Dopo venticinque anni, l’esultanza è diventata complice: “Mi vergogno della gioia che ho provato quando lanciarono le monetine contro Craxi, fu il primo atto di anti politica della storia repubblicana, l’avvento di quello che i Cinque stelle e la Lega oggi hanno portato a compimento con il loro governo”. Come gli eredi del partito comunista italiano, Sergio Staino – disegnatore, vignettista, ex direttore de l’Unità – aveva creduto che la furia della piazza potesse preparare la strada al governo della sinistra. Invece, la campana che sentiva suonare stava suonando anche per la sua parte: “Mi capita di pensare dove abbiamo sbagliato. Cosa abbiamo fatto per favorire che forze negative si affermassero e prendessero addirittura il potere in Italia. E mi torna sempre in mente l’assalto al segretario del partito socialista al Raphael. Allora ci rifiutammo di vederlo come un legittimo rappresentante delle istituzioni. Un uomo con il quale dialogare. Ci lasciammo andare a una pulsione sub politica, a un’estremizzazione dei valori etici, all’esaltazione della magistratura. Sono i sentimenti che hanno aiutato a gettare discredito sul parlamento, sulle altre istituzioni, sulla politica, attraverso la teorizzazione della superiorità della società civile e con una serie di movimenti che, di fatto, hanno prima aperto le porte a Berlusconi, e poi le hanno aperte a Grillo”.
Con la puntualità del cronista e il sollievo delle verità dette sotto forma di battuta, Staino ha attraversato questa storia con le storie del proprio personaggio più noto, Bobo, raffigurazione satirica dei tormenti e delle passioni del militante progressista. Nato sulle pagine di Linus nel 1979, quando tutto intorno, in Italia, si era chiuso il carnevale del movimento più anti autoritario che ci fosse mai stato, Bobo è vivo ancora oggi che la parola “autoritario” è tornata nel linguaggio pubblico, associata a un pericolo contro il quale stare in guardia: “Sono angosciato da questo governo. E sono preoccupato per lo stato della sinistra in Italia, in Europa, nel mondo. Ho l’impressione di vivere in un paese sempre più cinico, in cui gli altri non sono mai riconosciuti come fratelli, ma sono individuati come avversari, a volte anche come nemici”.
La sinistra, invece, cos’è?
“È sorridere alle persone che incontri, anche se non le conosci. Perché insieme a loro potresti far del bene a tutti gli altri”.
È quello che ha fatto?
“La sinistra non si è accorta di molte cose che stavano accadendo nel paese. Non solo non ha parlato, ma nemmeno li ha visti i giovani che venivano risucchiati nelle nuove forme di lavoro. Non si è mai occupata dei call center, né dei lavoratori che consegnano il cibo in bicicletta”.
Lavora con il disegno e la politica, ma cos’è più importante per lei?
“Sono riuscito a reggere alla quasi cecità in cui vivo grazie agli artifici che la tecnologia mi offre per continuare a disegnare. Non so se sarei riuscito a vivere allo stesso modo la politica, e anche la mia vita affettiva, se fossi stato costretto a smettere”.
Quando cominciò?
“Ho sempre disegnato. Soprattutto, quando c’era qualcosa che non andava. Disegnare mi faceva riprendere il fiato. Mi ridava forza. Mi aiutava ad esorcizzare l’angoscia. Non avevo mai pensato, però, che potesse diventare un lavoro. Era un fatto privato, un vizio”.
Eppure, ebbe subito successo.
“Accadde, paradossalmente, lo stesso anno in cui si ruppe la retina dell’unico occhio da cui vedevo. Mi dissero che, prima o poi, sarei diventato quasi cieco, se non completamente cieco. Fu un dolore enorme. Al quale mi ribellai, imparando di nuovo a disegnare con la poca vista che avevo. Riconquistai il mio tratto millimetro per millimetro, come un bambino che apprende a scrivere una lettera dopo l’altra. Era un tratto spezzato, a volte scollegato, dentro il quale c’era tutta la sofferenza che provavo. Credo che i lettori abbiamo sentito di cosa erano fatti quei disegni”.
L’immagine è più potente della parola?
“Le vignette si muovono costantemente tra la razionalità della parola e l’emotività dell’immagine. Ciascuno trova la sua forma di equilibrio. In Forattini, per esempio, soprattutto quello degli inizi, la raffigurazione del personaggio era così forte che poteva fare a meno delle parole. All’estremo opposto c’è ElleKappa, che invece riduce le immagini all’essenziale, esaltando la letterarietà.
Andrea Pazienza com’era?
“Riuscii a portarlo a Tango grazie a Vincino, il primo dei trasgressivi che volli nel giornale. Era cresciuto politicamente nell’autonomia bolognese, mentre io, Altan, ElleKappa, Michele Serra, eravamo – pur con le nostre critiche – vicini al Partito comunista. Ci guardava con il sospetto con cui il movimento guardava al Pci. Venne con noi, rassicurato dalla presenza di Vincino, che invece era stato a Lotta continua e aveva fondato Il Male. Dopo la sua morte, cercai in tutti i modi di trasformare la sua casa in un museo. Puntualmente, i dirigenti del partito mi rispondevano: “Ma chi cazzo è Pazienza?”. Oggi, forse, si è capito: è stato uno dei più grandi artisti della seconda metà del novecento italiano”.
Come lo ricorda?
“Con dolore. Ogni volta che penso ad Andrea penso al giorno prima della sua morte. Piombò nel mio ufficio alla redazione di Tango all’improvviso. Era da poco rientrato da un lungo viaggio in Brasile insieme a Marina, libero dall’eroina. Vincenzo Mollica e Mauro Paganelli gli avevano trovato una casa in campagna, a Montepulciano, dove aveva ripreso a stare bene. Dunque, quel giorno, quando mi disse in lacrime, disperato: “Sergio, mi devi aiutare: ho bisogno di 4 milioni, altrimenti il fisco mi pignora la casa, i soldi, tutto quello che ho”, gli credetti fino all’ultima parola. Andai in amministrazione e riuscii a fargli avere due milioni subito, come anticipo per un libro che avrebbe fatto per noi. Mentre mi aspettava, mi riempì il tavolo di schizzi di Occhetto: Occhetto di fronte, Occhetto di profilo, Occhetto di lato. Furono gli ultimi disegni che fece. Il giorno dopo morì d’overdose. Mi aveva fregato. Per molto tempo, non sono riuscito a perdonarmelo”.
Di Tango, invece, è orgoglioso?
“Durante il congresso di Rimini, quando il partito comunista si stava sciogliendo, Alessandro Natta venne da me con il dito puntato e mi disse: “Sei contento di averci fatto finire in questa situazione?”.
Era colpa sua?
“Qualche piccolissima responsabilità la avevo, ma non certo quella”.
Allora perché le disse così?
“Anni prima, il direttore de l’Unità, Emanuele Macaluso, mi aveva chiamato per portare Bobo sul giornale. Voleva rompere l’ecumenismo del partito. Tirar fuori la dialettica interna. Aprire il dibattito. Scalfire l’ufficialità. In altre parole – me ne resi conto dopo – anche io venni usato per far crollare la liturgia della chiesa comunista”.
Si sentì manipolato?
“Nei militanti del partito, c’era da sempre una grande ironia. Si facevano in continuazione battute sui dirigenti, sulla linea politica, ma guai a dirlo apertamente. Regnava la solennità. Mentre il mio sottofondo anarchico mi faceva provare insofferenza per l’ipocrisia. Ho sempre pensato, come diceva Gramsci, che la verità è rivoluzionaria. Magari nel breve periodo può essere dannosa. Ma, nel lungo periodo, la verità non può che far bene”.
Che bene ha fatto la sua?
“Credo che se il partito comunista ha trovato le energie, l’intelligenza e la duttilità per trasformarsi, dopo la caduta del Muro di Berlino, è stato anche, in piccola parte, per il lavoro di un giornale come Tango”.
Qual era il vostro bersaglio preferito?
“Era Giorgio Napolitano”.
Perché?
“Perché, tra i miglioristi, era quello che più aveva lottato per avvicinare il partito a Craxi. Era considerato di destra”.
Si risentiva?
“Una volta, mi trovai in ascensore con lui. Gli dissi: “È molto arrabbiato con me?”. Mi rispose che non dovevo preoccuparmi: “Sapesse quanti sono gli estremisti che sono venuti a piangere sulla mia spalla”.
Che voleva dire?
“Che la rigidità del partito ti si poteva ritorcere contro da un momento all’altro”.
È l’unica cosa che ha in comune con i 5 stelle (anche loro hanno preso più volte di mira Napolitano)?
“Ho spinto perché il Pd si sedesse al tavolo con il Movimento. Conosco troppi compagni che hanno votato 5 stelle. Non si può far finta che non esistano. Non si possono criminalizzare. Avremmo dovuto cercare di fare quello che ha fatto la Lega, ma al contrario: esaltare il loro elemento di sinistra, mentre Salvini ha esaltato quello di destra”.
Era davvero possibile?
“Non si può dimenticare che tra i miti dei 5 stelle c’è stato Dario Fo, e c’è don Luigi Ciotti. Hanno delle contraddizioni che si potevano far esplodere”.
Ora saranno legati per sempre alla destra?
“Credo che il movimento 5 stelle sia destinato alla dissoluzione. Nel momento in cui si renderanno conto di cosa hanno fatto, molti di quelli che l’hanno votato torneranno al Pd. Molti altri seguiranno la Lega. Gli altri si disperderanno”.
L’opposizione, invece, si unirà?
“A sinistra, c’è una voglia di unità che fino a poco tempo fa non c’era. Sarebbe una catastrofe abbandonare questa strada per compiere un’operazione alla Macron, unendo il Pd e Forza Italia, come forse vuole fare Renzi”.
Perché si dice ateo, ma disegna Gesù Cristo?
“Perché senza quello strano vizio di sentirsi il figlio di Dio, Cristo è una figura ammirevole”.
Senza Dio, non sarebbe potuto risorgere.
“Non riesco, non riesco proprio a pensare che ci sia una vita dopo la morte”.
Cosa c’è allora?
“Solo degli atomi che girano vorticosamente, scomponendosi e ricomponendosi all’infinito”.
Nicola Mirenzi, Huffington Post, 10 giugno 2018
Comment
Che bella persona che sei,caro Sergio! Grazie per questa tua intervista. Ti voglio bene.Ro