Mi sembra l’analisi più corretta che ho incontrato nel dibattito su Craxi.
Sergio
La doverosa pietà per i morti cambia segno alle azioni da vivi? Non si tratta di un interrogativo di tipo filosofico, ma di un quesito che sorge assistendo all’imporsi in queste settimane di una vera e propria riabilitazione della figura di Bettino Craxi. Un dibattito in buona parte emotivo, agevolato dall’uscita del film Hammamet di Gianni Amelio, quando è invece della politica – del cui primato Craxi è stato un incrollabile alfiere – che si dovrebbe discutere. Ecco, allora, che il confronto con il desolante livello di certi esponenti dell’odierna classe politica non può costituire un motivo sufficiente per convertire la dolorosa e assai divisiva parabola esistenziale di Craxi in una sua agiografia. Né il famoso «Così fan tutti» del suo discorso parlamentare sul finanziamento ai partiti del luglio 1992 basterebbe a cancellare le sue responsabilità in una qualsiasi altra democrazia occidentale normale. Se solo fossimo, difatti, gli abitanti di un «Paese normale», ma così non è, e la traiettoria craxiana si inscrive alla perfezione nelle anomalie e nella perdurante eccezione della storia italiana. E l’ex segretario del Psi ed ex presidente del Consiglio è stato il manifesto politico vivente (o il «re», come ha scritto Michele Serra) di quegli anni Ottanta che, dal punto di vista delle eredità problematiche e negative, non sono finiti mai. A partire dalla spesa pubblica dopata e dall’inizio della corsa senza sosta del debito pubblico, patrocinati dai governi del pentapartito (o «Caf», come si diceva allora) a fini di consenso, abituando questa nazione a vivere irresponsabilmente al di sopra delle proprie possibilità. Peraltro, è precisamente il nostalgismo di quella (improponibile) condizione godereccia e spendacciona uno dei rivoli principali che alimenta psicologicamente i populismi di questi nostri anni. Mentre si malintende come supposta rivendicazione di «orgoglio nazionale» – con conseguente plauso da parte di certi sovranisti – la drammatica crisi di Sigonella, apice di una politica mediorientale e «terzomondista» intrisa di un atteggiamento assai ambiguo verso il terrorismo palestinese e di un rapporto personale troppo stretto con Yasser Arafat.
Nel ripercorrere la vicenda craxiana non si può dimenticare che il faro esclusivo della sua azione politica fu la crescita elettorale (e, di conseguenza, del potere contrattuale) del partito. A cui subordinò ogni altra finalità, riducendo alla fine l’idea della «Grande riforma» istituzionale a poco più di uno slogan propagandistico (e facendo difatti naufragare la commissione Bozzi). Con l’obiettivo di cavalcare gli impulsi vitalistici del Paese che usciva dagli anni di piombo, Craxi ne assecondò anche vari «spiriti animali» che avrebbero contribuito a generare la «società incivile» egoista e selvaggiamente individualista dilagata nel corso dei decenni successivi. Fu il maieuta del berlusconismo, un nemico acerrimo dei corpi intermedi, il campione di una concezione neoplebiscitaria fondata sull’uso pionieristico di una comunicazione personalizzata. E non fu l’unico uomo politico, tra i protagonisti di quella lunga stagione di corruzione e lottizzazione, a pagare sotto Mani pulite. Sicuramente, fu pure un leader abile e scaltro, il vincitore del referendum sulla scala mobile, agitò una (salutare) battaglia delle idee a sinistra e introdusse delle forme di modernizzazione nel sistema politico ormai anchilosato della Prima Repubblica. Ma farne un santino, appunto, non risulta affatto corretto sotto il profilo della verità storica. E dietro le sue etichette di decisionismo e turbopolitica si impose, a conti fatti, un riformismo senza vere riforme, manifestazione di una classe politica che cominciava a diventare impotente e incapace di governare la globalizzazione, mentre il Paese iniziava il suo declino geopolitico e industriale. E l’antipolitica che funesta questa nostra epoca non può non venire considerata anche come il frutto avvelenato dei suoi errori e una reazione alla sua spregiudicatezza di ex “rivoluzionario” blindatosi infine nel Palazzo.
Massimiliano Panarari, la Stampa, 16 gennaio 2020
2 Comments
Siamo tutti d’accordo sul fatto che Craxi abbia commesso degli errori e non sia un santo; ma e’ altrettanto palese che aveva ragione sul comunismo reale ed in generale sui comunisti. La storia umana sta andando definitivamente verso la democrazia rappresentativa rinunciando definitivamente al comunismo e in generale al marxismo. Sulla suddetta strada Craxi ci era arrivato per primo e noi ex comunisti solo da poco purtroppo. Buona serata a tutte Antonio De Matteo Pescara
Molte grazie per la considerazione da un fedele lettore di Bobo (e di Sergio Staino).
Un cordialissimo saluto
Massimiliano Panarari