Ragioniamo sulla sconfitta del Referendum Costituzionale e del suo destino nel PD
Pietro Reichlin
Dalla fine del 2016 il Partito Democratico è stato sottoposto a una pesante sconfitta politica e un dibattito lacerante, che è culminato con la fuoruscita di una parte del suo gruppo dirigente. In gran parte queste difficoltà sono il risultato dell’ambizione degli obiettivi proposti da Renzi: la modernizzazione del mercato del lavoro, la riforma della Costituzione e il consolidamento della “vocazione maggioritaria” che è alla base del Manifesto dei Valori del PD fin dal 2008. E’ bene ricordare che, ben prima della segreteria di Renzi, quel documento attribuiva al PD il compito di “affrontare il nodo che sta soffocando il paese: la mancanza di una democrazia forte, in grado di decidere” e, più avanti, affermava “l’esigenza di costruire un bipolarismo nuovo, fondato su chiare alleanze per il governo e non più su coalizioni eterogenee.” Oggi la situazione politica sembra radicalmente cambiata: emergono nostalgie dei vecchi tempi e una rinnovata rissosità all’interno della Sinistra. La domanda posta agli italiani il 4 dicembre del 2016 era ben più ampia della riforma costituzionale. E’ la stessa domanda che, in forme diverse, è stata posta ai cittadini del Sud Europa, da alcuni anni alle prese con elezioni inconcludenti e con la crisi dei partiti tradizionali. La formulerei in questo modo: “credete sia possibile uscire da un decennio di grave crisi economica con un programma di riforme ambizioso, che riguarda le istituzioni, l’economia, il mercato del lavoro, ma nell’ambito delle regole europee e senza uscire dall’Euro e dichiarare il default?”. Al netto di tutti i suoi difetti, la proposta di riforma costituzionale ha rappresentato il simbolo di un progetto di partito che si propone come agente di cambiamento più che come collettore d’istanze contraddittorie e luogo di compromesso. Il fatto che la maggioranza degli italiani abbia rifiutato questa opportunità impone ben più di una semplice riflessione, ma una classe dirigente responsabile non può gettare la spugna. E’ naturale che Salvini, Grillo e Berlusconi facciano a gara per intestarsi la vittoria. Tuttavia, se guardiamo a ciò che è avvenuto in Spagna e in Grecia, ma anche a quel non trascurabile quaranta percento di SI espresso dagli italiani, compreso il fatto che molti hanno votato NO con diverse motivazioni, io credo che la gran parte dei cittadini del Sud Europa non sia disposta a seguire derive populiste e avventure demagogiche. Questo fronte eterogeneo che si è opposto alla riforma non ha un leader, né un programma per uscire dalla crisi, né riesce ad andare oltre un anti-europeismo puramente propagandistico. D’altra parte, le vestali della “costituzione più bella del mondo” potranno gioire solo perché sono mosche cocchiere comodamente “sedute” sulle spalle di un movimento d’opinione che aveva il solo obiettivo di togliere al PD la guida del governo. Per ora, il progetto di una sinistra a vocazione maggioritaria è fortemente compromesso, perché esso poggia sulla riforma delle istituzioni e il rafforzamento del sistema maggioritario. Il PD non è immune dal malessere che colpisce la Sinistra Riformista in molti altri paesi del Sud Europa. Se Macròn può ora governare la Francia e ambire a dare il suo contributo decisivo alla rigenerazione del progetto europeo, deve dire grazie al sistema semi-presidenziale e al doppio turno. Ma neanche la Francia è stata risparmiata dal malessere che colpisce oggi la sinistra italiana, e la ragione è proprio la caratteristica della crisi che stiamo attraversando e le misure che sono necessarie per superarla. Contrariamente alla vulgata propinata dalla destra populista e da una sinistra irresponsabile, la crisi economica italiana non deriva dalla rigidità delle regole europee o dalla moneta unica, ma dalla sclerosi del nostro sistema istituzionale e dei mercati, dalla bassa dinamica della produttività, dall’eccesso di pressione fiscale, dalle distorsioni del sistema pubblico, incapace di indirizzare le ingenti risorse drenate dalle tasche degli italiani verso investimenti produttivi o verso le fasce deboli del paese (poveri e disoccupati). Purtroppo non esistono scappatoie: un programma di governo che affronti questi nodi non può facilmente attirare il consenso di tutti gli italiani, ma neppure può essere ignorato da qualunque schieramento politico che non voglia limitarsi alla propaganda o al piccolo cabotaggio. Meno che mai può essere ignorato da un Centro-Sinistra che aspiri a guidare il paese. Il PD di Renzi ha scommesso sulla possibilità che il Centro-Sinistra fosse in grado di guidare in autonomia il cambiamento con un programma di legislatura ambizioso, ma questo disegno si arresta ora di fronte alla sconfitta referendaria. Si conferma per l’ennesima volta (com’è già accaduto con Amato, Dini, Ciampi e Monti) che il sistema politico italiano è incapace di guardare oltre il breve periodo e, nella migliore delle ipotesi, può affrontare le emergenze con governi “a-politici”, sostenuti da schieramenti eterogenei, in cui i partiti sono solo comprimari. E’ un modello perverso, in cui quegli stessi partiti che si nascondono quando è il momento di tappare le falle con decisioni scomode, sono pronti a lucrare (con furbizia) sull’insoddisfazione dell’elettorato, appena ciò è reso possibile dall’allentamento dei vincoli, arrivando poi al potere con maggioranze risicate e coalizioni instabili. La maggioranza ha sempre ragione, anche quando si pronuncia contro una riforma che in molti abbiamo considerato opportuna e razionale. Ma la democrazia è un sistema complicato, in cui gli elettori esprimono opzioni non sempre coerenti. Nel NO alla riforma costituzionale c’è certamente l’insoddisfazione per una ripresa economica ancora troppo timida, la protesta contro il governo e le classi dirigenti, ma c’è anche, direi soprattutto, la paura del nuovo. C’è l’Italia delle “piccole patrie” che temono di perdere i diritti d’interdizione, la paura di consegnare troppo potere a un solo partito, la resistenza degli organismi intermedi che siedono ai mille tavoli della concertazione. Il fatto che tutto ciò sia piombo sulle ali della ripresa è passato in secondo piano. Questo istinto di conservazione ha determinato un risultato che, verosimilmente, consegna il nostro paese a un decennio di governi tecnici e di coalizione. Saranno necessariamente governi deboli, perché incapaci di sollecitare il consenso popolare che serve a riformare il paese e che alimenta quei movimenti, come i 5 Stelle o la Lega di Salvini, che non sono in grado di proporre un’agenda credibile al paese, ma sfruttano abilmente l’insoddisfazione degli elettori. Se è vero che ciò costituisce una lezione per il gruppo dirigente del PD, è anche vero che la rinuncia a una strategia di piena responsabilità per governare il paese con un piano di riforme di lungo periodo, per quanto difficile, non ha alternative.
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