Riformismo. Una categoria che alcuni considerano quasi inafferrabile, data la molteplicità di orientamenti in materia, tra loro assai diversi. O, per meglio dire, una parola-ombrello, sotto la quale possono convivere e stare insieme «establishment e società, partiti e movimenti, testimoni individuali e la comunità di un giornale», come ha scritto Marco Damilano nel suo editoriale della scorsa settimana. Così, per fare un esempio, riformismo è, senza alcun dubbio, la campagna lanciata da L’Espresso per il No al referendum sul taglio dei parlamentari in assenza di un idoneo sistema di contrappesi e garanzie (tra cui la legge elettorale). Così come, per converso, non è riformismo la politica dei sussidi e dei bonus priva di un disegno strategico di sviluppo. E non lo sono una policy della distribuzione a pioggia delle risorse accompagnata da un’ideologia della decrescita in-felice (specie nella congiuntura storica attuale), né la tentazione del neostatalismo (che non fa per niente rima con neokeynesismo).
Il «nocciolo duro» della teoria e della prassi del riformismo progressista si colloca nel territorio tra il liberalsocialismo e il socialismo liberale. E, dunque, dalle parti della concezione di una sinistra liberale che si ritrova molto, ma proprio molto, distante (se non direttamente ai suoi antipodi) da quanto alcuni interventi e, soprattutto, la pratica di una certa politique politicienne stanno insistentemente sostenendo in questo scorcio di estate dell’«era Covid». Vale a dire l’«alleanza organica», o «alleanza strategica» che dir si voglia, fra Movimento 5 Stelle e Partito democratico, estendibile a LeU e pronta ad annettersi ulteriori satelliti gravitanti nella sua orbita. Una visione – largamente presente nel gruppo dirigente dei democratici di tradizione Ds (ma non solo), e condivisa da svariati maggiorenti pentastellati (a partire da Beppe Grillo e Roberto Fico) – che punta a riformulare l’offerta partitica, dando vita a una cesura che dovrebbe inaugurare la già vaticinata Terza Repubblica. Un cambio di scenario dal quale, in prospettiva, non va affatto esclusa una nuova «fusione a freddo» di formazioni politiche, in questo caso l’intero Pd con la quota prevalente e il “pacchetto di maggioranza” del partito-movimento grillino. Il progetto dell’embrassons-nous tra grillini e dem prende le mosse dalla convinzione (per vari versi, un dato di fatto) che il populismo costituisca un elemento genetico del sistema politico italiano post Tangentopoli. A muoverlo è la tesi che la cultura politica di fondo dell’Italia degli anni Dieci e Venti del Duemila risulti maggioritariamente populista, e debba quindi essere inglobata facendone il tratto integrante di un nuovo polo unitario. Un (confuso) «qualcosa di sinistra», per citare una celebre frase di Nanni Moretti. Ovvero un’etichetta (ancora da brandizzare) e un contenitore che dovrebbe genericamente e vagamente andare ad occupare quello che era lo spazio del centrosinistra all’indomani del rimescolamento e della caduta delle demarcazioni tra sinistra e destra. Ma se il tema dei deficit e del mancato adattamento dei progressisti alla «condizione postmoderna» c’è tutto, naturalmente, la soluzione è realpolitik allo stato puro – e, non per nulla, il punto di riferimento e l’anello di congiunzione viene identificato nella figura del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con il «contismo» da intendersi alla stregua di un cocktail a elevata gradazione di consenso (sospinto anche dalla situazione e dai poteri emergenziali), dove la nota dominante è, chiaramente, quella del governismo (che va ben oltre la nozione di governabilità), spruzzata con «due parti» almeno di neotrasformismo. A cui, del resto, si rivela collegata la natura profondamente camaleontica del Movimento 5 Stelle, che al dna populista unisce infatti l’impulso all’adattabilità e all’essere cangiante in relazione alle circostanze. Una conseguenza diretta della sua dimensione post-ideologica che dall’antipolitica l’ha condotto, appunto, al governismo come stella polare e all’obiettivo di proporsi quale ago della bilancia tra sinistra e destra (ambizione ovviamente rafforzata da una normativa elettorale di tipo proporzionale), oltre che ad archiviare quella istanza di rivendicazione della trasparenza nei meccanismi decisionali della vita pubblica che gli aveva garantito parecchi voti.
Il genere di realpolitik che alimenta l’idea delle convergenze permanenti tra M5S e Pd coincide con una versione nostrana di «Tina» (l’acronimo amato da Margaret Thatcher, nel quale la lady di ferro condensava il diktat politico «There Is No Alternative»). Ed è quindi, in tutta evidenza, l’antitesi del riformismo che vuole cambiare, migliorandolo, lo stato delle cose presente; e per farlo deve (o dovrebbe) ricorrere a un pensiero innovativo e pratiche sperimentali che forzano i limiti dell’esistente. E non a politiche che lo fotografano sic et simpliciter, dicendo per l’appunto che tanto «non esistono alternative». Nella teorizzazione dello scioglimento dell’anima riformista all’interno di un nuovo blocco politico-sociale di fatto a egemonia culturale – e sottoculturale – populista c’è anche, mutatis mutandis, un riflesso condizionato di una certa sinistra. Un atteggiamento da precettore-istitutore – con una punta di neomachiavellismo e mazzarinismo – che è sopravvissuto, mentre si è via via dismessa nel tempo ogni vocazione pedagogico-educativa della politica. Tra nuovi massimalismi (specie verbali), il convincimento granitico (ripetutamente smentito dai fatti) di saper «romanizzare i barbari», la reiterata inclinazione al tatticismo, a rimanere inevasa è la questione del cantiere di un’autorevole e forte (e, quindi, popolare) formazione di sinistra democratica e riformista che non abbia paura delle proprie idee (da esplicitare in maniera coerente, e senza semplificazioni populiste), né bisogno di «papi stranieri». E che si riveli dotata di un sistema valoriale e di una narrazione comunicativa all’altezza di questo periodo, ispirati da una visione che declini insieme giustizia sociale, diritti individuali e pari opportunità, sviluppo economico di qualità e modernizzazione sostenibile. E qui ci sono i nodi della forma-partito (come si sarebbe detto una volta) e della riattivazione e rilegittimazione dei corpi sociali intermedi, messi violentemente in crisi da quei processi di personalizzazione e disintermediazione su cui si fondano tutti – dicesi tutti – i populismi. Una disarticolazione e un indebolimento della società civile organizzata a cui contribuisce anche il dilagare dell’idea – deliberatamente coltivata tra Chigi e una serie di altri palazzi – «dell’identificazione tra governo e opinione pubblica», come ha evidenziato Massimo Cacciari.
Il riformismo necessita di una classe dirigente e di un’élite politica assai creative e coraggiose, quando invece, come notava su queste colonne Marco Follini poche settimane fa, «è in atto una sorta di involontaria omologazione del ceto politico di casa nostra». Un processo di somiglianza e di assimilazione (forzate) di cui si intravedono le ombre anche nel concept di questa alleanza strutturale grillodem che, per supposta similitudine e filogenesi, dovrebbe fare scaturire una nuova formazione politica unitaria. Omologazione, precisamente, mentre il riformista coltiva il pluralismo e le differenze. E, dunque, no: il riformismo – al netto degli annunci – sta da un’altra parte rispetto alla coalizione governista giallorosa. Dove, difatti, ogni issue e tematica divengono oggetto di negoziazione e trattazione, snaturando e rendendo precaria a tempo indefinito qualsivoglia piattaforma politica di tipo riformista.
Massimiliano Panarari, l’Espresso
12 Comments
Caro Sergio,
su Cuperlo mi sono già espresso giorni fa; su Panarari vorrei non farlo, visto che il suo insopportabile pseudo-italiano è l’antitesi della chiarezza e della lucidità espositiva. Che fatica leggere e cercare di capire…!
Questi anatomopatologi, sotto la luce fredda di un obitorio (così vedono il mondo, steso sul tavolo settorio), pretendono di sezionare e analizzare la politica senza rendersi conto che la politica, come il mondo reale, è dinamica, che il pensiero e quindi l’azione devono essere capaci di seguire il corso degli eventi per cercare di farli evolvere nel modo migliore per i cittadini tutti, e non per i pensosi professori, preoccupati di piacere ad altri quattro professori, vero o presunti, che come loro discettano sulle riviste, col sopracciglio arcuato e le narici ben serrate per evitare il lezzo che si alza dal mondo reale.
Caro Sergio, tu sai da che parte sto: ho appoggiato ed appoggio ancora l’azione politica di Matteo Renzi ed ho quindi seguito tutte le evoluzioni della sua azione politica. È lui che ha avviato questo complicato processo evolutivo della situazione politica per i motivi ben noti. Abbiamo mandato giù altro che rospi…!
Ma per me il riformismo è quella cosa che cambia in meglio il mondo, ma per davvero, non un’astratta categoria dello spirito, intorno alla quale costruire castelli di parole. Un po’ per volta, ma lo deve cambiare costantemente.
Ho scritto ultimamente che c’è un ago e c’è una cruna e da lì bisogna passare, cercando di non farsi male e non fare male ad un Paese già troppo martoriato da visioni troppo miopi della politica.
Cerchiamo di aiutare questo processo piuttosto che impancarci a giudici. C’è da gestire due anni e mezzo molto complicati, i più complicati della storia della Repubblica.
Il personale politico è quello che è: abbiamo qualche fuoriclasse, molti buoni professionisti, ma anche una pletora di improbabili inqualificabili, che però stanno lì per mandato popolare e non per un colpo di Stato. Rifletta chi, anche tra di noi, ce li ha mandati, con leggerezza ed incoscienza.
Diceva il nostro indimenticato mentore: abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza per cambiare il mondo.
Quella volta lì non andò benissimo… cerchiamo di fare meglio stavolta!
Ernesto Trotta
Abbiamo la classe politica che abbiamo, mi dici e questo è proprio il punto. Le scelte che stiamo facendo con tanta nonchalance sono fatte proprio dalla classe politica che abbiamo ed è per questo che le scelte che fanno possono essere dannose o indolori ma difficilmente potranno indirizzarci verso le prospettive umane e sociali che sogniamo. Allora il punto è quello di cambiare questa classe politica, formarne una nuova che sappia almeno che cosa vuol dire “politica”, che cosa sia e come la si mette in pratica, ormai solo alcuni vecchi lo sanno. Non mi interessa più questo governo, mi interessa una scuola, una serie di persone serie, colte e sagge che si mettono in cattedra e raccontano ai giovani e i giovani che studiano, ovviamente. Credo che solo un’azione di questo tipo potrà creare delle prospettive di salvataggio ma appena qualcuno approfondisce un’analisi ti scatta il meccanismo anti prof e lo distruggi. Ma non è quello che aveva tentato anche Renzi con Recalcati e poi con il seminario a Barga? A lui non viene la smorfia saccente? Da quale dio è baciato?
Sergio
Dio non bacia nessuno e temo che dovremo vedercela da soli.
Vedi Sergio, il difficile è che dobbiamo fare tutto insieme.
Progettare, governare, rimettere in moto il Paese, dare fiducia alla gente, formare e rinnovare la classe dirigente.
A patto però di non bruciarla non appena mette la testa fuori dal guscio, come è già avvenuto spesso e volentieri.
Il 26 prossimo a Castrocaro parte l’edizione 2020 della scuola di formazione politica. Dirai tu: è renziana. Vero. Ma anche quella di Recalcati è morta perché era troppo renziana.
Però qualcuno che pensa alla formazione dei giovani almeno c’è. E non ha la smorfia saccente, su questo potrai convenire.
Dove sono gli altri?
Il PD, quando è nato, aveva tutte le premesse giuste. Walter le aveva elencate puntualmente.
Chi e come l’ha ridotto com’è oggi?
E meno male che una classe dirigente preparata ancora ce l’ha.
Smettiamola di piangerci addosso. Il Paese o lo aggiustiamo noi o lo distrugge Salvini con la Meloni. Che facciamo?
Prepariamo il futuro fottendocene del presente? Non mi pare accettabile. O no?
Ho letto per ben due volte ed attentamente l’articolo di Massimiliano Panarari e sinceramente l’unica cosa utile, da me ricavata, è la seguente: ho capito definitivamente e chiaramente la causa dell’inesorabile estinzione degli ancora sopravvissuti e sparuti giornali. Non sono triste, anzi sono speranzoso. Credo fermamente nella nascita di giornalisti ed in generale di comunicatori che non facciano a gara per essere giudicati dai “professoroni”i migliori, ma che aiutino il popolo a farsi un’idea su come organizzare e dirigere la nostra attuale società.
Io vorrei leggere un giornale che non mi dica l’idea di Marco Damilano o da “Torino”, ma che mi aiuti a capire le varie filosofie in campo, senza propagandare la propria distruggendo le altre. Vorrei che i mezzi di comunicazione non fossero utilizzate dai partiti per fare propaganda, ma contribuissero, in modo determinante è chiaro, alla formazione della classe politica nuova. Per fare questo bisogna, secondo me, smetterla di predicare il proprio algoritmo, ma confrontare quest’ultimo con gli altri modi di ragionare. In altre parole dobbiamo abituare i nostri giovane al compromesso dell’idee per riformare il mondo: continuare a predicare la “rivoluzione”in modo diretto o indiretto pensando che solo in un modo si possa migliorare il mondo è semplicemente, illusorio,sbagliato e fuorviante. Per fortuna mia ci sono tante persone delle quali condivido la strada della vita come Ernesto Trotta, che considero un amico (per me l’amicizia scatta quando si condivide la filosofia di vita e considero un amico anche il grande Giacomo Leopardi, non mio contemporaneo, ma con un algoritmo di vita che io condivi e pratico ). Io non sono dispiaciuto di come è andato il mio mondo, visto che sono alla fine del mio percorso: ho creduto e tifato per la rivoluzione comunista e dopo ho constatato che l’unico sistema per migliorare il nostro mondo è il compromesso delle idee. Caro Sergio io credo ancora nella giustizia sociale, nella solidarietà, nell’uguaglianza dei diritti degli essere umani, ma non penso che ci voglia un’anima per realizzarli, come tu sostieni. E’ necessario invece Costanza, capacità d’ascolto delle idee altrui e convinzione che la mia idea la devo realizzare a piccoli passi insieme con gli altri. L’aiuto di Dio o del caso se c’è siamo pure fortunati. Naturalmente quello che ho scritto è opinabile e quindi sbagliato o giusto, condivisibili in parte o tutto, ma comunque sono contento per averlo potuto scrivere liberamente e senza che qualcuno mi abbia corretto il testo con la matita rossa e blu. Buona giornata a tutti e viva la libertà, la democrazia e la solidarietà. Antonio De Matteo Milano
Il Washington Post ha pubblicato una serie di sondaggi su Trump-Pence vs. Biden-Harris. Uno ha attirato la mia attenzione tra gli altri: 4 su 5 elettori votano Trump perché piace loro Trump; 6 su 10 votano Biden perché non piace loro Trump. Ecco un problema, non l´ultimo, anzi forse il primo: quanti italiani votano PD per non votare Salvini? E quanti votano PD perché piace loro il PD? Per piacere, il Pd dovrebbe darsi una mossa, non parlare solo di alleanze,ma proporre un´alleanza per qualcosa, non contro qualcuno. E vi sono compromessi e compromessi; se si vota per il taglio dei parlamentari subordinandolo, giustamente, a una nuova legge elettorale, poi non ci si rimangia tutto perché se no Salvini…Si ha volte l´impressione che il senso di responsabilità sconfini e sfumi nell´opportunismo.
Una autodifesa preventiva: lo confesso, sono un professore (universitario) e leggo l´inglese; il Washington Post me lo ha mandato un collega (professore) di Yale, che ha sostenuto Obama e ora Biden, democratico radicale. E meno male che negli USA ci sono acnora i professori…
Con molta allegria mi associo allo scritto di Guido Clemente. Da piccolo degli orribili professori mi hanno buttato fuori dalla scuola media perché ero “figlio di contadini”. Li ho odiati come non ho mai odiato nessuno in vita mia, naturalmente nessuno con cui abbia avuto un rapporto diretto. Eppure, ciononostante, sono stati altri professori, socialisti chiamati da Giacomo Devoto a dare qualche nozione di lingua e di Costituzione della Repubblica agli apprendisti artigiani di cui io facevo parte lavorando, dopo l’espulsione da scuola, in una fabbrica. Forse è per questo che non riesco a credere a nessuna etichetta, tanto meno a quella di “professore”. Siamo persone, solo persone: con un’anima generosa e altruista alcuni e senza un’anima e con tanto egoismo altri. Con anima intendo una serie di valori trasmessi dalla parte migliore della società: altruismo, solidarietà, odio verso le ingiustizie, voglia di lottare e rischiare per migliorare questa terra. Per il resto sono ateo, purtroppo convinto.
Sergio
Molti di noi hanno avuto la vita segnata da professori (d’altronde non è il loro ruolo primario?), spesso in modo positivo, talvolta negativo: la formazione alla vita passa attraverso canali a volte stretti, tortuosi, disagevoli.
Personalmente devo molto ad alcuni professori che mi hanno fornito gran parte degli strumenti di interpretazione della realtà.
Un po’ diverso è il caso del modo “professorale”, spesso abusato, soprattutto quando si svolge al di fuori dei processi formativi.
La matita rossa e blu di cui si lamenta Antonio a volte è davvero fastidiosa, se usata in contesti impropri.
Non è certo il caso del professor Clemente, le cui osservazioni sono sempre piacevoli e degne della massima attenzione.
L’anima, dice Sergio, … i valori. Non se ne può fare a meno, mai.
Ma non posso non aggiungere che l’idealismo non mi scalda più il cuore.
Me lo scalda invece un indice di disoccupazione che scende, un PIL (o qualsiasi cosa possa servire a misurare il benessere) che sale, una scuola ricostruita, una scoperta scientifica, un museo che riapre o un affresco pompeiano ben restaurato.
Per questo mi tormento con la cronaca, con le piccolezze spesso squallide del quotidiano, con le formule politiche ed anche con i possibili rimpasti, pensa un po’!
Ho un’età nella quale ho urgenza di vedere risultati e soffro nel constatare come si perda tempo, invece di aggredire al cuore i problemi e avviarli a soluzione. Constatare come avremmo tutti gli strumenti necessari, tutte le premesse, ma come non riusciamo ad usarli, paralizzati dal timori di urtare qualcuno, sconvolgere qualche equilibrio, di smuovere qualche rendita o privilegio. Dobbiamo trovare la forza ed il coraggio di fare: questo è il riformismo vero.
La matita rossa e blu, secondo me non corregge gli errori, ma li evidenzia mettendo “alla berlina” chi li ha commessi. I veri professori sono quelli che insegnano a scrivere ed a leggere senza discriminare nessuno. il mio grande professore di lettere, Logorino Crespi, delle medie superieri, anno scolastico 1967/1968, In un mio tema rilevo’ una e verbo senza accento, ma, al posto di usare la matita rossa e blu rifilandomi un’insufficienza grave, mi chiese se era giusto scrivere quella e così e poi mi disse di usare un metodo molto semplice per non sbagliare: volgere al plurale la frase e se la vocale sparisce la stessa va accettata. Mi diete un algoritmo che ancora adesso uso, visto che spesso usando il “microfonino”, gli accenti spariscono. Sono convinto caro professor Clemente Guido che lei è collega del mio grande professore e non appartiene a coloro che usano la matita da me odiata. I maestri-e, i professori/ resse sono quelli che aiutano a non sbagliare (come certamente agisce lei prof Clemente) senza discriminare,ghettizzando,chi sbaglia. Poi caro Professore lei mi insegna che il compromesso delle idee non salva la propria ma ne realizza soltanto un pezzo, aspettando con speranza una fase successiva per realizzare il resto. Quindi io voto il PD, che ha scritto il suo programma elettorale, non perché è contro Salvini, ma per realizzare la mia idea. So a priori che i miei rappresentanti dovranno fare i compromessi con le forze affini di governo e che quindi potrò realizzare una piccola parte del mio pensiero, ma mi va bene: questa è la democrazia nella quale io credo e spero. Tra quello che propone Salvini, come la flat tax, il respingimento senza se e senza ma degli emigranti, l’uscita dall’Unione europea, e la proposta del partito democratico di una tassazione progressiva, un’accoglienza degli emigranti tramite corridori umanitari legali e concordati, il rafforzamento dei poteri dell’Unione degli stati europei a scapito della piena sovranità di quest’ultimi;semplicemente sceglierò di votare PD. Sbaglio? Può essere, ma grazie alla nostra democrazia rappresentativa tutti gli sbagli si possono correggere in futuro, alla faccia della matita rossa e blu. Un caro saluto a tutti e soprattutto ad Ernesta col quale convengo su quasi tutta la sua filosofia di vita , ma non sul fatto che Renzi abbia abbandonato il PD. Antonio De Matteo Milano
Correzione: Scusa Ernesto, ma la nuova tecnologia fa parecchi scherzi e basta una distrazione per metterti in difficoltà cambiando, per fortuna solo sulla scrittura, il sesso alle persone. Mi scuso ancora con te ed i lettori del blog, sperando che nessuno usi, nei miei confronti, la matita rossa e blu e che io trovi un sistema migliore per controllare il testo scritto direttamente sotto dettatura. Buona serata a tutti Antonio De Matteo Milano
Ohibò, che anche a sinistra “professore” sia diventato un’offesa molto dice dei tempi e delle pulsioni populiste che serpeggiano. Ecco, il riformismo sta dalla parte opposta.
Un caro saluto a Sergio, con gratitudine per avere avuto la bontà di ripubblicare il mio articolo. Un caro saluto al prof. Clemente che difende la dignità del “professare” da professori. E un saluto anche alle persone che esprimono giudizi così perentori nei miei confronti (e sulla crisi del giornalismo), e che non ho avuto il piacere di conoscere. Ma magari la comune sensibilità nei confronti del riformismo serio ci darà l’occasione di incontrarci e di superare qualche bizzarro pre-giudizio:-)
Con un augurio di buona serata
Massimiliano Panarari
Ascoltare le idee altrui è difficile soprattutto per chi è abituato a propagandare le proprie ad ogni costo. Io non vorrei essere fra quest’ultimi, ma mi corre l’oblico di insistere, nonostante il tempo trascorso, nel seguente senso. La migliore caratteristica del genere umano è quella di sapere ascoltare prima di parlare o peggio ancora di scrivere ed i giornalisti in generale in questo difettano assai. Il sottoscritto, si ritiene politicamente appartenente alla filosofia che cerca di usare il pronome noi a scapito dell’io, quindi di sinistra, secondo me. Pertanto preciso,ulteriormente per il gentile giornalista Massimiliano Panarari, qui di seguito quanto già scritto, cercando di spiegarmi meglio . Per quanto mi riguarda i professori/ressa devono aiutare gli umani ad imparare e non a sentirsi somari.
Inoltre sono sicuro che il compianto professor Guido Clemente, mi darebbe ragione su quanto su scritto. Ricordo infine che nel 1968 i giovani/e, di sinistra,ed io ero tra quelli, iniziarono la loro contestazione proprio avversando i “baroni universitari“ intesi come classici professori dell’epoca.
Forse quei “ baroni” sono diventati giornalisti? Io spero proprio di no ed invito il giornalista dell’espresso sopra citato a frequentare di più il blog di Sergio Staino: potrebbe trovare idee nuove e sicuramente si divertirebbe guardando gratuitamente le vignette del grande Sergio.
Grazie per l’attenzione e buon inizio settimana a chi legge. Antonio De Matteo Milano
Giusto due precisazioni, per dovere di cronaca, gentile sig. De Matteo: 1. adoro le vignette del grande Sergio (e mi capita di apprezzarle sui giornali oltre che sul blog); 2. non sono un giornalista de L’Espresso (ma mi onoro, da professore, di esserne un collaboratore).
Non penso che lei faccia propaganda, quindi eviti di attribuire l’intenzione ad altri: abbiamo idee differenti, e nessuno deve convincere l’altro (almeno questo è uno dei fondamenti del riformismo).
Buon inizio di settimana e un saluto cordiale
Massimiliano Panarari