Bernardo Valli
Si ritrova il passo del grande inviato nelle considerazioni che Bernardo Valli, storica firma di Repubblica, accetta di condividere nel corso della nostra conversazione sulla guerra in Ucraina. «Una guerra vecchio stampo», dice, che forse anche per questo consente l’emersione di ricordi che sono piccoli gioielli: «Non sono in molti a sapere che nel Donbass, durante la seconda guerra mondiale, furono tantissimi gli italiani che rimasero fra i prigionieri», né che tra le caratteristiche della leadership ucraina «si ritrova la forza di quegli ebrei che sfuggirono ai nazisti, poi ai comunisti, e persino agli stessi avversari interni che ne volevano l’eliminazione, una cosa che sa di rivincita, ma anche di compensazione».
Ci troviamo di fronte a una guerra di attrito, con grande impiego di uomini e mezzi. Bernardo Valli, come si esce da una guerra così?
«Prima di tutto bisognerebbe capire come ci si è entrati, in questa guerra. La fila di carrarmati che nelle fasi iniziali premeva alle porte di Kiev riassume la situazione in modo plastico: i russi dovevano occupare Kiev e compiere così un gesto decisivo, invece quella colonna si è dispersa, la guerra si è frantumata, ed è chiaro che da allora c’è stato un cambio di strategia, da parte russa, sia sugli obiettivi che sulle conseguenze. Il problema è che né gli uni né gli altri sono ancora molto chiari».
Quali sono?
«Innanzitutto: la Russia vuole occupare tutta l’Ucraina o mantenere quel 20 per cento di popolazione nel Donbass? La mia impressione è che dopo quello smacco iniziale, i militari – con cui Putin è legato a doppio filo da tempi molto remoti – siano entrati in confusione, e per un verso non abbiano perdonato a Putin quell’invasione generalizzata, che aveva il fine di annettere l’Ucraina con un colpo di mano. E poi non sono stati in grado di gestire quella diversa Ucraina che si sono trovati di fronte: gli schemi usati fino a quel momento per interpretare gli stratificati rapporti complessi tra i due Paesi non funzionavano più. È evidente che il governo di Kiev non può essere disposto ad accettare una mutilazione, né può esserlo l’Occidente, dopo un simile dispiego di mezzi».
Quando Putin agita lo spettro dell’atomica c’è da avere paura o si tratta di un riflesso da guerra fredda?
«Soprattutto è un segno di irresponsabilità politica seria, perché l’impiego dell’atomica, Putin lo sa benissimo, implica una risposta. Questa cosa però dice molto sul personaggio Putin, un uomo che è cresciuto – da agente del Kgb nella Germania orientale fino a presidente della Federazione Russa – grazie all’aiuto dei militari, un aiuto che costituisce un’ipoteca sulla sua intera azione politica. Se i militari oggi siano soddisfatti di lui è un punto interrogativo. Come del resto lo è anche per Zelensky, visti gli ultimi licenziamenti ai vertici di Kiev… »
La diplomazia è spaccata tra coloro che sostengono il dialogo con Putin e chi ritiene inutile qualsiasi colloquio. Che ne pensa?
«Putin si è rivelato un personaggio molto inaffidabile. Il problema è che resta un personaggio chiave, sempre che non sia completamente sotto il controllo di un gruppo militare. Quando ci si interroga sul dialogo con Putin non bisogna dimenticare la relazione che la Russia intrattiene con la Cina, che certo non è più quella che ho conosciuto io».
Cina e Russia sembrano allineate nel contestare il sistema di valori delle democrazie occidentali. Che tipo di alleanza è la loro?
«Mi è capitato di seguire da vicino la relazione tra Russia e Cina nella guerra del Vietnam, quando erano quasi sul punto di interrompere i rapporti. Poi dopo l’89 si è strutturato un rapporto diverso, che negli ultimi tempi si è consolidato a partire dall’amicizia tra Putin e Xi. Un’amicizia ambigua, che non ha dato vita ad accordi o ad alleanze decisive, ma che si è strutturata su accordi economici – l’ultimo quella dell’apertura del gas russo a Pechino – e su una serie di intese che hanno creato una sorta di semi-alleanza, da cui sarà impossibile prescidnere nel futuro».
Crede alla mediazione di Erdogan?
«Non credo che abbia la chiave del negoziato. E poi sono visibili degli accordi? Nulla, né da una parte né dall’altra. Al momento nessuno può accettare una pace che preveda un’Ucraina divisa, anche perdere il Donbass sarebbe una mutilazione che il governo di Kiev può difficilmente sopportare. Pesa in questa fase la debolezza europea: il cancelliere tedesco Scholz fatica a spezzare la dipendenza dal gas russo, Macron ha perso la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale, l’Italia non ne parliamo… Una mediazione in questa fase non sembra affatto vicina».
L’Europa fa bene ad accelerare il percorso di ingresso dell’Ucraina nell’Ue?
«Sì, è una questione di credibilità, e anche una presa d’atto del fatto che l’Ucraina, oltre ad avere dei legami già abbastanza importanti con gli stati europei, deve accelerare la sua separazione dalla Russia. Poi è evidente che all’interno dell’Ucraina ci sono ancora molte spaccature, ma la prospettiva europea può aiutare a ricomporle».
Chi sta vincendo la guerra della propaganda?
«Se si guarda alle atmosfere dei Paesi occidentali, e alla differenza tra l’inizio della guerra e adesso, ho l’impressione che i russi abbiano guadagnato terreno. Fattori come la crisi economica e l’inflazione, che mostrano come il benessere sia minacciato dalla guerra, oltretutto nel momento che coincide con l’esplosione delle vacanze dopo l’esperienza della pandemia, rendono molto impopolare il conflitto».
Come la stiamo raccontando, questa guerra?
«Questa è una guerra antiquata, e colpisce la grande presenza femminile rispetto al passato: i corrispondenti sono in gran parte donne, immerse nella realtà, delle vere reporter, molto efficaci. Vedo una copertura sul posto molto seria».
Lei ha condiviso con Eugenio Scalfari una grande e lunga esperienza professionale. Qual è oggi la sua eredità?
«Il giornale che ha fondato non è più quello, è completamente cambiato, direi che non c’è nessun erede nel giornale che lui ha creato. Nel giornalismo in generale, be’ sì, ha lasciato il senso per le grandi inchieste, per il linguaggio preciso – non amava l’uso del condizionale, né del congiuntivo. Prima di lui, e anche i suoi predecessori immediati, impostavano i giornali sulle valutazioni, sui discorsi morali, sulle considerazioni storiche. Con lui si è imposta la serietà dei fatti, ha portato il giornalismo sul terreno, grazie ai suoi giornalisti».
Francesca Sforza, La Stampa, 19 luglio 2022
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