Luciano Gallino, intellettuale di sinistra – definizioni che sembrano diventate brutte parole – scrisse più di venti anni fa l’introduzione a un libro nella quale diceva “la distruzione di una comunità politica, la fine della democrazia, è sempre possibile… Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, che è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà”. Il volume era Come si diventa nazisti di William Allen, uno storico che si incaricò di raccontare come una piccola comunità dell’Hannover si trasformò da città storicamente di sinistra a feudo del nazismo, in cinque anni passato dal 5 per cento al 62,3. Allen scrive che “il problema del nazismo fu prima di tutto un problema di percezione”. Non esiste evidentemente in Italia e altrove un pericolo nazista, anche perché la storia non si ripete mai nello stesso modo. Ma la mia angoscia, l’angoscia di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita a ideali di democrazia e progresso, è che non si abbia la “percezione” di quello che sta accadendo. Che non ci si accorga che parole un tempo impronunciabili stanno diventando normali.
Non mi interessa qui la miseria della polemica politica quotidiana che ha perso la dignità minima. Sembrano tutti il Malvolio di La dodicesima notte di Shakespeare che dice, tronfio, “Su tutti voialtri prenderò la mia vendetta”. Credo si debba uscire dal presentismo che domina il nostro tempo, che toglie respiro, serietà, credibilità alle parole e ai gesti. Guardare il mondo e interpretare i segni che ci pervengono.
Fu quello che nell’estate del 1939 non si fu capaci di fare, mentre l’umanità precipitava in una guerra terribile. Guerra come quella che solo vent’anni prima aveva fatto diciassette milioni di vittime. Mentre sulle spiagge si prendeva ignari il sole e nei cuori si inneggiava al duce e al fuhrer, si stava preparando un conflitto che avrebbe prodotto 68 milioni di morti e la tragedia della Shoah.
Papa Francesco ha parlato più volte, inascoltato, di una terza guerra mondiale. Per molti nostri coevi la guerra non è un deposito della storia o un monumento alla memoria. È la vita quotidiana, il dolore quotidiano in un mondo sordo e cieco. È lo stupore del bambino di Aleppo che seduto in un’ambulanza si tocca il viso scoprendolo pieno di sangue, è il corpo di Alan con la sua maglietta rossa sulla spiaggia turca e quello di suo fratello Galip, cinque anni, inghiottito dal mare. Ma noi, l’Occidente che ha attraversato la seconda guerra mondiale e l’orrore dei regimi autoritari, dell’hitlerismo e dello stalinismo, noi dove stiamo andando?
Intervenendo al Festival delle idee di Repubblica, mesi fa, sono tornato sul paragone con Weimar. Non sono pessimista, non lo sono per carattere. Ma non voglio assuefarmi alla legge del “politicamente corretto” per cui si finisce con l’omettere o l’umettare la sostanza delle proprie ragioni. Guardiamoci intorno. Cito due macrofenomeni: i dazi e la messa in discussione dell’Europa. Nella storia l’apposizione dei dazi è sempre stata la premessa per conflitti sanguinosi. Nel tempo della globalizzazione, fenomeno oggettivo, è impensabile agire lo strumento del protezionismo esasperato. Il conflitto tra Usa e Cina e tra Usa ed Europa, segnato dalle politiche di Trump, potrà avere effetti rilevanti sulla distensione internazionale. Ma il secondo dato è il più grave. Quando Spinelli pensò l’Europa unita, il nostro continente era in fiamme. È stata la più grande conquista di pace della storia umana, in questa parte del mondo. Ma ora tutto sta crollando. Logorato prima dalle timidezze dei governi democratici e ora dalla esplicita volontà antieuropea di un numero crescente di Stati. La Gran Bretagna è uscita, con il voto degli inglesi, e il gruppo di Visegrad si propone un’Europa minima, senza principi, valori, strategie comuni.
Il nostro Paese, fondatore dell’unità europea, improvvisamente ha come riferimento Orban e la sua “democrazia autoritaria”. Un modello che tende ad affermarsi, dalla Russia alla Turchia. Si fanno strada regimi che tendono a concentrare nelle mani di pochi il potere, che limitano la libertà di stampa e di pensiero, che incarcerano gli oppositori. Qui, in Europa. La “fine della democrazia è sempre possibile”, anche in forme storicamente inedite. Come ai tempi di Weimar, quando la crisi delle istituzioni e dei partiti, spesso divorati dalla corruzione, si intreccia con la recessione economica, si genera un bisogno di sicurezza che può essere più forte del bisogno di libertà.
Il populismo, espressione comoda per indicare una politica che a questo disagio si rivolge, è, per tutto questo, una definizione sbagliata. È destra, la peggiore destra. Quella contro la quale un galantuomo come John McCain ha combattuto fino all’ultimo. Definirla populista è farle un favore. Chiamiamo le cose con il loro nome. Chi sostiene il sovranismo in una società globale, chi postula una società chiusa, chi si fa beffe del pensiero degli altri e lo demonizza, chi anima spiriti guerrieri contro ogni minoranza, chi mette in discussione il valore della democrazia rappresentativa, altro non fa che dare voce alle ragioni storiche della destra più estrema.
Altro che populismo. Qualcosa di molto più pericoloso.
Ma ciò che la sinistra, impegnata a dividersi e rimirarsi allo specchio, non ha capito è che in questi anni è andata avanti una gigantesca riorganizzazione della intera struttura sociale. Qualcosa di paragonabile agli effetti della rivoluzione industriale. Il lavoro ha cambiato natura, facendosi aleatorio e precario. E se la macchina a vapore ha creato l’industria moderna e con essa le classi sociali e le città, così la nuova rivoluzione tecnologica, ancora agli inizi, finisce con il sostituire tendenzialmente l’uomo con la macchina e con il mutare tutti i codici cognitivi e comunicativi. La società è segnata da una sensazione di precarietà che la domina, che ne mina la fiducia sociale nel futuro. Non si può pensare che un tempo in cui le famiglie italiane hanno perso undici punti di reddito rispetto alla fase precrisi, in cui la differenza tra ricchi e poveri è aumentata, non sia carico di un drammatico disagio.
Un disagio che fa sì che prevalga la paura sulla speranza. La società, come un corpo contratto, si ritrae in una posizione orizzontale. Rifiuta ogni delega, anima della vera democrazia. Non vuole sapere la verità dai giornali, non accetta il parere degli scienziati, contesta persino fisicamente professori e medici, nega il valore della competenza politica fino a mettere in discussione il parlamento, per il quale si ipotizza una estrazione a sorte dei suoi membri.
Ma la società orizzontale finisce col postulare un potere verticale. La sinistra non ha capito che quando si è posto, da Calamandrei in poi, il problema della trasparenza e della velocità della democrazia si cercava esattamente di rispondere a questo bisogno. In una società veloce una democrazia lenta e debole finisce con l’essere travolta. Più la democrazia decide, più resterà la democrazia. Meno decide e più sarà esposta alla pantomima di questa estate allucinante, con un governo che le spara grosse su tutto. Che arriva a sequestrare una nave militare italiana in un porto italiano, a giocare spregiudicatamente la vita di esseri umani per qualche voto esacerbato. Che minaccia l’Europa con un misto di arroganza e incompetenza. Che annuncia cose che non può fare, non sa fare, non farà.
Ma nel presentismo assoluto resta nell’aria solo il grido acuto dell’intemerata. Trump in campagna elettorale disse che, se anche avesse preso un fucile e fosse andato sulla Quinta strada a sparare, non avrebbe perso un voto. Temo fosse vero. E così un ministro dell’Interno indagato per abuso d’ufficio si deve dimettere se è di centrosinistra e uno di destra, indagato per sequestro di persona, deve restare al suo posto. Non discuto il merito, noto la differenza. E se un deputato della maggioranza dice, come un vero fascista, che “se i magistrati attaccano il capo, li andiamo a prendere casa per casa” nessuno nella stessa maggioranza dice nemmeno poffarbacco.
Ma nei confronti dei cinquestelle la sinistra ha compiuto gravi errori. Ha cambiato mille volte atteggiamento, ha demonizzato e cercato alleanze organiche o viceversa, senza capire che molti di quei voti sono di elettori di sinistra. Che molti dei sei milioni di cittadini che avevano votato per il Pd nel 2008 hanno finito con lo scegliere i pentastellati o sono restati a casa. Un dolore profondo, un malessere che meritava molto di più delle piccole risse quotidiane o dei corteggiamenti subalterni. Molti di quegli elettori oggi sono certamente in sofferenza per il dominio della Lega sul governo e ad essi, e a chi non ha votato, senza spocchia da maestrino, la sinistra deve rivolgersi.
Come? Sia chiaro: la crisi della sinistra non è un fenomeno esclusivamente italiano, è mondiale. Solo Obama, come immaginammo nel 2008, è restato vivido nella memoria come esempio universale di coerenza programmatica e valoriale. Ma poi ha vinto Trump. Perché la sinistra o accende un sogno o non è. Perché la sinistra o è popolo o non è. Ma io non condivido i discorsi che sento fare sulla fine della sinistra o delle idee dei democratici.
È la sinistra, nella storia, che ha cambiato il mondo. Sono state le lotte contro lo schiavismo, per la liberazione delle donne, contro l’alienazione e lo sfruttamento, per i diritti civili e umani, contro le discriminazioni. È questo sistema di valori che ha reso la vita di ognuno sulla terra più libera e migliore. La sinistra lo ha saputo fare quando ha parlato al cuore delle persone, quando ha interpretato i bisogni di giustizia sociale, quando ha scelto la libertà. Cosa che non ha sempre fatto. Cinquant’anni fa la sinistra, per come la intendo, era nel sacrificio di Ian Palach e non nei carri armati con la falce e il martello.
Sogno e popolo, ciò che è stato perduto.
Due cose semplici e difficili insieme. Sono più chiaro ancora: o la sinistra definirà una proposta in grado di assicurare sicurezza sociale nel tempo della precarietà degli umani o sparirà. O la sinistra la smetterà di rimpiangere un passato che non tornerà e si preoccuperà di portare in questo tempo i suoi valori o sparirà. O la sinistra immaginerà nuove forme di partecipazione popolare alla decisione pubblica, una nuova stagione della diffusione della democrazia, o prevarranno i modelli autoritari. Nelle future esperienze di governo della sinistra ci dovrà essere una più marcata radicalità di innovazione. Allo stesso tempo, la sinistra non deve dimenticare chi è, ne deve anzi avere orgoglio. Non sarà inseguendo la destra o, in questo caso, il populismo che si eviterà il peggio. La sinistra non può avere paura di dire che è per una società dell’accoglienza, dire che è nella sua natura – oltre che in quella che dell’essere umano – la solidarietà, la condivisione del dolore, l’aiuto nel bisogno. La sinistra non deve aver paura di dire che non si deve mai deflettere dal rigoroso presidio della sicurezza dei cittadini imponendo a tutti il rispetto delle regole che ci siamo dati.
La sinistra non deve inseguire nessuno sul tema dell’Europa immaginandone una versione bonsai ma, al contrario, deve rilanciare con forza l’idea degli Stati Uniti d’Europa, meravigliosa utopia realizzabile. Deve riscoprire, dopo averlo dimenticato, il tema dello sviluppo compatibile, vera incognita sul futuro della specie umana. E non deve assuefarsi alla barbarie del linguaggio semplificato, della rissa permanente, dell’insulto all’avversario. Anche in questo deve essere se stessa, non fare come Zelig. Deve coltivare la scuola, la ricerca, la cultura, l’identità profonda di un Paese che è sempre stato aperto al mondo. Non deve aver paura di unire anche quando la diffusione dell’odio sembra prevalere. Deve innovare la sua identità e avere rispetto della sua storia. Si possono, ed è giusto, sostituire generazioni di dirigenti. Io mi sono presto fatto da parte per mia scelta e ho iniziato una nuova vita, come era corretto facessi.
Ma non è giusto cancellare la storia collettiva, le battaglie, i sacrifici, il senso di quella cosa enorme che nella storia italiana è stata la sinistra, è stato il pensiero democratico. Ha scritto, sul tema della memoria, il priore di Bose Enzo Bianchi: “Per ogni cultura, la memoria dei momenti e delle forze che l’hanno generata è essenziale; è proprio nella memoria degli eventi fondatori che la democrazia si afferma e si manifesta come valore”.
Un esempio: la parola rottamazione fu usata, la prima volta, da Berlusconi in tv per attaccare Romano Prodi. Non è una nostra parola, figlia della nostra cultura. Neanche gli avversari si “rottamano”, perché un essere umano e le sue idee non sono mai da cancellare, se espresse per e con la libertà.
Quando – è successo varie volte – in Italia si sono prese sbandate per il demagogo di turno, alla sinistra democratica è toccato poi salvare il Paese. Per essere all’altezza di questa responsabilità la sinistra e i democratici devono unirsi e smetterla con la prassi esasperante delle divisioni e delle scissioni testimoniali. Anche quella è un’abitudine spesso coincisa con tragiche sconfitte. Il Pd che io immaginavo è durato pochi mesi, raggiunse il 34 per cento in condizioni terribili e si trovò, orgoglioso e emozionato, in un Circo Massimo oggi inimmaginabile per chiunque. Era l’idea di un partito orizzontale, fatto di cittadini e movimenti, di associazioni e autonome organizzazioni. Un partito a vocazione maggioritaria perché aperto, che usava le primarie come cemento per unire questo arcobaleno. Il contrario di un “partito liquido”, come poi si è purtroppo rivelato essere, per paradosso, quando ha prevalso il rimpianto per forme partito che non sono più date in questo tempo. Quel partito è stato in questi anni, per responsabilità di tutti, dominato dalle correnti e dai gruppi organizzati e il suo spazio vitale si è ristretto, come la stanza del funzionario Rai di La Terrazza di Ettore Scola. Quei muri vanno tirati giù e il Pd deve apparire un luogo aperto, plurale, fondato sui valori e non sul potere. Bisogna inventare una forma originale di movimento politico del nuovo millennio.
Forse quella idea era sbagliata, forse troppo avanti. Ne ho preso atto, credo con misura, senza cessare mai di dare una mano alle ragioni che hanno ispirato la mia vita.
Per questo ho scritto oggi. Perché non smetto di credere alla sinistra, perché temo per il futuro della vita democratica e dell’Europa, perché penso che l’idea di un soggetto politico aperto del campo democratico sia più che mai necessaria. Nessuno perda tempo a strologare sulla ragione di questo scritto. È solo amore per la propria comunità e per il proprio Paese. Tutto qui.
3 Comments
Caro Walter,
grazie per avere portato il tuo contributo (l’articolo su Repubblica) in un momento davvero tragico per il centrosinistra italiano e per il Paese tutto.
Nessuno più di te sa come e perché è nato il Partito Democratico, quali ostacoli ha dovuto superare per esistere, quali basi ideali utilizzava e quali obbiettivi si poneva.
Tu hai voluto un Partito a vocazione maggioritaria, cioè un Partito che nasceva per governare, non un movimento di opinione che interpretasse i disagi ed i problemi di una parte del popolo italiano.
Tu hai immaginato un Partito che, tramite il riformismo, smontasse vincoli e vizi della società italiana e risolvesse (almeno avviasse a soluzione) i problemi, non limitandosi a denunciarli e testimoniarli.
Era, ed è tuttora, un’idea vincente: anzi, non so se vincente, ma certamente necessaria, indispensabile, perché il nostro Paese entrasse a pieno titolo tra le democrazie compiute, decidenti, efficienti, del mondo occidentale.
Tu sai benissimo quanto costò quella nascita: tu stesso ricordasti che dal palco del Circo Massimo vedevi davanti un popolo felice di avere trovato la sua casa e dietro un gruppo di dirigenti che si preparava ad abbatterla.
Questo è avvenuto, e non una, ma più volte. È storia antica, storia recente e storia presente.
Noi non faremo passi avanti verso un PD nuovo, libero, aperto, proiettato al futuro, se prima non avremo disinnescato questo mostruoso meccanismo di autodistruzione.
Potremo parlare di politica se e solo se chi prende la parola avrà l’animo libero da questo cancro che corrode la sinistra da quasi un secolo.
È un problema di persone, è un problema di idee. Non possiamo lasciarlo lì, sperando che si risolva da solo. Non succederà, ed al momento opportuno riesploderà, distruggendo tutto quanto di buono nel frattempo saremo riusciti a produrre.
Non facciamo finta di non vedere: le esperienze di governo del centrosinistra sono sempre terminate per motivi interni, non per l’attacco di avversari, che non hanno mai avuto alcuna autonoma ed alternativa capacità progettuale; al massimo hanno prosperato sul: ognuno si faccia i comodi suoi! (che è pur sempre un progetto, anche se rudimentale). Tu stesso ti sei fatto da parte perché l’aria intorno a te era diventata irrespirabile, e dall’esterno era evidente.
Non voglio con queste riflessioni rivangare, riaprire ferite, conflitti mai sopiti, ma neanche possiamo fare finta che sia normale così. Non è normale dialettica, è una cosa devastante e va trovata una soluzione.
Come? Quale? Provo ad elencare alcuni suggerimenti, se posso permettermi.
01) Onestà intellettuale da parte di tutti nel riconoscere quanto è avvenuto, senza minimizzare ma anche senza dividere buoni e cattivi. Il seguito dirà chi ci sta e chi no.
02) Analizzare le cause dei comportamenti passati e stabilire un codice comportamentale stringente, valido per tutti quelli che vogliono anche solo avvicinarsi al Partito (esempi: codice morale, correttezza dei rapporti maggioranza/minoranza e conseguente controllo del correntismo, unità dell’azione parlamentare e sui territori, …).
03) Affrontare le radici culturali, ideologiche, storiche del problema (che esistono davvero e io le riconduco alla difficile coesistenza, alla competizione ed al mancato reciproco riconoscimento tra la matrice liberaldemocratica e quella socialista-solidarista).
04) Su queste cause, riconoscere che, senza una loro sintesi, il centrosinistra diviso è destinato ad essere minoritario e quindi relegato all’opposizione di governi di destra, stavolta destra estrema, non John McCain.
05) Prendere definitivamente atto che il mondo non si cambia dall’opposizione, ma impegnandosi a governare il cambiamento.
06) La politica italiana è ancora schiava di tendenze consociativiste, contro le quali bisogna avere il coraggio di agire con nettezza. Ad ognuno le sue responsabilità. Il consociativismo è un cancro di cui una democrazia muore, non è un modo di interpretarla.
07) Il nostro futuro è l’Europa; non un’idea generica di Europa: gli Stati Uniti d’Europa, nulla di meno.
08) Intorno a questo obbiettivo, ricercare tutte le alleanze possibili nel Continente, senza limiti di schieramento. Le prossime elezioni saranno il banco di prova. E potrebbero essere l’ultima occasione.
09) Rendere visibile e imprescindibile tale obbiettivo, anche attraverso l’adozione di un apposito logo sul simbolo elettorale.
10) Non confondere neanche per un istante il M5S con i suoi (ahimè tanti) elettori: il primo rappresenta un pericolo mortale per la democrazia, i secondi possono essere, almeno in parte, una risorsa per la sua difesa. Bisogna riportarli nel nostro alveo.
Senza volerlo ho scritto un decalogo. Anche rileggendolo, non mi pare per nulla irrealizzabile, né utopistico, né ipotetico.
Credo sia necessario prendere coscienza tutti dei pericoli che corriamo e comportarci di conseguenza.
Noi italiani siamo usciti da situazioni almeno altrettanto orribili. Non c’è motivo per non riuscirci anche stavolta.
Il problema è che poi ci ricaschiamo sempre.
Con affetto,
Ernesto Trotta
Torino
Caro Sergio,
Credo che il buon Walter abbia riassunto bene diagnosi e terapia..
Dicendo cose che ci siamo detti anche noi, seppure con emozioni, pensieri parole diversi.
Comunque credo che se questo è lo sfondo giusto, si tratterebbe di coagulare un gruppo dirigente conseguente che, per cerchi concentrici, arrivi fino a fecondare azioni nuove provincia per provincia, paesi per paesi…
La sensazione è quella di un popolo attonito e di un esercito disorientato.
Ma, al tempo stesso, di una sapienza accumulata ed inespresse..
Forse ci vuole qualcosa in più di “compagni via” ma , intanto, cominciamo a metterci sulla linea di partenza..
Un abbraccio
Gerardo Vespucci
Caro Sergio,
ti ringrazio per gli aggiornamenti. Non ti mando un mio commento perché mi sento vuota. Comunque leggo sempre con interesse.
Ciao
Grazia