Caro Sergio,
due stimoli di grandissimo interesse ci vengono (oggi domenica 18/3) dall’intervista di Cazzullo a Veltroni e dall’analisi sconsolata di Michele Ainis su Repubblica (leggi in fondo).
In quest’ultima Ainis denuncia, per dirla in estrema sintesi, la trasformazione di internet da auspicato strumento di democrazia orizzontale a pericoloso strumento di una possibile dittatura della minoranza.
Veltroni lamenta il distacco che si è creato tra la sinistra ed il suo potenziale elettorato popolare sottolineando come i pur indubitabili successi di 5 anni di Governo siano risultati del tutto incomprensibili, e persino offensivi, per larga parte di una popolazione, che vive male ed ha paura del futuro.
In queste due posizioni è a mio avviso racchiusa tutta la crisi delle sinistre mondiali e nel contempo il motivo del successo di movimenti antipolitici, antisistema, perfino anarcoidi o ribellistici.
Una forza di sinistra, o di centrosinistra, per andare al governo deve potere e sapere suscitare, nella maggioranza (almeno relativa) della popolazione, attese ed interesse intorno ad un progetto coinvolgente: e questo noi l’abbiamo fatto in più occasioni, quindi ne siamo (stati) capaci, almeno fino al 2014, data dell’ultima affermazione importante.
Poi però la sinistra deve governare, con i vincoli ed i condizionamenti propri di situazioni complesse anche a livello internazionale, cercando di fare il proprio meglio nell’affrontare ed avviare a soluzione i problemi sentiti dall’elettorato. Ma “tutto e subito” non si può fare.
E qui si crea lo iato che porta alla crisi.
In questa contraddizione si inserisce con forza dirompente la tremenda semplificazione portata dalla rete. Tutto diventa “merda” (scusate il francesismo) molto in fretta, lo scontento popolare monta e viene amplificato oltre ogni limite, si crea l’opinione diffusa che basti buttare tutto all’aria per risolvere ogni problema, e via così illudendo.
Che fare, allora, schiacciati in questa morsa?
Sembra una specie di Comma 22 della politica, il film di Nichols del 1970, una situazione in cui si perde sempre, il contrario del win-win della teoria dei giochi di John Nash.
Se ci fosse una soluzione semplice qualcuno l’avrebbe già trovata. Purtroppo, temo che la soluzione (ammesso che esista) debba essere ancora inventata, ma comunque in fretta e con la massima creatività.
Io credo che sia ineludibile per la sinistra imparare ad usare la rete in modo efficace, diffondendone il più possibile la conoscenza non solo da utenti “passivi”, ma soprattutto da “controllori intelligenti”.
Dobbiamo noi stessi usarla intensivamente, per scoprire e non per coprire, per rendere evidenti i trucchi e le insidia del potere di Big Data.
Dobbiamo usare e valorizzare chi conosce meccanismi ed algoritmi, chi dispone dei mezzi logici e tecnici, chi ritiene e sostiene che la rete vada democratizzata.
In poche parole, serve un enorme sforzo di alfabetizzazione informatica, che deve procedere di pari passo con la creazione di un nuovo progetto di Governo, sul quale chiedere il coinvolgimento cosciente e responsabile di tutto l’elettorato.
E questo progetto non potrà evitare anche una certa radicalità delle proposte, perfino qualche ragionata ma visibile forzatura di vincoli e condizionamenti esterni. Dobbiamo rischiare qualcosa, insomma.
Tutto ciò lo si può fare meglio agendo a livello continentale e non solo nazionale, dato che i problemi sono largamente condivisi.
Per questo auspico la nascita e lo sviluppo di un soggetto politico europeo aperto, laico, svincolato dai pesanti condizionamenti ideologici novecenteschi.
Parliamoci chiaro: socialismo e liberalismo sono categorie di per sé superate dal tempo, tant’è che oggi finalmente riusciamo a parlare di liberalsocialismo.
Allora tanto vale sganciarsene del tutto e preoccuparsi della cosa che più sta correndo pericoli, ovvero la DEMOCRAZIA occidentale “tout court”, dalla cui salute dipende la possibilità di realizzare gli obbiettivi di libertà, uguaglianza e solidarietà, che continueranno sempre ad essere centrali nell’azione politica di una forza di sinistra.
Come dice Veltroni, in Italia l’abbiamo cominciato con dieci anni di ritardo, con sfibranti avanti e indietro, “stop an go”, successi e tracolli, ma comunque ci abbiamo provato dieci anni prima degli altri.
È ora di prendere in mano questa bandiera e farne un tema per la sinistra europea moderna.
Abbiamo meno di un anno prima delle elezioni. Non andrebbe sprecato nemmeno un giorno.
Ernesto Trotta
Torino
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Internet, questa non è democrazia
di MICHELE AINIS
C’era una volta, come nelle fiabe, un paradiso tecnologico. C’era un luogo di libertà, anche se in effetti si trattava di un non luogo, d’uno spazio immateriale esteso quanto il mondo. E in quello spazio gli uomini potevano finalmente stabilire relazioni orizzontali, senza padroni, senza gerarchie. In origine, Internet è stato tutto questo. Niente dogane, né censure, né controlli di Stato lungo i suoi mille sentieri. Perché dopotutto era ciascuno di noi, lo Stato. E al contempo ciascuno diventava fonte e destinatario di notizie, autore e lettore, consumatore e imprenditore, elettore ed eletto. L’eguaglianza perfetta nella più totale libertà. L’utopia di Tommaso Campanella, una nuova Città del Sole. Ma anche di Kant, con la sua pace perpetua. Giacché la guerra non può mai attecchire se attecchisce la comunicazione universale, il reciproco parlarsi e ascoltarsi.
Quando è evaporata l’illusione? Forse quando Google ha rovesciato le proprie strategie. All’inizio s’apriva a tutti i siti, ti trasportava ovunque, senza distinguere tra periferie e cattedrali. Così dichiarava nel 2004 il suo co-fondatore, Larry Page: “Noi vogliamo che veniate da Google e troviate rapidamente ciò che cercate. A quel punto, saremo felici di dirigervi su altri siti”. Adesso, però, se chiedi chi sia il miglior pediatra di New York o la ferramenta più fornito di Milano, trovi una risposta sola. La risposta riflette un’opinione, un punto di vista soggettivo, però ha l’effetto di sbarrare il traffico verso le altre destinazioni della Rete. Sicché quest’ultima, da struttura aperta e pluralistica, si è trasformata in un microcosmo chiuso, dove lo sguardo corre in verticale, non più in orizzontale. Ed è uno sguardo stretto, limitato, dal momento che il 91,5% degli utenti di Google si ferma alla prima pagina. Succede lo stesso nel giardino di Facebook, di Twitter, di Instagram: tutti i contenuti di terze parti devono passare attraverso la loro intelaiatura.
Da qui il potere economico, politico, sociale dei Big Data. Ma da qui pure una restrizione dei nostri orizzonti democratici, delle nostre relazioni come cittadini della polis. La chiamano bubble democracy, la democrazia della bolla: un sistema dove le correnti d’opinione si muovono in sciami dalle traiettorie imprevedibili e cangianti, alimentati per lo più da una carica di risentimento, non dal sentimento. E allora ecco gli hate speech, parole violente come spari, che deflagrano ai quattro angoli del web. Ecco le fantasie di cospirazioni, di complotti, che incattiviscono le nostre relazioni, che propagano il sospetto, una reazione difensiva e al contempo offensiva contro i fantasmi della nostra società. Ed ecco, in ultimo, il doppio paradosso della democrazia elettronica. Perché dispensa libertà pubbliche e controlli privati: una “schizofrenia tecnologica”, come diceva Stefano Rodotà. E perché le libertà non hanno contrappesi, evocando perciò l’ammonimento di Platone: “Dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce”.
Sta di fatto che la tecnologia – nonostante ogni apparenza – esprime una vocazione autoritaria, non libertaria. Uno smartphone, per esempio, è semplice da usare. Così pure un lettore di e-book, il navigatore montato sulle nostre autovetture, la PlayStation. Tutti i nuovi dispositivi elettronici fanno a gara per rendere il loro uso sempre più intuitivo, più immediato, come i giochi dei bambini; e su tale qualità si decide la competizione fra le aziende produttrici. La democrazia, viceversa, è una creatura complicata, con le sue lungaggini, con le procedure parlamentari o giudiziarie da cui scaturiscono decisioni sempre revocabili, sempre esposte a un’altra ripartenza. Talvolta troppo complicata, è vero, specialmente alle nostre latitudini; tuttavia ovunque nel mondo gli adolescenti possono usare il tablet, però non possono votare.
Da ciò un elemento di frizione, se non d’antagonismo, fra democrazia e innovazione tecnologica; da ciò, forse, un inquietante corollario. Ossia il successo globale dei movimenti populisti, delle strategie politiche semplificanti, delle scorciatoie decisioniste. Sarà una coincidenza, però la democrazia non è mai stata così fragile come da quando siamo tutti connessi con un clic. Giacché la tecno-scienza sta modificando le nostre strutture mentali, oltre che la cultura collettiva. Ci abitua a soluzioni rapide, a risposte semplici anche dinanzi ai problemi più complessi. Ma vale pur sempre il vecchio monito di Montesquieu: “Il tiranno pensa innanzitutto a semplificare le leggi”.
Insomma, il paradiso promesso dalla Rete rischia di dimostrarsi simile all’inferno, come emerso con lo scandalo dei profili Facebook violati da Cambridge Analytica, la società che ha spinto l’elezione di Donald Trump. Nel frattempo, cadono a una a una le illusioni con cui quel paradiso ci era stato annunziato. Non è vero che il web sia l’arma che ci difende dal potere, perché quest’ultimo se ne serve meglio e di più rispetto ai cittadini: per esempio attraverso l’e-government, con cui il potere esecutivo si rafforza, marginalizzando il Parlamento. E non è vero che Internet consenta la massima partecipazione democratica nella selezione (ed eventualmente nella revoca) dei rappresentanti popolari. O meglio, consente la partecipazione, ma talvolta a scapito della democrazia. Giacché quest’ultima si nutre di procedure, di garanzie formali che mancano del tutto quando l’agorà si trasforma in tribunale, come le plebi radunate al Colosseo rispetto al gladiatore sconfitto. Tocqueville paventava la dittatura della maggioranza, quale massimo rischio delle democrazie moderne. Qui e oggi, viceversa, il pericolo concreto consiste nella dittatura della minoranza.
Comment
Quello che mi ha sorpreso nell’intervista di Veltroni è stato l’assenza di qualsiasi cenno al ruolo che hanno avuto i media nel “non far capire” ai cittadini, almeno a quella parte (che purtroppo è la grande maggioranza) poco incline ad informarsi davvero, quali e quanti provvedimenti buoni (o ottimi) erano stati adottati dai nostri governi. Ernesto parla di “risultati del tutto incomprensibili e persino offensivi” per loro, ma nessuno può negare che, per quante colpe abbiamo noi, avere tutto il sistema informativo su posizioni critiche, quando non aspramente contro, anche in forma menzognera, ha giocato un ruolo probabilmente decisivo nell’orientare il giudizio di quel elettorato. L’analisi di Ainis, invece, mi pare non faccia altro che confermare che “il grande fratello” è tra noi, come confermerebbe il recente caso dei milioni di nominativi “profilati” venduti da FB, che sarebbero serviti per “manipolare” le intenzioni di voto di quegli elettori. Quando dicevo che l’attività frenetica dei “troll” 5 stelle su FB avrebbe lasciato il segno non ho trovato, se non in Renzi, attento ascolto. Sarà bene apprendere la lezione per il futuro, vigilare e adottare opportune contromisure!