Mi sembra una riflessione perfetta. Personalmente partirei da qui per impostare il dibattito sul futuro della sinistra.
Sergio
I risultati elettorali non sono di per sé una sorpresa: il vento di destra soffia da tempo ormai sul nostro paese, la crisi della sinistra viene da lontano. Dire però che non ci sia materia per ulteriori considerazioni è sbagliato, perché alcune tendenze si sono ulteriormente rafforzate, fino a configurarsi come dati di fatto pienamente acquisiti. Con essi occorre fare i conti, con la freddezza necessaria.
La destra, anzitutto: si sta ormai strutturando come un vero e proprio movimento di massa, diffuso in tutte le parti del paese, anche in quelle che storicamente erano collocate su fronti opposti. È un consenso forte, consolidato, oggi in via di ulteriore espansione e rafforzamento. Chi pensasse di liberarsi di questa “lebbra” con operazioni chirurgiche rapide e indolori commetterebbe un errore immenso; e soprattutto mostrerebbe di non capire cosa c’è oggi nella “pancia” dell’Italia. Per uscire da questa situazione occorre lavorare sui tempi lunghi, avendo ben chiaro un punto. Il nerbo della nuova destra in Italia sta oggi nella Lega. I 5 stelle svolgono funzioni accessorie, caudatarie, anche se ogni tanto fanno qualche dichiarazione demagogica, volendo configurarsi come l’ala sociale della coalizione. Camminano sull’acqua, e possono affondare in ogni momento.
Il centrosinistra: è ormai conclamata la fine del Pd, della sua funzione nel nostro paese. Certo, continuerà ad avere dei deputati, dei sindaci, dei voti, qualche circolo continuerà a funzionare: i partiti possono morire per esplosione o per una lunga agonia, ed è questo che sta accadendo al Pd. Ormai su questa esperienza è possibile dare un giudizio equanime: ha suscitato speranze pari all’entità del suo fallimento. È bene averlo chiaro per riprendere a camminare: questo partito è finito come funzione storica, e Renzi ha dato un contributo decisivo alla sua estinzione.
Di Leu non è neppure il caso di parlare: non è mai nata. E’ servita solo per riprodurre un ceto parlamentare, senza alcuna effettiva strategia politica.
Perché è accaduto questo, come mai siamo arrivati a questo punto? Non bisogna limitarsi all’orizzonte italiano per capirlo, perché si tratta di fenomeni di vasta portata, che però si sono configurati da noi in termini particolarmente virulenti, coinvolgendo larghe parti della popolazione .
C’è stata una frantumazione della società, una sua “particolarizzazione”, un brutto termine lo so, ma utile per capire cosa intendo. Spezzate le vecchie aggregazioni, gli individui si sono serrati nel loro “particulare”, configurandosi come monadi preoccupate solo di se stesse, chiudendosi in un egoismo individuale e sociale, che è la cifra del nostro tempo così misero e così feroce.
Alla base hanno certo agito gli effetti della crisi e della globalizzazione, ma in Italia hanno avuto risonanze più vaste e profonde, lacerando antiche forme di solidarietà, anche per il venire meno della funzione del cattolicesimo e della Chiesa cattolica come principio di unità sociale. È stato questo il terreno di coltura della Lega.
Ma bisogna riflettere anche su un altro elemento della crisi italiana. Si è affermata nel nostro paese una singolare uguaglianza, intesa come cancellazione delle differenze, uniformità: una palude indistinta, che ha trovato il punto di riferimento e di raccolta nella rete, che si è trasformata nel detonatore di questa uguaglianza informe. Dalla quale, e la storia lo dimostra, vengono prodotte forme autoritarie, dispotiche, come infatti è accaduto con i 5 stelle. Il livellamento degli individui non genera democrazia, ma il potere dei capi, dei pochi, che decidono per tutti. Che questo avvenga nelle sale di Versailles oppure nella rete, il risultato non cambia. È sempre dispotismo.
A questi due elementi ne va aggiunto un altro che li unifica e si esprime nell’attuale governo: il risentimento, la rabbia sociale, determinati dalla crisi e potenziati dall’immigrazione – anzi, dal modo in cui è stata percepita l’immigrazione. Ma come si sa, la coscienza del fatto è più importante del fatto.
Dall’intreccio di questi elementi, è stata generata la miscela avvelenata, che si è espressa anche nel voto di domenica, con cui dobbiamo fare i conti.
In che modo? Penso che dobbiamo in primo luogo lavorare a una nuova cultura della solidarietà, coinvolgendo laici e cattolici, stabilendo nuovi legami, accanto a quelli tradizionali, assumendo come problemi centrali il destino del pianeta, il trasformarsi dei confini tra la vita e la morte, il modificarsi della natura e del futuro degli individui, il principio del lavoro come strumento di emancipazione umana, il problema – oggi centrale – del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita.
Guardare sopratutto al futuro, questo deve essere il baricentro del lavoro da svolgere. Dobbiamo riuscire ad essere una forza della trasformazione, criticando l’esistente, mettendosi dal punto di vista del genere, della specie, costruendo una nuova, e radicale, cultura della solidarietà, capace di porsi problemi di principio che riguardano il destino sia dei singoli che della comune umanità, coinvolgendo tutti i raggi dell’esperienza umana.
Ma dobbiamo anche uscire dalla palude in cui siamo, riaffermando il primato delle differenze, delle intelligenze, del merito assumendo come nostra bandiera l’articolo terzo della costituzione italiana. Ci sono molti tipi di eguaglianza: noi dobbiamo lavorare all’eguaglianza che genera giustizia e libertà, non a quella che determina sudditanza, servitù.
Per questo ci vuole una nuova forza politica. Come dimostra l’astensionismo, molti che sarebbero orientati a sinistra non vanno a votare perché non vedono una forza di sinistra in cui riconoscersi. Bisogna dargliela. E rapidamente.
Michele Ciliberto, Strisciarossa, 26 giugno 2018
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