Stelle, non ritenendo allettante o credibile l’offerta elettorale di Liberi e uguali. Non era difficile prevederlo, considerando la profondità della crisi di sistema, che colpisce allo stesso modo in Europa tutta la sinistra: quella riformista e quella più massimalista.
Serviva uno scatto di fantasia, oppure più semplicemente unire le forze del centrosinistra per alzare l’argine nei confronti dell’avanzata populista. Neanche questo sarebbe bastato, ma forse sarebbe stato un segnale apprezzato dagli elettori.
Ora inizieranno analisi e processi come dopo ogni sconfitta elettorale. Si chiamerà in causa la leadership di Grasso, troppo timida e fuori posto, con una sola novità programmatica, alquanto modesta: l’abolizione delle tasse universitarie. O la confusione politica sulle alleanze post-elettorali, con un partito diviso tra chi ha aperto (e magari apre tutt’ora) a collaborazioni con i 5 stelle (Grasso, Bersani) e chi chiudeva con decisione (Boldrini). O le candidature tutte o quasi nel segno della continuità, che hanno dato all’elettore più l’impressione di voler tutelare una nomenclatura che scommettere sul rinnovamento. O ancora il mancato amalgama tra la componente ex PD e quella massimalista di Sinistra Italiana e dello stesso Civati. E per finire una certa confusione identitaria visibile già nel nome e nel simbolo, dai quali è stata stata espulsa la parola sinistra, come se fare come Mélenchon in Francia o Podemos in Spagna potesse rivelarsi una scorciatoia per replicare i loro (parziali) successi.
Ma tutto questo non basta a spiegare il tracollo. C’è una responsabilità ancora più grave per il gruppo dirigente di Leu, ancor più imperdonabile per chi proviene da una scuola come quella del Pci: non avere compreso minimamente quanto stava maturando davvero nel profondo della società italiana. Le sconfitte clamorose nei collegi uninominali di tutti i leader devono far riflettere: in Emilia Romagna i voti di un elettorato di sinistra in forte flessione hanno comunque premiato persino Casini e Lorenzin, bocciando dirigenti storici e apprezzati come Vasco Errani. Nel momento in cui si apre una discussione per la ricostruzione della sinistra in Italia, forse mancheranno (o rischiano di essere ininfluenti) le voci di uomini e donne che hanno fatto la storia di questa sinistra. E questa, probabilmente, è la sconfitta più amara.
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