l’intervista
Sergio Staino
Eugenio Scalfari e Sergio Staino hanno lavorato insieme per poco, ma si sono osservati sempre. «Se lui non avesse rivitalizzato la satira portandola su un grande quotidiano, forse non farei questo lavoro. Né io né decine di altri ci saremmo stati», racconta l’illustratore. Nella sua vignetta del 15 luglio, quando gli viene data la notizia della morte di Scalfari, Bobo dice: «È andato a scrivere il suo editoriale: io e Dio».
Scalfari si sentiva Dio?
«Ma no».
Un suo pari?
«Sì. Forse sì».
Lo era?
«Ha creato un sacco di cose. E bisognerebbe fargli un monumento. Primo, perché la sua presenza ha fatto crescere politicamente la sinistra in modo ineguagliabile. Secondo, perché è stato lui a riportare la satira in primo piano, su un quotidiano. Dopo la fioritura nel secondo dopoguerra, infatti, negli anni Settanta la satira decadde: lui le restituì vigore, legandola al racconto politico quotidiano. Scelse Forattini: gli affidò Satyricon, l’inserto satirico di Repubblica, che uscì la prima volta nel febbraio del ’79. E senza quella scelta io non avrei fatto questo lavoro, o lo avrei fatto male. Quando cominciai a disegnare per Nuova Unità, rivista comunista che all’epoca si definiva marxista-leninista, ebbi sempre in mente quelle pagine di Repubblica».
Una scelta fuori linea, peraltro, Forattini.
«In molti non la condivisero: loro erano di sinistra sinistra, lui lo era assai meno. Però funzionò: le vignette erano spassose, ben scritte, molto immediate. Scalfari ne era gelosissimo».
Era un uomo del sud.
«Sì. Ed era un capitalista. Con me, almeno, lo è stato».
Quando?
«L’Unità mi chiese di dirigere un supplemento satirico, tutto da inventare. Lo feci, si chiamava Tango. Chiamai Ellekappa, Vincino, un sacco di altri che pure lavoravano per Satyricon. Volevo fare una satira figlia del dubbio e non del fondamentalismo, quindi non chiamai Vauro, per quanto bravo. Quando uscì, su Panorama, un pezzo lungo sei pagine che raccontava il progetto (era l’inverno del 1986), Scalfari chiamò il responsabile di Satyricon, Massimo Bucchi, un uomo delicatissimo e delizioso, e gli disse di avvisare i suoi disegnatori che chiunque avesse lavorato per Tango, avrebbe chiuso con Repubblica. Fu spietato».
Lo avrebbe fatto un qualunque altro direttore, temo.
«Lui voleva sostituire l’Unità con la Repubblica. E non era il solo. Quando Achille Occhetto fu nominato segretario del Pci, levò di mezzo Veltroni e D’Alema, mandando uno a dirigere il partito alla Camera e l’altro, che la prese malissimo, all’Unità. Alla fine della prima riunione di redazione del giornale con D’Alema direttore, lui disse: “Prima o poi dovremo capire se al partito serva davvero questo giornale, visto che abbiamo già Repubblica”. Scalfari aveva questa enorme ambizione: dare la linea alla sinistra».
Gli è riuscito, almeno per un periodo?
«No. Dopo l’89, il Pci si divise, frammentò e disperse in così tante anime e correnti che guidarlo, dargli un’impronta unica e chiara, era impossibile. E questa è stata una sconfitta che Scalfari ha condiviso con l’Unità: non sono, non siamo riusciti a orientare l’opinione pubblica in modo convincente, unitario e duraturo verso il progressismo».
Perché?
«Perché dopo il ’92, con Mani Pulite, è nato il giustizialismo, che ha posto le basi per il populismo. Senza considerare Craxi. La deriva politica italiana è cominciata lì».
Oggi com’è?
«Oggi abbiamo smesso di sognare».
Cosa fece quando chiuse Tango?
«Accettai un’offerta che mi cambiò la vita: andai a lavorare per Tv Sorrisi&Canzoni. Desideravo misurarmi con un pubblico popolare, ero stanco di intellettuali. E andò benissimo. Ricordo ancora una bambina che, in un’edicola di un piccolo paesino del sud, mi chiese di farle vedere Bobo. Poi Berlusconi diventò editore di Sorrisi e io mi trovai troppo in imbarazzo per continuare, quindi andai via. Fu allora che Scalfari mi chiamò per fare un inserto per Repubblica sulla televisione. E naturalmente accettai».
Com’era lavorare con lui?
«Difficile. Bellissimo. Non gli piaceva quasi mai quello che gli portavo e credo fosse perché in quelle pagine andava fatta una satira televisiva, mentre lui si aspettava sempre qualcosa di politico.
Aveva senso dell’umorismo?
«Poco. Ma compensava in intelligenza e fiuto. È stato tra i più grandi innovatori che abbia mai conosciuto».
Parlaste mai di quella volta che si comportò da capitalista con lei?
«Si figuri. Però quando Zut, diretto da Vincino, mio grande amico, fece un servizio vomitevole su di lui e una sua presunta amante, io lo difesi pubblicamente, ricordando ai compagni che un uomo laico ha il diritto di fare ciò che crede nella sua vita privata».
Che sinistra sognava Scalfari?
«Quella che sogniamo tutti: una comunità di persone buone, generose e solidali, unite da un forte senso di fraternità».
Simonetta Sciandivasci.
La Stampa, 17 luglio 2022
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