Due anni fa, quando ancora i libri si presentavano dal vivo, ebbi l’occasione di conversare con Dacia Maraini, nell’incantevole cittadina di Arona sul lago Maggiore, a proposito di femminismo e di altre battaglie sociali. Sembra passato un secolo da allora, in realtà soltanto un virus piccolissimo che ha fatto piazza pulita di molte nostre certezze e costretto tantissime persone a perdere il lavoro. Su 101 mila nuovi disoccupati, 99 mila sono donne. Sembra una fake news, invece è un dato Istat. Ho l’opportunità di tornare a parlarne con la donna che meglio rappresenta la nostra letteratura nel mondo, e la cui lunga vita sembra aver attraversato molte soglie, compresa quest’ultima che stiamo solcando tutti insieme.
Cos’è successo, Dacia?
«Sono rimasta sbalordita anche io. Hanno perso il lavoro soprattutto le donne. Questo significa che noi pensiamo di vivere in una società emancipata, mentre nella realtà lo è solo fino a un certo punto. Dopo il femminismo molte cose sono cambiate, eppure la nostra società è ancora molto discriminatoria, patriarcale».
E nella tua vita cos’è successo con l’arrivo del virus?
«Chi scrive è abituato a stare in casa e io non ho perso la pratica. Certo, prima potevo andare fuori con gli amici, a teatro, al cinema. Tutto questo naturalmente mi manca moltissimo. Io vivo da sola e il lockdown è stata una esperienza davvero deprimente. Per fortuna ogni tanto mi viene a trovare qualcuno a cena, che però scappa via troppo presto per via del coprifuoco. Ci siamo abituati a mangiare alle sette e mezza. In effetti c’è qualcosa di buono nell’aver anticipato gli orari, come quando andavo a Londra e gli spettacoli teatrali cominciavano alle sette. Da noi gli spettacoli cominciano troppo tardi».
Cos’altro è cambiato secondo te?
«Il paese è diviso in due. C’è chi capisce che bisogna avere il coraggio di cambiare e chi non vuole modificare proprio nulla delle proprie abitudini. Il mondo è in una fase di grande trasformazione. In meglio o in peggio non lo so, ma si evolve con una velocità che dà le vertigini. La tecnologia per esempio, che è entrata nelle nostre vite con tanta prepotenza, ma di cui non sappiamo più fare a meno».
Tu che rapporto hai con la tecnologia?
«Non sono in nessun social network. Però non scrivo mica a mano, uso il computer, ho il cellulare. Cerco solo di non farmi coinvolgere troppo. Conosco persone che ci passano tutto il tempo, ci perdono la vita. La tecnologia non è solo un mezzo, ma presuppone delle scelte etiche. Questi nuovi strumenti trasformano la convivenza, la democrazia, e noi dobbiamo trovare nuovi modi di vivere la famiglia, il lavoro, la vecchiaia. La vita va ricostruita giorno per giorno, con nuove regole comuni da tutti riconosciute».
Puoi farmi un altro esempio di come il mondo sta cambiando?
«L’immigrazione. In questi termini così ampi non si era mai verificata. Io sono per l’accoglienza, ma non ti nascondo che ci sono problemi di identità. Ogni commistione con altre religioni, culture, psicologie, non è mai semplice. È necessario rimboccarsi le maniche e interrogarsi sui propri valori. Chiedersi se sono valori universali o se sono solo valori dell’Occidente privilegiato e benestante».
Tu cosa ne pensi?
«Io credo che il rispetto delle persone, l’essere contro la pena di morte, la schiavitù, il maltrattamento dei più deboli e la discriminazione delle donne siano valori universali, ma per difenderli è necessario creare una nuova struttura morale condivisa».
A proposito di pena di morte, hai letto la storia della prima donna a essere giustiziata negli Stati Uniti? Aveva ucciso una giovane madre, asportandole il bambino dal grembo, ma aveva anche una storia molto triste di maltrattamenti alle spalle.
«Penso che un detenuto vada rieducato, non ucciso. Il carcere non deve essere un luogo di punizione, ma il luogo dove si cerca di cambiare le persone. Le punizioni servono a poco. In carcere la gente peggiora».
Abbiamo parlato di donne, e c’è una questione molto intima e femminile che ci accomuna. Ricordo quando mi sono aperta con te in occasione del festival che hai fondato ad Arona. Abbiamo perso entrambe un figlio al settimo mese di gravidanza. Io ho sentito l’esigenza di elaborare la mia perdita subito, attraverso un romanzo, tu hai aspettato il “Corpo felice” per raccontarti. La scrittura aiuta, non è vero?
«Gli ingorghi dello spirito, dell’inconscio, come li chiamava Freud, sono grovigli che, se non vengono sbrogliati, portano alla nevrosi e alla schizofrenia. Lui proponeva di curare attraverso la psicanalisi, mentre per noi scrittori la cura viene dalla scrittura. Io sono uscita da certi dolori solo scrivendone. Ma ho bisogno di molto tempo per metabolizzare, comunque di un tempo mio, soggettivo. Per tirare fuori certi dolori in prima persona ci vuole anche una dose di coraggio, o spudoratezza, ma se si vuole andare oltre bisogna parlarne».
Questo vale anche per la tua esperienza in Giappone? La tua infanzia è stata spezzata dall’internamento per due anni in un campo di concentramento a Nagoya. Un’esperienza che hai definito estrema, radicale, crudele. Del resto immaginarti bambina che patisce la fame, costretta a mangiare formiche e serpenti, è qualcosa di inaccettabile.
«Non ho mai dedicato un libro all’esperienza del campo, ne ho accennato in qualche romanzo e ne ho parlato, nelle interviste. Piano piano si sono accumulate riflessioni che ora è tempo che vengano fuori in forma di libro. È già un anno e mezzo che ci sto lavorando, ma non sarà pronto prima di un altro anno. Quelle esperienze sono delle ferite. Adesso si è creata una distanza che mi permette di vedere le cose in maniera più ampia e storicizzata. Ma per tanto tempo ho ricordato solo quello che avevo vissuto io, quando mi sembrava di morire ogni sera. Ora vedo anche tutto quello che c’era intorno a me, l’epoca che stavamo attraversando, e che cos’era la guerra. Le ferite però restano le stesse».
Nei momenti di solitudine ti rifugi anche nei bei ricordi?
«L’infanzia è un ricordo bello della mia vita. L’infanzia prima del campo di concentramento. Questa famiglia unita, originale. I miei genitori antifascisti, giovani, belli ed eccentrici: mio padre, etnologo sempre in giro, e mia madre, Topazia Alliata, donna di grande temperamento e talento artistico che ha scelto di dedicare la sua vita alle figlie. Ero una bambina felice. Ma sono stata anche una donna molto felice. Proprio ieri un amico fotografo con cui abbiamo fatto un viaggio in Africa, insieme ad Alberto (Moravia) e a Pierpaolo (Pasolini), c’era anche la Callas, mi ha mandato le foto di questo viaggio, negli anni 70, e mi sono commossa. Ho collezionato viaggi davvero intensi».
E ora non si può viaggiare più.
«Sì, ma ci sono anche degli aspetti positivi in questa restrizione. Con il risparmio di spostamenti di treni, aerei, e con la chiusura di molti uffici si inquina meno. E migliora il nostro rapporto con il clima. Una certa limitazione negli spostamenti sono certa che rimarrà. Molte cose si faranno online. Di solito in questo periodo io andavo sempre negli Stati Uniti per un paio di mesi, per incontrare gli studenti delle università. Oggi mi invitano a intervenire da remoto. È chiaro che fa comodo a tutti risparmiare sui viaggi e sugli alloggi».
Non ti mancano gli incontri in presenza?
«Sono sempre preferibili, ma in futuro secondo me si potrà fare anche un po’ e un po’. Questo non vale però per la scuola. Ci sono due luoghi che non possono essere trasferiti da remoto: la scuola e il teatro. Hanno bisogno del pubblico presente. E poi non siamo ancora così tecnologici, i sistemi vanno migliorati. Proprio ieri ho fatto un incontro con una scuola che è stato un disastro, sentivo malissimo, i rumori tutti intorno, i ragazzi con la mascherina e non si capiva bene quello che dicevano, sono state due ore faticosissime».
Come li hai visti questi ragazzi?
«Devo dire che, malgrado le difficoltà tecniche, c’era molta attenzione. Non dobbiamo esagerare nel lamentarci, siamo anche tutti un po’ viziati. Io ho sofferto talmente tanto nella mia vita, che ho imparato non solo a sopportare ma a trovare subito dei rimedi, delle alternative. Per un anno e mezzo ci saranno delle limitazioni, va bene, ma nulla è davvero paragonabile a quelle che sono state e sono le reali sofferenze del mondo. Non parlo tanto delle guerre passate, basta spostarci di qualche centinaio di chilometri per capire cosa è la vera sofferenza. Penso all’Africa, alla Croazia, in quei campi profughi dove si cammina a piedi nudi nella neve. I ragazzi del nostro paese sono cresciuti nel benessere, ora soffrono per questa pandemia, ma non sanno cosa sia la vera sofferenza».
Questo virus sembra colpire più quelli che non soffrono la fame.
«Sembra proprio che colpisca soprattutto i paesi sviluppati. Prendiamo l’Africa, il virus si è diffuso nel Sud e nel Nord, dove c’è più benessere. Ma l’Africa centrale che conosco bene, quella veramente povera dove non c’è né luce né acqua, non è stata così colpita. Questo virus ha a che fare con l’inquinamento, e si accanisce contro le zone più industrializzate».
Come ne usciremo?
«Il mondo ne uscirà più consapevole della sua fragilità. Ci eravamo abituati a una sorta di onnipotenza, pensavamo di poter fare tutto, controllare tutto. Andiamo sulla Luna, andiamo su Marte, facciamo questo e quell’altro. È bastato un minuscolo virus a far saltare tutto per aria. E ci ha dato una grande lezione. Non siamo onnipotenti, né i padroni del mondo. Siamo fragili, ma abbiamo il compito di difenderlo».
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