Un bel contributo sulla discussione aperta con De Matteo sulla forma del partito arriva dalla compagna Giancarla Codrignani. E’ uno scritto del 1984 e fa capire bene come certe conquiste antidogmatiche vengano da lontano. Grazie, Giancarla.
(da l’Unità del 23 febbraio 1984)
È singolare la data. Nel 1984 era già maturo il problema della tenuta della forma “concetto/partito”, oggi in discussione non solo in Italia, all’interno della crisi maggiore della democrazia. La parola “partito” è quasi scomparsa in gran parte dei paesi europei e si segue “En marche” senza sapere verso dove, mentre la nascita a Helsinki anni fa del “partito dei veri finlandesi” è passata come floklore. Un pericolo, perché trent’anni fa non avevamo idea di come possa presentarsi il nuovo “principe”, mentre non si sono mai viste analisi e correttivi di sostanza per ridare senso a qualcosa che non sia il “movimentismo” e riconquistare il consenso dei cittadini al rispetto delle esigenze democratiche.
Bisogna essere grati a Vittorio Foa perché non solo ha rivisitato il problema degli indipendenti di sinistra, ma lo ha riproposto nei termini corretti. Infatti la questione investe oggi oltre ad alcuni intellettuali o esperti, importanti per il contributo che danno in Parlamento, anche fasce sempre più larghe della società che sentono l’esigenza della partecipazione, forse ancora una volta ingenuamente e genericamente progressista o socialista, ma non il dovere della militanza nelle formazioni politiche della sinistra.
Probabilmente sarebbe giusto che intervenissero nella discussione soprattutto questi indipendenti, che incontriamo sempre più attivi nelle aggregazioni sociali, e, con quei contributi che sarebbero di gran lunga i più interessanti, i comunisti. Tuttavia non sarà male se qualcun altro dei parlamentari riprende la parola. Siccome – dice bene Foa – noi siamo indipendenti anche rispetto al nostro gruppo, darò alle mie osservazioni il carattere della soggettività.
In questi otto anni di presenza parlamentare (sono stata eletta ai tempi di quel compromesso storico che avevo l’ingenuità di ritenere – ma non è ingenuo ricordarlo – finalizzato all’alternativa) sono stata spesso interrogata sulle ragioni della mia preclusione a entrare in un partito, nonostante i precedenti familiari. Debbo riconoscere che le ragioni storiche non forniscono una risposta: se è vero che non avrei affiancato il partito di Togliatti o quello di Nenni, anche l’indipendenza di Parri o di Basso era inadeguata alla mia disponibilità a fare politica. E, infatti, quelle esperienze fanno parte della storia che ci precede e che ancora troppo ci condiziona.
È il Sessantotto che ha reso inequivocabilmente esplicito l’antico vero lapalissiano della relatività delle determinazioni politiche: anche la forma partito non è un assoluto e non è per sempre. I partiti, come appare chiaramente, dureranno ancora e a lungo, dato che non si intravedono soluzioni di ricambio; ma persisteranno con tanta maggior possibilità di assolvere al loro compito quanto più saranno capaci di aprirsi a un futuro che si preannuncia nel microcosmo delle diversità che pullulano nel sociale e nei confronti del quale il partito deve proporsi come punto di riferimento critico e non strumentale.
Sbaglia, per questo, chi pensa che i nuovi gruppi facciano prevedere qualche nascente organizzazione partitica: nascendo dal bisogno di criticare i partiti, già i radicali italiani e i “verdi” tedeschi hanno dimostrato che creare un partito è un errore e non giova.
Credo, invece, che il sentimento che fa sentire anche a me stretto l’abito di questa forma sia molto più comune e diffuso di quel che non si creda, anche tra gli iscritti. Se, infatti, mi sono rivolta con interesse al Partito Comunista Italiano e a esso continuo a rivolgermi con speranza, è proprio perché è il solo che ha avuto il coraggio di proclamare la propria laicità e il pluralismo di contro a ogni passato dogmatismo e a ogni possibile ideologizzazione. Che, quindi, la storia dei nuovi indipendenti faccia parte attiva e non passiva della storia del partito comunista mi sembra oggi ineludibile. Infatti quando io, dagli stessi banchi comunisti, motivavo un voto diverso, non ho mai incontrato né da parte dei colleghi, né alla base la critica preconcetta per una devianza da una “linea” che tutti sentono non esistere più, ma l’approvazione articolata e problematica.
Infatti la politica si è fatta molto più complessa e articolata di quanto non prevedessero le vecchie organizzazioni di partito. Oggi si è interpellati da chi vuol fare politica – ed è necessario che la faccia – a partire dai problemi dell’ambiente (essere “verdi”, ma come?), dell’assistenza all’emarginazione o della solidarietà al terzo mondo (quale volontariato?), della pace e del disarmo (con quali strumenti concreti?): sono tutti spezzoni di un discorso alternativo di cui nessuno sforzo di potenza organizzato potrebbe farsi carico, ma che ha diritti inequivocabili e di cui, soprattutto, è necessario che qualcuno si faccia interlocutore.
Occorre, quindi, liberare le diversità: il vecchio partito pedagogo può temere la perdita del consenso in un confronto che metta in luce l’ampiezza di una problematica che non riesce a controllare totalmente; ma deve capire che potrebbe fallire per la povertà della ricerca unanimistica. Credo sia interessante, a questo proposito, riesumare la vicenda dell’UDI, calunniata spesso e volentieri, come se con lo scioglimento e la rivendicazione di autonomia avesse commesso un errore politico e non esistesse più. Ho detto che il mio è un discorso soggettivo: certo debbo riconoscere che se la mia attenzione, ancora distaccata e intellettuale, si è fatta disponibilità politica alla solidarietà operativa con il PCI, molto vale l’impegno di questo nelle lotte per i diritti civili e nelle rivendicazioni femministe. Le donne, a mio avviso, rappresentano da sempre un grande bacino di indipendenza politica. Quelle più impegnate hanno desunto dalle dispute teoriche sulle forme astratte la coerenza della prassi concreta. L’UDI, sciogliendosi organizzativamente, indicava nella struttura l’elemento di inadeguatezza e denunciava la propria inesistenza passata, visto che l’organicità dei partiti della sinistra impediva di essere il luogo in cui le donne riconducevano i problemi del loro non esistere negli stessi.
Perché quello che conta oggi – e che la gente si aspetta – non è il dare risposte, ma il formulare correttamente le domande. Dalle donne, fino a oggi, insieme con la conquista dell’autonomia è venuta una diversa, più concreta fiducia nella politica anche se in modi naturalmente trasversali. Occorre capire bene i fenomeni e continuare con coraggio. Altrimenti, come avanza un’alternativa?
Giancarla Codrignani
2 Comments
Caro Sergio
ho letto con interesse l’articolo di Giancarla Codrignani che rafforza ulteriormente la mia convinzione ch’è la seguente.
In qualsiasi organizzazione , associazione, fondazione, famiglia, condominio eccetera eccetera, se non si forma una maggioranza degli aderenti che possa decidere cosa fare e dove andare non c’è futuro per l’organizzazione stessa.
Bisogna trovare un compromesso tra il centralismo democratico del vecchio PCI e l’anarchia che regna in questo momento nel partito democratico. Gli intellettuali di sinistra, a partire dal professor Cacciari, dovrebbero smettere di fare le prime donne ed impegnarsi a cercare un algoritmo che dia ordine e struttura al futuro del centro sinistra. Io penso che la differenza tra le le forze politiche di destra e di sinistra sostanzialmente è la seguente: a destra vale la legge del più forte a sinistra dovrebbe valere la difesa del più debole. Naturalmente le sfumature diventano tantissime e così anche la “destra”si fa paladina dei più deboli e la “sinistra”comincia a pensare che forse i “forti”non sempre hanno torto. La strada si fa stretta e difficile da percorrere per la sinistra; ma qui,caro Sergio, diventa fondamentale, come dici tu, l’altruismo e la sensibilità umana e a destra io non vedo le suddette virtù. Nel centro sinistra quindi dovrebbe essere vietato, eticamente e moralmente , l’odio e l’avidità e tenendo presente questi due sentimenti cominciare la ricostruzione del centro sinistra per tornare a governare. Buona giornata a tutti Antonio De Matteo
Trovo interessante questo confrontarsi, con serietà e impegno sul futuro del “partito” o meglio su “quale partito nel futuro “. Immediatamente mi vengono due considerazioni istintive forse apparentemente contraddittorie. La prima è ” giù le mani dal PD” l’altra è “va’ cambiato nel profondo”. La prima considera che la forma partito non è assolutamente obsoleta . Inadeguata certamente, anche per una delegittimazione/affossamento perpetrato dallo stesso gruppo dirigente (di se stesso) in questi ultimi anni. Sciogliersi nella ” Leopolda” mi pare l’emblematico concetto del Renzismo che pure parte da più lontano con una progressiva delegittimazione, non considerazione del ruolo e degli “iscritti” e quelli delle “primarie”. Ora l’esigenza primaria è quella di ribadire che occorre ripensare/rifondare aggiornandola la forma partito come ” comunità fondamentale (non unica, ma democraticamente essenzziale di un comune sentire di una identità riconoscibile che porta con se valori e progetti di cambiamento sociale e individuale” di persone e di idee. Le persone devono avere un riferimento organizzativo , le idee hanno nella comunicazione e social-izzazione (non solo social) un terreno diverso altrettanto importante che oggi è solo espressione di una “individualità” e non di una “comunità” . L’essere ed appartenere ad una comunità è pertanto fondamentale nella democrazia del futuro. Le piattaforme non vanno demonizzare, ma devono essere “governate/espressione” da quella comunità organizzata che possiamo definire il “nuovo partito”. In tal senso la proposta di Calenda non convince perché da un lato “annulla” le identità , le radici culturali, sociali e democratiche del partito in una scorciatoia impoverita che non offre nessuna progettualità e radicamento nella complessità sociale ed istituzionale contemporanea. Un progetto riformatore radicale e significativo di cambiamenti profondi sono oggi necessari ma richiedono la centralita’ della “comunita’ organizzata” e non dell’individuo (leader maximo o partito del leader che sia). Scusate se i concetti espressi non sono chiaramente definiti ed articolato, ma per questo….urge un congresso rifondativo ….subito (su questo la confusione mentale/l’incapacità assoluta dell’attuale gruppo dirigente del PD mi pare drammatica)