Se potete leggetela, merita assai.
Sergio
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Nell’ottobre del 1930 a Vrhpolje (Verpogliano), piccolo paese di maggioranza slovena vicino a Gorizia, il maestro elementare Francesco Sottosanti, siciliano, viene ucciso a fucilate mentre rincasa. Ha 32 anni, cinque figli, la moglie è in attesa del sesto. Fervente camicia nera, il maestro è vittima delle bande armate slave che si battono contro l’italianizzazione forzata di quei luoghi da sempre promiscui. Dopo la Grande guerra, che come tutte le guerre rimescola i confini passando sopra la testa e sopra la vita di chi ci abita, la Venezia Giulia e l’Istria sono passate al Regno d’Italia.
Con l’avvento del fascismo va definitivamente in frantumi la sostanziale tolleranza tra etnie, lingue, culture (oggi si direbbe: multiculturalismo) garantita dall’Impero asburgico. Cancellare le tracce (cospicue) dell’identità slava da quelle terre di confine è, per il fascismo, un dovere morale. Difficile dire, con il senno di poi, in quale percentuale quell’impresa sia stata scellerata e in quale ottusa.
È una domanda, del resto, che vale per il fascismo nel suo insieme. Il maestro Sottosanti, che la propaganda di regime dice ucciso per la sola colpa di voler civilizzare popolazioni incivili (la sintesi è mia, ma rende bene l’idea della propaganda dell’epoca), diventa martire del fascismo, con tutti i crismi dell’ufficialità, compresa una cerimonia alla presenza del Duce nella sua città natale, Piazza Armerina, che ancora oggi gli intitola un piazzale.
Da lì Sottosanti era partito, insieme a tanti altri meridionali, per combattere da fante nelle trincee lontane della Grande guerra; e una seconda volta per completare l’opera di nazionalizzazione del Far East insegnando l’italiano ai figli di quella che Mussolini, in un discorso a Pola nel ’20, definisce «una popolazione primitiva, senza storia, senza cultura e senza lingua».
Sempre nel ’20 i fascisti avevano dato alle fiamme la Casa degli Sloveni di Gorizia, una delle prime azioni dello squadrismo. Nel ’23 la riforma Gentile fa divieto di insegnare e parlare sloveno nelle scuole. Quando Sottosanti viene ucciso, ogni forma di vita associativa, culturale, sportiva degli sloveni di Gorizia e Trieste è già stata cancellata. Sopravvive un irriducibile irredentismo animato da ragazzi anche giovanissimi (tredici anni), alcuni dei quali processati e fucilati a tutto vantaggio di un ulteriore odio antitaliano.
Adriano Sofri compie, attorno e dentro quell’ormai lontano delitto politico, un lungo viaggio, al tempo stesso “fisico” e intellettuale, come è suo costume di scrittore/viaggiatore. Visita i luoghi, rovista negli archivi, intervista i (pochi) depositari della memoria di quel periodo, la cui tremenda pagina finale fu poi la vendetta etnica delle foibe e la cacciata di decine di migliaia di italiani dai loro luoghi e dalle loro radici. Ultimo atto di una catena che ha il suo primo e molto taciuto anello nell’assurda quanto spietata persecuzione dell’identità slava da parte del nazionalismo fascista. Basti la definizione che il regime dava degli slavi indigeni di quei territori: “allogeni”, che vuol dire il contrario della realtà.
Ne esce un libro bellissimo, riflessivo, curioso degli avvenimenti, molteplice nei rimandi letterari, politici, umani. Mai retorico (un pregio, questo, piuttosto “antitaliano”; Sofri è a suo modo allogeno…) perché a emozionare bastano, e avanzano, i fatti. Il martire fascista (Sellerio) si direbbe anche un giallo per la cura investigativa con la quale l’autore ricostruisce il caso. Non fosse che prevale largamente, quasi in ogni pagina, la sovrastante ferocia della storia europea e specie di quella particolare storia di confine che è familiare a Sofri sia per la sua infanzia e adolescenza triestina, sia per la sua lunga pratica, molti anni dopo, delle cose ex-jugoslave. È soprattutto un libro di storia, insomma.
Dunque il lettore quasi si vergogna (perché gli pare futile) di appassionarsi al meccanismo investigativo, malgrado il mistero da scoprire ci sia davvero, e non piccolo: probabilmente Sottosanti venne ucciso perché gli vennero attribuite pratiche obbrobriose contro gli alunni, ma non a lui imputabili; venne confuso, sempre probabilmente, con il fratello minore — anch’egli maestro di scuola e fascista, anch’egli “italianizzatore” in quella zone — che soleva sputare in bocca, per punizione, ai bambini sloveni che parlavano sloveno. Sottosanti morì, dunque, con ogni probabilità, al posto del fratello. Fu “martire per caso”.
Il libro è una fonte inesauribile di rimandi, digressioni, coincidenze, la più notevole delle quali è che uno dei figli del Sottosanti è quel Nino Sottosanti, fascista pure lui, che nella interminabile vicenda di piazza Fontana ebbe il ruolo di “sosia di Valpreda”, utile a una delle varie ricostruzioni fantastiche del dopo-bomba — mai fantastica, comunque, come la “pista anarchica” data in pasto all’opinione pubblica.
Leggere Sofri fa venire in mente che un intellettuale dovrebbe essere, prima di tutto, uno che sa un sacco di cose; rimarrebbe però solamente un erudito, o un saccente, se non avesse metodo e costanza nel metterle in relazione, tutte quelle cose. Si chiude il libro con la sensazione che la Storia sia una catena di sopraffazioni che si ripete (e spesso si tramanda) di padre in figlio. E che miracolosa sia stata la pace europea di questi ultimi settantacinque anni, dopo secoli di massacri tra allogeni.
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