Partiamo da un paradosso. Il miglior film del 2018 non esiste. Il 2018 è stata un’annata cinematografica abbastanza modesta, che non rimarrà negli annali se non per fattori extra-cinematografici (e ora ci arriviamo). Figuratevi che, per chi scrive, il miglior film del 2018 non è (tecnicamente) un film, nel senso che è andato direttamente su Netflix avendo, negli Usa, solo un’uscita tecnica in alcune sale proprio per concorrere all’Oscar: si tratta di “The Ballad of Buster Scruggs”, la meravigliosa (sempre per chi scrive…) silloge western dei fratelli Coen. Film che, sarà bene ribadirlo, è prodotto da Netflix, mentre “Roma” di Alfonso Cuaron non lo è: “Roma” era già in avanzata fase di pre-produzione quando Netflix è subentrata come piattaforma che l’avrebbe programmato, quindi è (di nuovo, tecnicamente) il distributore di un’opera prodotta altrove. Ma bastano, questi dettagli produttivi (sia pure importantissimi) per decidere che “The Ballad of Buster Scruggs” non è un film, che “Roma” è un film a metà e che invece, che so, “Green Book” o “Bohemian Rhapsody” sono film-film? Secondo noi no. Secondo noi sono tutti film, fruibili in modo diverso: e sarà bene abituarsi a questa idea, perché se ci abituiamo il cinema avrà un futuro, se invece la rifiutiamo il cinema-cinema visto solo in sala ha le ore contate.
Una scena di Green Book
Premessa necessaria, per individuare subito i fattori extra-cinematografici di cui sopra: “Roma” non ha vinto la statuetta del miglior film, si è dovuto “accontentare” di tre premi importanti (regia, fotografia, film in lingua straniera) ma è comunque “il” film del 2018, anche grazie al Leone d’oro vinto a Venezia e al curioso destino che gli ha impedito di partecipare a Cannes. Ricordarlo sarà utile, e non è un pettegolezzo perché il direttore di Cannes Thierry Frémaux l’ha raccontato in pubblico più volte: “Roma” era pronto per Cannes, era già selezionato, era in concorso. Poi le associazioni francesi di categoria (produttori, distributori, esercenti), che sono nel “board” di Cannes e hanno voce in capitolo sulle scelte di un festival che è la punta dell’iceberg di un sistema-cinema molto potente (quello francese), hanno imposto la sua esclusione. Frémaux è ancora furibondo per questa cosa. Cannes dovrà rivedere certe sue idee novecentesche (l’obbligo di selezionare solo film che escano in sala) o rischierà di “regalare” i film a Venezia sempre più spesso. Un suicidio. Questo per dire come “Roma”, al di là dei suoi meriti artistici tutt’altro che banali, è il film che ha fatto saltare il banco. Il tema delle piattaforme digitali è centrale nel cinema di oggi a tutti i livelli: produzione, distribuzione, fruizione. E anche concezione, creatività, libertà artistica. I Coen hanno realizzato il loro western con Netflix perché nessun produttore tradizionale era interessato. Cuaron ha avuto da Netflix totale libertà, nella vecchia Hollywood se la sarebbe sognata (un film in bianco e nero, ambientato in Messico, recitato in spagnolo da attori sconosciuti? Vade retro!). E l’Oscar, più di Cannes, ha capito l’andazzo e ha accolto “Roma” fra i propri beniamini.
Una scena di Roma
Ma ci sono altri fattori extra-cinematografici nel premio di quest’anno. Nessun film premiato (con l’eccezione forse dell’Oscar a Olivia Colman per “La favorita”) ha vinto solo perché “è bello”. Tutti avevano alle spalle storie produttive, politiche: la convenienza e il politicamente corretto hanno trionfato.
“Green Book” è un ottimo film, amabilmente girato all’antica e interpretato da due attori magnifici. Ma ha vinto perché è un film sul razzismo. “BlacKkKlansman” di Spike Lee è un film notevole, ma ha vinto (miglior sceneggiatura non originale) perché è, di nuovo, un film sul razzismo. Poi, a dimostrazione che gli anti-razzisti non riescono ad andare d’accordo fra di loro (sembra la sinistra italiana, non vi pare?) Spike Lee ha rilasciato dichiarazioni furibonde su “Green Book”, che ha il grave difetto di essere diretto da un bianco. “Roma” ha vinto quello che ha vinto per i motivi suddetti, e per la potenza di fuoco di Netflix che ha investito cifre importanti nella campagna promozionale; ma anche perché è un film messicano e il Messico va di moda, visto che da anni Alfonso Cuaron, Guillermo Del Toro e Alejandro Inarritu fanno incetta di Oscar e sono il trio più “cool” di Hollywood dai tempi di “Los tres caballeros” di Disney. Rami Malek ha vinto come miglior attore perché ha interpretato un’icona gay uccisa dall’aids. E così via.
Ormai, da diversi anni, l’Oscar non è una gara cinematografica, ma una tribuna dalla quale “annusare” che aria tira in America. E naturalmente è positivo che dal cinema arrivino segnali di apertura, di convivenza fra le etnie, di rispetto per le donne, di disprezzo per chi costruisce muri, eccetera. Le dichiarazioni di Cuaron (“Siamo tutti parte della stessa emozione, tutti parte dello stesso oceano”) e di Javier Bardem che ha introdotto il premio al film straniero (“Nessun paese può costruire muri e porre barriere”) sono belle, e vanno benissimo. È anche lecito interrogarsi sul reale effetto di queste parole. Personalmente siamo convinti che quando Spike Lee dice dal palco “Nel 2020 si vota, fate la cosa giusta”, il gradimento (e i voti) per Trump si impennano in buona parte di quell’America profonda che percepisce Hollywood come un covo di miliardari depravati. Ma questo non significa, ovviamente, che si debba stare zitti. Significa solo, per noi commentatori, mantenere un sano scetticismo sulla vera forza di penetrazione del cinema nelle dinamiche sociali. Esiste ancora, ma è sicuramente diminuita rispetto al passato.
Rami Malek in Bohemian Rhapsody
Nel complesso i premi sono condivisibili. Solo su Malek abbiamo enormi dubbi. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché l’Oscar come miglior attore va a un tizio che interpreta un cantante famoso, ovviamente senza cantare (ci mancherebbe!), e senza assomigliargli nemmeno un po’. A noi l’interpretazione di Malek è parsa goffa e improbabile, ma si sa che l’Academy impazzisce per questi ruoli così appariscenti. Del resto l’alternativa era Christian Bale, un inglese alto giovane e bello che in “Vice” interpreta, a furia di protesi e di effetti speciali, un americano basso vecchio e brutto. La verità è che nessun premio sarebbe stato giusto quanto quello a Viggo Mortensen, che invece è stato ignorato e che avrebbe meritato la vittoria già vent’anni fa per il suo memorabile Aragorn nel “Signore degli anelli”. Ma Mortensen è uno di quelli che non vincerà mai: non frequenta i salotti giusti, non fa lavoro di pr, non ama Hollywood e preferisce passare il tempo a dipingere, scrivere poesie e fare fotografie. E queste cose, a Hollywood, si pagano: pensare con la propria testa è molto più penalizzante che avere la pelle di un altro colore.
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