Per chi ha voglia di approfondire la figura degli intellettuali nella società contemporanea posto questo scritto inedito di Laura Barile. Il titolo è “Caleidoscopio” ed è uno scritto un po’ lunghetto ma interessantissimo. Ho letto la mia Firenze degli anni del fascismo, della Resistenza e della scrittura della Costituzione con grande avidità. Le cose che racconta sono di grande interesse sia dal punto di vista storico che dal punto di vista politico e filosofico e per me, fiorentino anch’io e poco più grande di lei, è stato un risveglio di odori, di sapori e di grandi battaglie per la nostra democrazia. Prendetevi un paio d’ore e leggetelo con calma, tra l’altro la scrittura di Laura è affascinante.
Sergio
Caleidoscopio
… scaccia
da me questo spino molesto,
la memoria:
non si sfama mai.
Vittorio Sereni
1.
Mio padre non raccontava di sé. Non amava parlare di sé, e tantomeno in veste eroica, e del resto non aveva la stoffa del narratore, liquidava le proprie esperienze vicine e lontane con una o due fulminee frasette. Per esempio non ha mai detto nulla della pugnalata alla nuca che aveva concluso le torture da parte della banda Carità ancora in via Benedetto Varchi e non ancora a Villa Triste, prima che li conducessero nel carcere tedesco (ma chi era stato che lo torturava, mi domando ora, anche il cocainomane Mario Carità in persona? Potevo chiederglielo, se ne avessimo parlato …). Mario Carità. Che il 2 novembre 1943 era riuscito a arrestare il comando militare del CLN (il babbo aveva compiuto 26 anni da due mesi). E che conduceva personalmente la repressione della resistenza fiorentina. Perfino i tedeschi parlarono in quei giorni nei loro rapporti interni dei suoi eccessi: tanto che lo stesso Gentile minacciò di rivolgersi a Mussolini per denunciarne i metodi. Il 14 dicembre Carità scrisse allora a sua difesa una lettera personale a Mussolini: le pressioni dei “soliti ex-massoni”, diceva, e “delle solite contesse nei salotti”, unite alla “solita fantasia italiana”, trasformavano la bastonatura in omicidio, gli schiaffi in tortura. E i capi delle provincie, (cioè la vecchia classe dirigente del ventennio), aggiungeva, privava ora il suo Reparto dei Servizi Speciali (da poco fuso con l’Ufficio Politico Investigativo del capitano Lawley) dei mezzi necessari per annientare i gruppi partigiani. In tal modo si reprimevano, scrive, “quelle energie, Duce, che Voi non potete avere dimenticato che nel 1919, 1920, 1921, 1922 Vi hanno messo in condizione di diventare il Capo della Patria». Carità morì, secondo una versione che leggiamo su internet, il 19 maggio 1945 per una sventagliata di mitra degli americani, a letto con l’amante in una pensione all’Alpe di Siusi. O meglio no, qualcosa mi disse, il babbo, una delle sue sintetiche frasette stampata vivida nella mia memoria: mi disse che se uno non voleva parlare, per esempio sotto tortura, c’era solo una semplice cosa da fare. Basta, disse, convincersi che non si sa davvero niente, che davvero non abbiamo alcuna idea di nomi né di compagni, che per davvero non stavamo andando a una riunione di compagni … Mi sembrò un’idea geniale. Con l’andar del tempo invece ho pensato che era un consiglio difficile, per non dire impossibile, da attuare. Strano, ho pensato. La decisione di negare convincendosi che si dice la verità. Tanto più fermamente si nega, quanto più alla fine la pur giusta menzogna diventa verità, il vero si intreccia e si confonde col falso, finché lo stesso mentitore si convince della verità della sua menzogna, mentre l’aguzzino continua a non credergli. E continua il braccio di ferro. Strano e inquietante intreccio. |
Ma il babbo, che era gentile e ben disposto e parlava poco volentieri dei momenti bui e non li raccontava, di quei mesi del carcere ricordava talvolta che lì aveva imparato a giocare a scopone scientifico (divertentissimo) e aveva letto la Bibbia (divertentissima). Un’altra delle poche frasi che ricordo riguarda infine quello che è stato definito l’”eterno fascismo” italiano. Fu Togliatti, disse una volta il babbo, che volle l’amnistia, bloccò l’epurazione e tutti i fascisti rimasero al loro posto. Bah, aggiunse poi con aria un po’ indecifrabile, chiudendo l’argomento.
Questa frase la ricordo anche perché non conoscevo bene i fatti di quegli anni convulsi. Che c’entra Togliatti, mi chiesi senza chiederlo, mistero. Questo flash spicca nella nebbia dei miei ricordi di infanzia e di adolescenza. Forse mi colpì quella parola, allora come oggi del resto poco usata: epurazione.
Ci fu effettivamente, per un breve tempo, quest’idea della epurazione. Un’idea austera, anche se semplice e comprensibile e quasi ovvia, ma forse, diciamo, più inglese che italiana. L’epurazione non ci fu soprattutto per l’opposizione degli Alleati, leggo nei libri di Storia, che non ne volevano sentir parlare: in fondo non era un problema loro. Ma c’è anche un’altra spiegazione, che trovo nel libro di interviste Noi partigiani, curato da Gad Lerner e Laura Gnocchi per Feltrinelli e uscito il 25 aprile 2020. Secondo uno dei protagonisti dell’azione militare di via Rasella, Mario Fiorentini, l’amnistia del 22 giugno 1946 “fu fatta, credetemi, prima di tutto a tutela dei partigiani, non per salvare i fascisti”. Letture diverse della Storia …
Ma il babbo, scopro ora nell’intestazione di una sua lettera privata del gennaio 1946, a ventotto anni era nella Delegazione Provinciale di Firenze dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo istituita il 27 luglio 1944. Lui era in particolare nell’Alto Commissariato aggiunto per l’Epurazione, che comminava le sanzioni amministrative. Le sanzioni penali invece (per i membri del Governo, per quelli delle Assemblee legislative o per gli alti gerarchi), confluivano all’Alta Corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo, e il Commissariato fungeva da pubblico ministero.
Quali erano queste sanzioni? Erano semplicemente queste: chi aveva partecipato attivamente alla vita politica del fascismo, con nomine o avanzamenti dovuti al partito, nonché quei dipendenti delle amministrazioni che avevano rivestito cariche importanti nel ventennio o erano rimasti fedeli alla RSI e dato prova di “faziosità”, “incapacità” e “malcostume” fascista, avrebbero dovuto lasciare il lavoro. Pene più lievi erano previste invece per chi non avesse dato prova di “settarietà e intemperanza fascista”; e nessuna pena per chi dopo l’8 settembre si fosse distinto nella lotta contro i tedeschi.
Non so in che momento il babbo ne fosse entrato a far parte: l’Alto commissariato per l’epurazione durò poco, fino al febbraio e poi con altro un nome fino al 22 giugno 1946, quando arrivò la discussa amnistia generale proposta da Togliatti, allora ministro della Giustizia. Su 143.781 dipendenti pubblici esaminati solo 13.737 furono processati e solo 1.476 rimossi dall’incarico. Con l’amnistia furono graziati molti fascisti, scrive Claudio Li Gotti (www. storiaXXIsecolo.it), “compresi quelli che avevano commesso gravi crimini, e (l’amnistia) permise a molti funzionari del passato regime di rimanere al loro posto nelle varie amministrazioni dello Stato, non permettendo così il rinnovamento dell’apparato amministrativo, che doveva essere la diretta conseguenza dell’epurazione”.
2.
Ma già il 15 giugno di quel 1946, con uno scritto sul “Non mollare” dal titolo Una morte civile il babbo si impegnava in un’altra grande battaglia. Il “Non mollare” era la rivista che aveva ripreso nel 1945 il titolo e gli intenti del primo “Non mollare”, il primo foglio, anzi “bollettino d’informazioni” clandestino antifascista, che era uscito dal gennaio all’ottobre 1925, con una redazione composta dai fratelli Rosselli, Salvemini, Ernesto Rossi e Nello Traquandi.
Nello Traquandi! E’ incredibile come la sua figura si accenda intatta e nitida dal pozzo della memoria: un uomo grande e grosso che anni dopo il babbo mi introdusse con parole di affettuoso elogio, e che vedo con gli occhi della mente come fosse ora, quasi con una punta di rimpianto. Perché rimpianto? Perché sento, col sentimento di poi, di aver desiderato allora la sua presenza nella mia famiglia. Avrei voluto che miracolosamente con noi ci fosse Nello Traquandi, ferroviere. Ma non accadde.
Nella fotografia della redazione del primo “Non mollare” del 1925, lui, che era del 1898, è il primo giovanotto a sinistra, con il suo viso un po’ pieno, che ricordo gioviale e già un po’cascante quando lo vidi io. Come ferroviere aveva contribuito fervidamente alla distribuzione del foglio clandestino. Arrestato dall’OVRA nel 1930, dopo la galera era finito al confino fra Lipari, Ponza e Ventotene. Dopo il 25 luglio del ‘43 era stato un dirigente della Resistenza fiorentina, e dopo la Liberazione assessore nella Giunta di Liberazione di Firenze.
Non mi spiego il motivo di quell’impulso di quasi speranza che provai allora per lui, forse la sua espressione bonaria? Può darsi, gli adulti della mia infanzia non erano bonari, erano intelligenti. Forse fu il suo sorriso largo che aleggiava perenne, forse i vestiti un po’ stropicciati e sbiaditi, forse il tono di stima amichevole del babbo, le sue lodi mentre lui si schermiva in fiorentino; o forse fu proprio l’accento fiorentino, gli adulti della mia infanzia parlavano tutti senza accento – o in francese. Forse semplicemente avrei voluto che fossero così nella mia famiglia, più popolari, più miti, più tranquilli, più accoglienti, più affettuosi. Più semplici. Più come Nello Traquandi.
Un’ ultima immagine emersa da sola, legata al secondo “Non mollare”: l’antiquario fiorentino Agostino Chesne Dauphiné, redattore unico. Un signore alto, delicato, con una altrettanto delicata figlia di nome Beatrice, che per qualche tempo fu mia amica.
Nella fotografia dei redattori del primo “Non mollare” Salvemini non c’è: ma era tra i fondatori del foglio. Lo potrei riconoscere tra mille, Salvemini, per il semplice fatto che una sua fotografia, di busto, perfettamente incorniciata in una bella cornice d’argento, troneggiava per anni in casa nostra, insieme a quella di Calamandrei. Solo in tempi recenti ho sovrapposto a Salvemini la mia ultima nipotina Nina: e così l’ho perso di vista. Arrestato e processato con Ernesto Rossi, nel 1925 scelse la clandestinità a Parigi: dove nel 1929 fondò con i Rosselli, Alberto Tarchiani, Fausto Nitti e Alberto Cianca, il movimento “Giustizia e libertà”.
Un anno dopo, nel 1930, nasceva a Parigi Amelia, seconda figlia di Carlo e Marion Rosselli.
Dunque, un vago senso di colpa verso Salvemini, eliminato in fotografia dalla nostra vista. Disagio accresciuto dal fatto che anni dopo il babbo mi affidò i sette volumi verdi, ognuno con la sua custodia, delle Opere di Salvemini nell’edizione Feltrinelli, che schierai nella mia libreria sempre più piena. Finché un giorno ho preso la decisione, visto che quei libri non li leggevo, di portarli alla Biblioteca di via Canova, la deliziosa Bibliotecanova nel quartiere popolare fiorentino dell’Isolotto, uno dei più bei quartieri popolari che esistano, sulla riva dell’Arno. Certo lì troverà più lettori che qui – ma il suo volto aleggia ancora da me col suo pizzetto bianco e i suoi occhietti neri vivacissimi, come quelli di Pirandello, assieme ai tanti volumi che ha scritto.
Quanto al “Non mollare”, è una mia vecchia conoscenza, un dettaglio della grande Storia, la cui ala, senza spiegazioni da parte di nessuno, mi ha sfiorata poco dopo i dieci anni. La mamma si era trovata per vari anni, dal ’38 al ’46, bloccata nell’Italia in guerra, lontana dai suoi e dal suo paese. Me ne sono resa conto davvero, anche se lo sapevo da sempre, solo dopo la sua scomparsa: leggendo le tante lettere azzurre trasparenti di posta aerea tra l’Egitto e l’Italia (via Lisbona) fra il 1940 e il ’46. Lettere un po’ illeggibili perché scritte con l’inchiostro anche sul retro, e piene di ansia e inquietudine e nostalgia e dichiarazioni di affetto dei genitori e delle sorelle. Si era sposata a Bologna in fretta la notte del 3 dicembre del ’38, all’entrata in vigore delle leggi razziali, senza il permesso (sic) dei genitori.
Per amore dunque aveva poi affrontato molti pericoli e sacrifici, condividendo, – ma sempre un passo indietro, e con la massima reverenza e rispetto nei confronti del mondo maschile, quale si può immaginare in una fanciulla cresciuta ai primi del secolo in una comunità sefardita levantina, – condividendo, dicevo, quelli che sentì come altissimi ideali di grandi uomini e che continuò a venerare per tutta la vita, e ai quali rimase per sempre fedele: gli ideali della Resistenza, che in qualche modo secondo me si identificavano per lei anche – anche – con l’amore. Erano questi ideali, penso ora, che continuavano implacabili a dare senso alla sua scelta coraggiosa e impulsiva e un po’ folle del ‘38, definitiva come un destino, anche dopo che il babbo si fu allontanato. Un po’ come le poesie di Mandel’stam per la moglie, e a lungo vedova, Nadežda.
E dunque, quando a metà degli anni Cinquanta arrivò a Firenze il telegramma da Alessandria che il fratello Samuel detto Samino era morto improvvisamente giocando a tennis, la mamma, la sua terza sorella Reina che i familiari chiamavano affettuosamente Rannuco ebbe un tale choc da sentirsi male al punto di vomitare, pallida, verde, e regredita alla sua lingua-madre, il francese (ma non al suo petèl per dirla con Zanzotto, il judesmo o giudeospagnolo o ladino). Io dovevo avere undici-dodici anni.
Samino, quando lo avevo visto da piccola in Alessandria, era allegro e gioviale, parlava a alta voce, cantava romanze di opere italiane stando alla finestra, amava il cinema e andare allo Sporting Club e lasciava la serietà alle cinque belle sorelle, o almeno alle prime tre. La mamma pur criticandolo gli voleva bene. Così dunque andò in camera, si distese sul letto nella penombra, con le persiane abbassate, e mi chiese di sedermi accanto a lei e leggerle qualche pagina … del “Non mollare”!
E in fondo questo è stato forse il momento di nostra maggiore intimità.
Non so se fossero i ventidue numeri del 1925 o quelli del 1945-46, perché di ciò che lessi allora non ricordo niente. Penso tuttavia che ci fossero i nomi che le faceva piacere sentire, e le loro parole: forse dunque era il primo “Non mollare”, quello del ’25, appena ristampato dalla Nuova Italia con riproduzione fotografica di tutti i numeri e tre scritti (di Salvemini, Ernesto Rossi e Calamandrei), che trovo nella libreria di casa. Come che sia, questa scena di leggere gli scritti che mia madre sceglieva con un fil di voce dal suo letto nella penombra, bè, la ricordo benissimo.
Fino a ora non sapevo e non credevo che il babbo avesse scritto sul “Non mollare”, ormai investito per me di un’aura sacrale. E invece eccolo qui, a dimostrazione che né quando eravamo piccole né dopo ci furono narrazioni famigliari, quelle diffuse – come ho visto in seguito – nelle altre famiglie: ovvero che ci raccontassero quello che facevano o avevano fatto i grandi, i quali invece tacevano.
Leggiamo dunque questo articolo del babbo, Una morte civile, del 15 giugno 1946. A parte l’epurazione e l’amnistia, si trattava ora di impegnarsi, in vista delle elezioni istituzionali del’46, su un altro tema fondamentale per la scribenda nuova Costituzione che di lì a poco sarebbe nata: bisognava battersi, in linea con Salvemini, contro il Concordato e i Patti Lateranensi, per cancellarli. Il casus belli era la scomunica “vitando” (il massimo grado di scomunica) di don Ferdinando Tartaglia da parte delle autorità ecclesiastiche:
“Non è senza profonda emozione che abbiamo letto della scomunica inflitta dalle autorità ecclesiastiche a Ferdinando Tartaglia, che i fiorentini ben conoscono ed apprezzano per l’elevatezza del pensiero”, comincia lo scritto del babbo. Profonda emozione …: ho la sensazione che in seguito forse il babbo usasse poco questo vocabolo nei suoi pur convincenti e appassionati scritti per la libertà, anzi per “le libertà”, come diceva sempre. L’emozione, così dichiarata in apertura, poteva forse essere una inconsapevole influenza stilistica di Calamandrei e della sua pur bellissima retorica. Anche se era certo autentica.
Ferdinando Tartaglia, uno dei più singolari protagonisti del ventesimo secolo, secondo Wikipedia, aveva un anno più del babbo, era nato a Parma nel ’16: nel 1946 avevano trent’anni l’uno e ventinove l’altro. Ordinato sacerdote nel 1939, a pochi mesi di distanza dal matrimonio notturno dei miei, durante la guerra aveva tentato una forma di vita comunitaria fra religiosi, immediatamente repressa. A partire dal ’43 aveva collaborato ai “Centri di Orientamento sociale” di Aldo Capitini, il Gandhi italiano, del quale condivideva gli ideali di inclusione e non violenza radicale. Su Capitini ho un vago ricordo di attestati di stima del babbo che, se da vero loico si dichiarava “agnostico” (per uno suo caratteristico razionalismo illuminista e voltairiano), era tuttavia sempre pronto a riconoscere il valore di alcuni uomini religiosi, da La Pira a Dossetti.
Capitini dunque, antifascista, aveva avversato il Concordato da subito, giudicandolo una merce di scambio del fascismo, in cambio un atteggiamento morbido da parte di Pio XI e delle gerarchie ecclesiastiche. Fondamentale per l’antifascismo il suo Elementi di un’esperienza religiosa, del 1937, anno della morte di Gramsci e dell’assassinio dei fratelli Rosselli: era nato allora con Capitini il Movimento liberalsocialista dal quale si sviluppò in seguito il Partito d’Azione.
Nel 1943 Tartaglia curò per l’editore Guanda una Collana di Studi religiosi, traducendo e commentando due testi latamente eretici, ai margini dell’ortodossia: il Diario e Scritti religiosi di Gabriel Marcel, uscito in Francia nell’anno di Essere e Tempo di Heidegger, il 1927, e il testo del modernista Cardinal Newman La filosofia della religione. Altri due testi li curò nel 1944, le Meditazioni cristiane e metafisiche col trattato dell’amor divino di Malebranche e le 18 lettere Le provinciali di Pascal. Dal 1944 le autorità ecclesiastiche gli proibirono di dir messa: e nel 1946 il Sant’Uffizio lo colpì definitivamente con la scomunica vitando a causa del suo Elogio alla memoria di Buonaiuti, morto nell’aprile di quel 1946.
Grande intellettuale modernista, il religioso Ernesto Buonaiuti, anche lui scomunicato alla firma dei Patti nel 1929, con l’amico semitista ebraista arabista islamista orientalista e scrittore ebreo Giorgio Levi Della Vida era stato uno dei dodici professori che non firmarono il giuramento di fedeltà al fascismo nel ’31, perdendo la cattedra e la libertà. Nel suo libro Fantasmi ritrovati del 1966 Levi dalla Vida ricorda le origini del modernismo ai primi del secolo, e Montale così commenta: “nel suggestivo capitolo intitolato Un ebreo tra i modernisti egli si rifà al tempo in cui l’enciclica Pascendi si abbatté come un fulmine su quel movimento religioso creando angosciose crisi di coscienza, ritrattazioni e vittime (‘défroqués’)”. Che vuol dire “spretati”.
Lo scritto del babbo sul “Non mollare” dichiara dunque in apertura di non voler commettere una “irriverente ingerenza” nell’ambito della delicata questione dal punto di vista religioso: “Noi ci occupiamo di questioni politiche, non di questioni religiose”, scrive. Sembrerebbe infatti giusto, prosegue, che le conseguenze e le responsabilità relative a una disputa religiosa, dovessero restare nell’ambito delle coscienze individuali. Invece non è così. Il Tartaglia, “a causa di un atteggiamento della sua coscienza religiosa va incontro a una perdita dei diritti civili”. Questo è il regime concordatario italiano, scrive, grazie al quale lo Stato toglie a Tartaglia, come aveva fatto con Bonaiuti, l’insegnamento e qualunque impiego lo metta a contatto col pubblico (art. 5 del Concordato). Insomma, gli toglie il pane quotidiano: è dunque un gravissimo attentato al principio della libertà di coscienza.
In chiusura troviamo un dettaglio, e cioè la formula “repubblica d’Italia” per “repubblica italiana” che rivela quanto siano ancora vicine le elezioni politiche del 2 giugno che decisero per la repubblica. Questo scritto del 15 giugno ’46 ci fa toccare con mano la corsa contro il tempo dei costituenti e di chi era loro vicino. La “repubblica d’Italia”, chiede il babbo chiudendo il pezzo con una domanda retorica, vorrà conservare questa disposizione perfettamente intonata con le leggi fasciste che colpivano i partiti politici o “gli israeliti”, ma per niente in tono con “la nuova costituzione popolare” (“c” minuscola): cardini della quale dovranno essere “le libertà civili”, di cui il fascismo “fece scempio”?
Di quell’incredibile 1946, quando io non c’ero perché ero partita per l’Egitto con la mamma su una nave da guerra per attraversare il Mediterraneo con destinazione Alessandria, c’è una mia foto nel porto di Brindisi con un cappottino a doppio petto e un cappellino con la tesa, calzettoni e stivaletti, per mano alla mamma, pronte a partire per il lungo viaggio. I marinai (o erano soldati?) mi chiamarono per tutto il viaggio “Cunegonda bionda come l’onda”, controllando che non mi avvicinassi ai bordi della nave, che nel mio ricordo non avevano parapetti ma soltanto dei paletti con una corda più alta di me. E ricordo l’approdo, in senso contrario a quella splendida memoria di Ungaretti che si allontana e vede sparire la bianca città: all’approdo, in basso sulla banchina, c’erano i genitori della mamma, dai quali abitammo in quei mesi.
Del nonno, alto, magro, vestito di lino bianco, con in mano una canna leggera dall’impugnatura a forma di testina di cane in avorio, che ora è da me, ricordo i lunghi pomeriggi seduti insieme, noi due, fuori del Café Baudrot, le meringhe con la panna e la scimmietta con le manine scure e pelose ma rosa dentro, che girava col piattello. Lui parlava poco italiano, e io poco francese.
Ricordo meno gli altri parenti, perché i bambini non stavano con i grandi, ma con gli arabi che servivano in casa: e infatti ricordo perfettamente il cuoco Mohamèd che con la bianca galabiàh sventolante fingeva di inseguire con la scopa noi bambini nella grande cucina: – Jalla! Jalla!- , perché non rubassimo le frites. Ricordo anche il gusto amaro del grapefruit che mi davano la mattina alle undici all’asilo inglese di Alessandria.
Il babbo intanto continuava la sua fervida attività al Partito d’Azione. Noi ci occupiamo di questioni politiche, aveva scritto il 15 giugno sul “Non mollare”: e in fondo tutta la sua attività successiva in difesa delle libertà, fu politica – ma non più forse in modo così diretto come nel periodo in cui fu iscritto al PdA, il solo partito di cui ebbe la tessera.
Altri due documenti “politici” di quel 1946 infatti sono due lettere riemerse dall’archivio di Pippo Codignola. La prima è battuta a macchina su carta intestata “PARTITO D’AZIONE- Federazione provinciale fiorentina”, con la dicitura a macchina: Segreteria Politica Provinciale, e con data 21 settembre 1946. Il babbo, Segretario, aveva compiuto ventinove anni pochi giorni prima, il 10 settembre. La lettera è rivolta alla Direzione Centrale del partito a Roma e al compagno On.le T. Codignola, cioè Pippo, che non usava poi tanto volentieri il suo nome pur nobilissimo e medieval-leopardiano-wagneriano, Tristano (e con un certo mio stupore di allora, sua sorella si chiamava ancora più medievalmente Melisenda, come la dolcissima protagonista dell’opera simbolista Pelléas et Mélisande di Debussy-Maëterlinck ). Segno di un preciso gusto del padre, il pedagogista Ernesto, che nel 1926 aveva fondato la casa editrice La Nuova Italia, e nel 1945 a Firenze la Scuola-Città Pestalozzi. Strano, però.
Pippo era molto distratto con i bambini, ma aveva una simpaticissima figlia Nicoletta, allegra e colorita. Ricordo una sua festa di compleanno dei 14-15 anni, dove qualcuno dei fratelli maggiori cominciava a ballare (!!) e alla quale partecipava il suo cugino Robertino Calasso, figlio di Melisenda, allora molto attirato dalla mia sorella Paola. Nicoletta aveva un fratello più piccolo, un ragazzo un po’ scuretto di pelle e di capelli, con un bel sorriso candido e intelligente, Federico, che purtroppo non c’è più. Mescolato a questi “momenti di essere” non posso tacere il leggero disagio sempre presente in mezzo agli altri, come un lontano basso continuo. E noi, come eravamo? E loro? E le loro famiglie? E perché … perché noi, no? Cosa “no”, non saprei. Ma qualcosa ci ansieggiava e ci impacciava.
“Cari compagni …”: il babbo si dichiara incaricato dalla Direzione Politica Fiorentina di prospettare il problema dell’autonomia di Radio Firenze. E se vedo giusto nella successiva attività di mio padre (alla quale per la verità non sono poi stata molto attenta), alcuni nodi cruciali delle sue battaglie future in materia di comunicazione e RAI sono già tutti qui presenti. Fin dalle prime parole: “Spataro”, scrive, tende a “abolire del tutto” ogni nuova autonomia per le trasmittenti locali.
L’avvocato Giuseppe Spataro, esponente Dc nel CLN di Roma, degasperiano (come Adone Zoli, compagno di cella del babbo alla Fortezza da Basso fiorentina requisita come carcere dalle SS) era stato nominato da poco, il 2 agosto 1946, presidente della Radio Audizioni Italiane: la R.A.I., di cui fu un elemento centrale fino agli anni Ottanta. Sulla comunicazione e la libertà d’informazione il babbo si batté poi a lungo, fino a elaborare nei primi anni novanta un Libro bianco sulla Rai, al quale teneva molto e che per motivi politici – ovvero la discesa in campo televisivo di B. che seguì al governo Ciampi – non fu affatto considerato. Qui facciamo la Resistenza Due, scherzava il babbo riguardo al governo Ciampi: e invece secondo me la mutazione antropologica li colse impreparati-, tanto che a domanda mi pare di avergli sentito mormorare seccamente: “Non l’hanno neanche aperto”.
In quella prima lettera del babbo al partito, del settembre ’46 dunque, oltre a una serie di motivazioni favorevoli al mantenimento di Radio Firenze (per le autonomie regionali previste nella nuova costituzione, per l’educazione dell’opinione pubblica, per la disoccupazione che sarebbe derivata dalla chiusura della radio, per il vantaggio finanziario legato agli abbonamenti), due punti mi sembrano significativi. Il punto 4, che dice che la soppressione dell’autonomia di Radio Firenze “andrebbe a tutto beneficio dell’opera discretamente reazionaria svolta dalla Direzione della R.A.I. attraverso numerosi programmi tendenziosi”: che è una ferma e chiara dichiarazione politica.
E poi il punto 7 sul “carattere particolare” di Firenze, che deve poter mantenere, dice, “il carattere artistico-musicale che vi si svolgeva fino a prima della guerra”. E cioè le due grandi istituzioni musicali del Maggio fiorentino e degli Amici della Musica, delle quali il babbo fu da subito parte appassionata e attiva, come lo fu della la neonata Scuola di Musica di Fiesole di Piero Farulli. La lettera concludeva con la richiesta al compagno Codignola di trattare la questione su “L’Italia Libera”, e “eventualmente, di portare la questione alla Costituente”.
Mi è capitato moltissimi anni dopo di venir salutata con grande enfasi e quasi abbracciata da un simpatico signore presentatosi come direttore della piccola ma gloriosa, per gusto e coraggio di scelte musicali, Radio Montebeni: dalla chiusura della quale è nata ai primi di questo secolo l’ottima Radio Toscana Classica. Aveva colto infatti il mio cognome e voleva farmi sapere che “doveva tantissimo” al babbo. Ma tornando a Radio Firenze, il più antico documentario radiofonico italiano di cui esiste copia è proprio il primo documentario di Radio Firenze: ed è un documentario davvero eccezionale, Firenze Agosto 1944, che restituisce dal vivo la battaglia per la liberazione di Firenze.
Com’è noto, l’avanzata degli alleati costrinse i tedeschi a proclamare lo stato di Emergenza (Emergency): nella notte fra il 3 e il 4 agosto furono fatti saltare tutti i ponti sull’Arno tranne Ponte Vecchio, ma l’11 agosto Firenze era ufficialmente liberata. Ecco alcuni versi della Ballata scritta in una clinica di Montale, uscita in quell’agosto sul n. 5 del “Ponte” e scritta al capezzale della Mosca malata, con il suo amuleto, un cagnuccio di legno, sul comodino assieme agli occhiali e alle fiale della morfina: “ – ma buio per noi, e terrore / e crolli di altane e di ponti / su noi come Giona sepolti / nel ventre della balena – (…) Con te anch’io m’affaccio alla voce / che irrompe nell’alba, all’enorme / presenza dei morti; e poi l’ululo // del cane di legno è il mio, muto.”
I due redattori di Radio Firenze, Victor De Santis e Amerigo Gomez, usavano il fonoincisore trasportato su un carretto, perché non c’era ancora l’incisione su nastro. Sentiamoli: “Le strade si fanno deserte. Le finestre si chiudono. Nelle case inizia l’attesa della grande paura.” Passa una macchina con l’altoparlante che annuncia l’Emergenza: “Le pattuglie delle forze armate germaniche hanno l’ordine di sparare contro le persone che verranno trovate per strada …”.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Radio Firenze (che purtroppo la mamma, e noi con lei, non ascoltava!) avrà un ruolo fondamentale per i radiodrammi con la compagnia di prosa dello “Studio C”, da Arnoldo Foà a Fosco Giachetti a Wanda Pasquini; e poi con “Il grillo canterino”, un contenitore domenicale nato nel 1953 di cultura popolare, scherzi in dialetto, storie di vita quotidiana, la famosa Sora Alvara … fino al Dottor Djembé (quello sì, l’ho ascoltato). E ancora, dal 1945 al ’77 nasce qui il programma culturale L’Approdo. Tutto questo prima che la RAI concentrasse tutto su Roma e Milano, lasciando indietro le sedi “distaccate”: non fosse, a Firenze, per la coraggiosa privata Controradio.
4.
Di quegli ultimi anni quaranta e forse dei primi cinquanta ricordo di colpo, flash auditivo, la contentezza di quando lo sentivo tornare a casa a pranzo. Noi uscivamo da scuola a mezzogiorno e mezzo col grembiulino bianco (che alle superiori la mamma volle blu perché nero non le piaceva, a nostro eterno disagio), e anche il babbo tornava a pranzo dallo studio di Calamandrei sulla sua motocicletta Gilera rossa. Sentivamo sbattere la porta e poi un suo fischio ben modulato, sempre lo stesso, a mo’ di saluto e informazione: che era tornato. Avevamo studiato per l’aldilà, dice Montale, un fischio, un segno di riconoscimento ….
Già. Chissà. Chissà se la mamma ora che sono tutti e due nell’aldilà lo riconoscerebbe, ammesso che lui fischiasse.
Ma eccoci alla seconda lettera. “Caro Pippo”, scrive il babbo da Firenze l’11 novembre 1946 su un foglio non intestato, “torno a ricordarti, in occasione della prossima riapertura della Costituente, l’opportunità di fare un’interpellanza sull’argomento della equiparazione dei perseguitati razziali ai reduci, ai combattenti, e ai partigiani”. Questo mi sembra un contributo limitato nel tempo, ma significativo, nell’ambito della Costituente. E anche in qualche modo un pensiero per la mamma e il suo popolo di perseguitati razziali, qui avvicinati ai perseguitati politici: cioè in realtà a pensarci bene, i loro due casi personali. Involontariamente accostati.
Allegati alla lettera, un bando delle Ferrovie di Stato nel maggio e due del Monopolio Tabacchi nell’agosto, dove si menzionano i reduci combattenti, ma, fa notare il babbo, “non si riservano posti a favore degli ebrei; i quali, durante il periodo 1939-1945, non poterono in nessun modo partecipare ai concorsi stessi, allo stesso modo con cui non parteciparono i combattenti e i prigionieri”.
Allegato anche un anonimo trafiletto Per i perseguitati politici e razziali nella Cronaca di Roma de “La tribuna del popolo” del venerdì 25 ottobre 1946 che prendeva spunto dalla pubblicazione a cura del Ministero delle Finanze sulla Gazzetta Ufficiale del bando di undici concorsi per titoli, riservati ai reduci, ai partigiani e agli ex-prigionieri. L’autore invocava un analogo trattamento per i perseguitati politici fra cui i “confinati”, che essendo appunto al confino non poterono partecipare ai concorsi, nonché per coloro che non avevano posseduto la tessera fascista in quanto “per idealità, sentimenti ed azioni contrastanti col passato regime” non si erano iscritti al PNF. E infine, per i perseguitati razziali a partire dalle leggi del 1938.
Due piccole postille: una, che il 15 giugno in chiusura del suo scritto sul “Non mollare”, il babbo non aveva scritto, come invece fa nella lettera familiarmente, “ebrei”, bensì “israeliti”. Perché? mi chiedo. Perché in una scrittura pubblica gli israeliti e privatamente gli ebrei? Forse perché “israeliti” era più ufficiale, meno coinvolto nelle persecuzioni, e soprattutto nell’ancora poco nota e incredibile vicenda della “soluzione finale” … La seconda riguarda la data: “il periodo 1939-45”. Eppure il babbo la conosceva bene la data del 3 dicembre 1938, che allo scadere della mezzanotte entravano in vigore le leggi razziali, e loro si erano sposati in fretta e furia, di notte, a Bologna. Penso che abbia arrotondato i tempi per una forma di etico understatement , se così posso dire, fino ai primi dell’anno successivo, considerando le festività natalizie e il momento poco propizio alla ricerca di un lavoro.
Anche se in questa storia sembra pazzesco parlare di understatement: ma non per il babbo, che non amava che in nessun modo si potesse pensare – e non voleva pensarlo per primo lui stesso – che stesse parlando anche lontanamente pro domo sua, per usare una sua espressione: né mogli né figlie. Le sue battaglie dovevano essere assolutamente impersonali e al servizio delle libertà civili e della giustizia.
4.
Murió … la bella penitente,
Murió … y su alma arrepentida
Volò … muy lejos de esta vida
Sin esperança sin ilusión
(aggiunta materna, nell’originale non c’è)
Ay señor!… ay de mi!
Cuánta amargura … y dolor!
Y cuando el sol se iba
Una plegaría
Brota de mi alma
En el atardecer …
Ay señor! … ay de mi!
(Morì … la bella penitente, Morì … e la sua anima pentita … Volò … ben lungi dalla vita, … Senza speranza senza illusion. … Ay … Signor! Ahi… mè! … Quanta amarezza … e dolor! … E quando il sol calava … Una preghiera … Sorge dalla mia anima … Nel lento tramontar … Ay Signor … Ahi … mè!)
Sono brani del tango Plegaría, cioè preghiera, supplica, del 1927, parole e musica di Eduardo Bianco, che la mamma cantava con trasporto nei suoi ultimi tempi. Bianco, nato nel 1892 a Rosario in Argentina, divenne famoso in Europa con il suo gruppo: voce Juan Raggi, orchestra Bianco-Bachicha diretta dall’autore, e cioè violino (Eduardo Bianco) e bandoneón (Juan Bautista Deambrogio detto Bachicha). Quest’ultimo, di evidente origine ligure (col nome comunissimo in Liguria di Giovanbattista ovvero Giobatta, detto Bacicìn), era venuto da Marsiglia per aprire a Parigi con Eduardo Bianco il cabaret Palermo: certo dal nome del quartiere di Buenos Ayres poi divenuto universalmente noto perché Borges, che era del ’99, vi passò l’infanzia e molto ne scrisse.
Dopo aver suonato davanti al Re di Spagna Alfonso XIII e al Maresciallo Stalin a Mosca, Bianco suonò davanti a Hitler e Goebbels nel 1939. Costoro preferivano la musica argentina alla degenerazione negro-giudaica del Jazz e così fu Plegaría il tango che i nazisti costringevano i prigionieri a suonare mentre i loro compagni andavano nelle camere a gas: il suo nome divenne allora Tango della morte.
Mi dispiace moltissimo che si sia qui infiltrata, da sola, questa terribile, cupa e spaventosa storia, con tutte le immagini che si trascina dietro, che certo la mamma non conosceva e che certamente non le piacerebbe vedere qui. L’efferatezza – la volgarità d’animo e l’efferatezza – e il cosiddetto orrore dei campi, fu rimosso a lungo nel dopoguerra da tutti, anche dagli ebrei. C’era come una vergogna, non la vergogna di essere ebrei, ma sì di quella orribile vicenda, l’orrore che li aveva colpiti in così larga misura, nel cuore della loro amata e sempre desiderata Europa.
Perché forse davvero l’Europa non è mai esistita, come scrive Romain Gary in La nuit sera calme: “Ci sono stati soltanto alcuni spiriti europei”. Tra i quali lui stesso, “russo-asiatico, ebreo, cattolico, francese, scrittore di romanzi in francese e inglese, parlante russo e polacco”: senza altra appartenenza che questa Europa immaginaria, per non dire utopica, che esiste appunto soltanto nella testa di certi “spiriti europei”.
La mamma cantava con poca voce ormai, ma con partecipazione ispanica, forse rivedendo nel cuore la Corniche alessandrina sul mare, e i lupini, la spiaggia di Àgami, la grande casa di rue Fouad Ier e il cielo azzurro di Alessandria. Forse la mamma, o meglio Samino, il fratello compianto con il “Non mollare”, aveva un 78 giri di Eduardo Bianco: perché avvicinandosi ai 100 anni, quando ormai parlava solo il suo petèl ladino (o judesmo o giudeospagnolo, variante mediorientale del castigliano parlata dai sefarditi), la mamma ricordava e cantava con una leggera malizia anche un’altra sua canzone Mamá, yo quiero un novio, il cui ritornello diceva così:
Mamá, yo quiero un novio
que sea milonguero,
guapo y compadrón
que al bailar se arrugue
como un bandoneón.
(Mamà, voglio uno sposo Che sia milonghero Bello ed arrogante E che nel ballo ondeggi Come un bandoneòn)
e sempre mi stupivo che la mamma sapesse cos’è la milonga. Non capivo, e forse nemmeno lei, cosa fosse compadrón, pensavo a una specie di padrino dall’aria strafottente, e nemmeno arrugarse, che indovinavo volesse indicare un dimenarsi flessuoso, come una fisarmonica appunto. E che queste fossero le doti richieste a uno sposo …! Scopro ora che il compadre, di cui parla Borges nella storia del Tango argentino, come il guapo, e anche il compadrito che veniva dai margini della città (orillas), ottimi ballerini abili col coltello nei loro eleganti vestiti, inventarono il tango e forse, ancora prima, la milonga (in origine vicina al candombe dei neri).
E poi, ormai che ci siamo ricordo anche questo, cantava anche la seconda strofe di Princesa con un romantico rallentando finale:
Quiereme porqué me muero
Princesita de ojos de azules
Y labios de grana
Mariposa de lindos colores
Florecillo de alegres mañanas …
(Amami perché io muoio … Principessina dagli occhi di azzurro … E labbra di granito … Farfalla dai bei colori … Fiorellino di allegri mattini …)
Ma già molti anni prima di recuperare l’idioma dell’infanzia avvicinandosi ai cento anni, e cioè quando ancora dall’italiano era tornata solo al francese famigliare, verso i novanta, cantava con qualche piccola svista Ça c’est Paris di Maurice Chevalier e Mistinguett, nota canzone della fine degli anni Venti:
Paris … reine du monde
Paris … c’est une blonde
Un petit nez retroussé l’air moqueur
Les yeux .. toujour rieurs.
Tous ceux qui (la) te connaissent
(Grisés par tes caresses) (questo non lo ricordava)
S’en vont mais ils revienn’nt toujour
Paris … à tes amours!
(Parigi … regina del mondo … Parigi … è una bionda … Col suo nasino all’insù l’aria beffarda, … Gli occhi … sempre ridenti. … Tutti quelli che (la) ti conoscono … inebriati dalle tue carezze … Se ne vanno ma ritornano sempre, … Parigi … ai tuoi amori!)
Che faceva il paio con il languido desiderio di quando cantava Jai deux amours … mon pays et Paris, parole di Géo Koger e Roger Varna, musica di Vincent Scotto, cantata nel 1930 dalla grande Joséphine Baker e perfettamente rispondente alla condizione degli ebrei della diaspora: che da una parte avevano “mon pays”, quello dove si credevano assimilati, e dall’altra “Paris”, il sogno di tutti loro, non si sa perché.
Resta il fatto che quanto a me, a scuola non capivo niente dei miei compagni, e il mondo mi appariva misterioso e lontano come dietro un sipario di nebbia o come in un film. Com’erano? Marziani. Rinunciavo a chiedermelo. Tranne una compagna di banco, sempre la stessa per tutto il mio percorso scolastico e anche universitario, e anche dopo, che aveva due nonni premurosi e benevoli: ricordo come fosse ora lo sguardo del nonno della mia compagna. Chissà i miei veri nonni come sarebbero stati: la mamma del babbo, che era morta poco più che ventenne di Spagnola nel 1918, pochi mesi dopo la sua nascita, anche lei certo, che era bolognese e che sarebbe stata la nonna Silvia se non fosse morta, sono sicura che avrebbe avuto uno sguardo sorridente e benevolo.
Il mondo alessandrino della mamma dunque non aveva niente a che fare con la politica dell’Europa e la Resistenza. Come dice Cavafis in quella bellissima poesia Alexandrinoì Basileĩs (che Pontani e Risi-Dalmàti traducono Re alessandrini e Crocetti Sovrani alessandrini), dove mette in scenala spettacolare proclamazione da parte di Marc’Antonio nel 34 a. C., del figlio di Giulio Cesare e Cleopatra, Cesarione, a “Re dei Re”:
Gli Alessandrini capivano, certo
ch’erano tutte parole e buffonate.
Ma la giornata era calda, poetica,
il cielo era azzurro chiarissimo, il Ginnasio
di Alessandria
un miracolo
trionfale dell’arte superba
(…)
Così gli Alessandrini correvano alla festa:
ecco, s’entusiasmavano, acclamavano
in greco, in egiziano, anche in ebraico,
affascinati dal bello spettacolo.
E sì che lo sapevano bene, quanto valeva
quella roba, e che vuote parole erano i regni”
(trad. Pontani)
E in effetti il Museo greco-romano visitato con l’aiuto di un vecchio Guide aux Monuments Alexandrins di famiglia, senza data, opera del Dr. Henri Riad e Mr. Youssef Hanna Chehata e Mr Youssef El-Gheriani, a testimonianza della tradizionale promiscuità delle varie culture e delle varie lingue, fu una visita indimenticabile, tanti anni dopo, con le belle statuette Tanagrine che sembrano uscite da una poesia di Cavafis. Anche se ben più indimenticabile fu la visita a uno dei cimiteri ebraici, l’ultimo rimasto di tre, a Chatby, grazie al vecchio guardiano Mahran, che per accompagnarmi riprese il suo ruolo di guida, visto che il nuovo guardiano era giovane e non sapeva nulla. Fra cani randagi, palme, tombe seminascoste da una fitta vegetazione, mare, sole, gruppi di bimbetti arabi con le loro continue risatine, trovai solo i nonni, che erano uno accanto all’altra nel kism, come diceva con la parola turca e uzbeka, cioè settore, n.1: ma purtroppo non Samino, che pure deve essere lì, nel settore o kism n.4.
Ebrei, sì, dunque, ebrei della Diaspora: cacciati da Saragoza nel 1492 (e lo ricordavano come fosse ieri) dai Re Cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona (“Aragón! la más famosa!” nel loro lessico famigliare). Ma anche Alessandrini, spagnoli di Salonika e Aleppo giunti abbastanza recentemente in Alexandrie la douce … Insomma, che lingua parlavate? provavamo a chiedere alla mamma. Tutte, rispondeva, suscitando in noi il solito moto di insofferenza, tutte le lingue, l’arabo e il greco demotikì e il francese e l’inglese e lo spagnolo e l’italiano …
Il tedesco no, solo l’odiato “Bitte warme wasser” che ci obbligava a chiedere alle padrone delle camere in affitto sulle Alpi austriache, nelle nostre remote vacanze infantili, scendendo scricchiolanti scale di legno. Insomma – principalmente – il francese. Dunque oltre che ebrei ansiosi erano però anche Alessandrini in questo amore per la dolce, frivola esistenza orientale: specialmente le due piccole, Nessya e Maggie, oltre naturalmente a Samino.
Lamentando, dicevamo, la mancanza, fra le categorie privilegiate a favore di chi cercava un lavoro dopo la guerra, delle due categorie degli ebrei e degli ex perseguitati politici, il babbo concludeva la lettera a Pippo dell’8 novembre 1946 con due righe impegnative e di grande fermezza: “Io credo che sarebbe assai opportuno che il Partito prendesse questa iniziativa, la quale sarebbe la prima in sede di Costituente”.
Ecco, rispetto a quelle due categorie, la mia tarda impressione, a giochi ormai fatti e sepolti, è che la mamma, per amore e per le incredibili avventure affrontate in suo nome (dell’amore), si sentisse di far parte della seconda: non tanto degli ebrei cioè, quanto degli ex-perseguitati politici. Bastava a dimostrarlo il suo nome di giovane sarda Maria Soddu, come recitava il documento che le avevano preparato nel partito e che doveva seccarle molto, perché mai lo rivelò a nessuno, anche se non se ne disfece. Mentre rimpiangeva il suo passaporto spagnolo che, appena sposata, un impiegato romano le fece a pezzi sotto il naso, raccontava con una risatina imbarazzata, dicendole: “Ecco. Ora è italiana, signora”.
Insomma, si sentiva in sintonia con loro, con gli antifascisti: questa era stata ormai la sua grande scelta, o ancor più il suo destino: essere sprofondata nella Resistenza. Di qui la lettura delle pagine del “Non mollare”, e non del Kaddish, la preghiera del lutto ebraico ormai lontana, alla notizia della morte di suo fratello sul campo da tennis al Club di Alessandria. Dunque mi piace oggi scoprire che il babbo non si peritasse di suggerire a Pippo, rappresentante del partito d’Azione nella Costituente, una iniziativa legislativa in favore di ambedue le categorie: e che questa, se capisco bene, sarebbe stata la loro prima iniziativa.
4a.
Ma qui devo aprire una parente, come diceva Totò, su Aleppo. Riuscii a andarci nel 2007, immaginando, senza nemmeno prepararmi alla ricerca, che non ci sarebbe stata traccia degli ebrei della Siria ottomana e neppure forse del loro vecchio quartiere, il Ghetto. Solo la Grande Sinagoga di Aleppo, somigliante a una moschea, con un’ala aggiunta per i sefarditi arrivati nel Cinquecento dalla Spagna. Ecco come appariva quest’ala al pellegrino Piero della Valle in una lettera del 1625:
la parte (…) finistra da gli Hebrei Europei, che quantunque habitatori & accasati in Aleppo, sono però d’origine adventitij; e questi tutti sono Spagnuoli, e parlano la lingua Spagnuola per loro lingua naturale, anzi molti di loro nati & alleuati se non in Spagna, ò in Portogallo, almeno in Italia, ò in Alemagna, ò in altri paesi di Christianità.
Ma si tratta, dice in una lettera precedente, di uno spagnolo molto compromesso, e “mezzo turco” (cf David Bunis, Echoes of Judezmo in Syria in Caminos de leche y de miel II, Barcelona 2018 Jubilee volume in honor of Michael Studemund-Halévy). Un tempo in questa sinagoga si trovava il Codice di Aleppo: forse il più antico manoscritto in ebraico della Bibbia, studiato da Maimonide. La sinagoga fu distrutta nel 1947 e ricostruita: e il Codice molto danneggiato.
In arabo poi, figurarsi se avrei potuto cercare tracce della famiglia della nonna Ida Doueck (o Duek o Dwek) e di suo padre, grand-père David, il poeta orale David che di proposito non aveva mai scritto nulla, e nemmeno lavorato, forse parenti di Jacob Saul Douek, Gran rabbino di Aleppo nel 1908, con lunga barba bianca…
Era già complicato arrivarci, con gli autobus siriani che da Damasco avevano trasportato il mio amico e me fino a Homs, a mezza strada. Due giorni dopo eravamo andati all’ora giusta alla Stazione dei bus di Homs: senza pensare che lì, contrariamente a Damasco, i cartelli erano solo in arabo. Vari bus scalpitavano vicini alla partenza, e mentre, con l’agitazione di chi perde il treno, in un vivo frastuono colorato di veli e ceste cercavamo a gesti di capire dalle biglietterie dai conducenti o dai meravigliati passeggeri quale fosse il bus per Aleppo, mi accorsi che accanto a noi un siriano nella sua jalabìah chiara stava gridando da vari minuti: Haláaab! Haláaab! Haláaab! Illuminazione: sarà Aleppo! (scritto così: حلب).
E vai!
Cinque anni dopo sarebbe iniziata la terribile Battaglia di Aleppo, nella guerra che da nove anni costituisce una delle più spaventose tragedie di morti civili del mondo. Tutto ciò che abbiamo visto allora, è ridotto in rovine. Nel 2012 gli abitanti di Aleppo si ridussero da quattro milioni e mezzo a uno e ottocentomila, e fra loro forse anche il ragazzo armeno che ci fece compagnia per vari giorni e ci aveva quasi convinto a adottarlo, lui ci avrebbe raggiunti in Europa, bastava che dichiarassimo ufficialmente che lo aspettavamo … finché la sua irrefrenabile faticosa loquela ci disamorò a poco a poco, pur dopo avere convenuto con lui che il bellissimo quartiere armeno di cui era così orgoglioso era di gran lunga il più pulito e ordinato della città vecchia.
In uno dei bei negozi di tappeti della città nuova avevamo peraltro intrecciato un’altra amicizia diciamo così mediorientale, io al seguito, sempre renitente ai negozi alle merci e agli acquisti, il mio amico invece molto portato e abilissimo a contrattare. La contrattazione, il bargain, delizia dei mediorientali, io l’ho sempre detestato, dai tempi di quelle che mi sembravano figuracce da sprofondare, quando la mamma si metteva a discutere con accenti di incredula meraviglia sentendo i prezzi dei famosi negozi fiorentini Neuber o Old England, e noi desideravamo sparire. Il tappetaio invece, felicissimo, faceva portare piccole ottime tazze di tè alla menta fra i tappeti, ci faceva sedere e cominciava la discussione, con mimica aggiunta, da proseguire con calma il giorno dopo e magari il pomeriggio successivo …
Finché il bel tappeto fu acquistato dal mio amico per un prezzo che non saprei giudicare (non m’intendo di tappeti siriani comprati sul luogo), ma certo ribassato e con in più un codicillo: il tappetaio ci avrebbe riportati in macchina fino a Damasco col tappeto. Così in mezza giornata sbarcammo all’hotel Omayad, nella solita stanza che dalla finestra vedeva un’enorme affiche del principe-oftalmologo Bachar El-Assad. Lo avevo giudicato, con una spaventosa leggerezza di cui mi sono poi vergognata, “carino”: somigliava, dicevo, a un Fabio Fazio coi baffetti e gli occhi verdi.
Ebbene: il suo attacco col gas nervino nel Ghouta orientale nell’agosto del 2013, vicino a Damasco, ha provocato millequattrocentottantanove morti fra i suoi stessi sudditi. E in nove anni di guerra i morti sono quasi cinquecentomila, di cui la metà civili, con più di duecentomila scomparsi, oltre a cinque milioni e mezzo di rifugiati e più di sei milioni, di cui un terzo bambini, sfollati. Anche se i numeri non sono il mio forte.
Ma il soggiorno damasceno, le lunghe gite a piedi per la città, lo straordinario ristorante di cucina mediorientale e libanese Kan Zaman nel grande giardino interno con fontana del palazzo settecentesco “Jabri House”, dove cenavamo, il vivacissimo Souk e tutto il resto, mi resero completamente impermeabile alle nubi di guerra che galoppavano verso quella sventurata regione. Ero diventata una tipica turista, ormai dimentica anche della nonna Ida.
E ora macerie e cadaveri, cadaveri e macerie, monconi e cadaveri, e cadaveri di bambini. E bambini soli, scarruffati fra brandelli di case col visetto pieno di spavento, di polvere, di cenere, di lacrime. Come li vediamo ogni giorno in Tv.
Codignola, si sa, guidò La Nuova Italia e fondò poi con Alberto Carocci le edizioni Carocci nel 1980. Mi rendo conto oggi, da questi pochi documenti che ho in mano, che fu un’amicizia importante quella col babbo, più giovane di lui di quattro anni (era del ’13). Nella mia infanzia infatti lui c’è senz’altro, – ma poi scompare, forse con l’allontanamento del babbo da noi. O fu il babbo che in seguito si allontanò da quel momento così tumultuoso della sua vita, anche troppo, pur continuando a impegnarsi nelle sue battaglie politiche e civili, e nei suoi divertimenti e passioni, prima fra tutti la musica?
Alle elezioni del 2 giugno 1946 Pippo, candidato nel XV Collegio elettorale di Firenze-Pistoia, era quarto nella lista azionista dopo Calamandrei, Max Boris e Campolmi: e si piazzò terzo dopo Calamandrei e Carlo Furno.
Max Boris non lo ricordo nella mia infanzia, ma sì quando ci incontrammo, io sedicenne, sul trenino che scala il Gornergrat, cioè il Cervino dalla parte svizzera, unico mezzo per raggiungere Zermatt: la fantastica cremagliera a trazione elettrica Gornergrat-Bahn. Nel piccolo vagone a picco su dirupi e vallate e diretto fra boschi innevati verso le nevi perenni delle cime eravamo solo noi due. “ Allez-vous faire du ski à Zermatt, mademoiselle?”. Ovvio, risposi in francese, e lui, un bel signore alto e magro, proseguì con me durante tutto il lungo percorso una conversazione genericamente beneducata, e solo alla fine azzardò una domanda personale, chiedendo di dove fossi: “Je suis italienne”. Come?! Meraviglie, scuse, curiosità, e di dove, Firenze??? E come mi chiamavo? Come!? Ero figlia di Paolo? Ecc ecc.
Ma più di lui m’incuriosì poi suo fratello Ivan che, prigioniero degli americani in India durante la guerra, era stato contagiato dal dèmone del gioco: con le vincite infatti riusciva a migliorare la sua condizione fra i prigionieri del campo. Così una volta rientrato aveva dissipato il patrimonio familiare al Casinó di Montecarlo, sfuggendo infine ai creditori con la bellissima moglie a Caracas. Qui oltre a mettere in piedi una fiorente industria di stoffe, aveva fatto ricerche su Anita Garibaldi e aveva scritto un curioso interessante libro su di lei. Libro che ebbi la sorte di aiutarlo a pubblicare da Rizzoli, dove avevo trovato il mio primo lavoro a Milano. Per anni mi propose un viaggio in Venezuela, dove con una avioneta avremmo raggiunto e sorvolato i meravigliosi paesaggi della foresta amazzonica e il Rio delle Amazzoni, Río Amazonas. Ma non c’è stato posto nella mia vita per questo viaggio che ora un po’ rimpiango.
Oggi in Venezuela c’è quasi un milione di bambini abbandonati negli orfanatrofi o alla stazione dei pullman, mentre i genitori emigrano in cerca di lavoro e cibo, o sono morti ammazzati nelle bande criminali di violenza e di droga.
Ay señor! … Ay de mí! Cuanta amargura y dolor.
Quanto a Carlo Furno, bè, era mio zio, avendo sposato la maggiore delle sorelle Gattegno, Lucia. Una famiglia severa e ottocentesca la sua, positivista, di antico e provato socialismo.
6.
Ecco dunque altre due lettere del babbo emerse dall’archivio Codignola all’Istituto della Resistenza di Firenze. La prima è del 25 gennaio 1958 ed è intestata “Studio Calamandrei”, Borgo Albizi 14 (ora “Piazzetta Calamandrei” dove porto la mia ultima nipotina, Nina, a scuola di danza). “Quante volte, scrisse il babbo sul “Ponte” nel novembre 1958, tentai di persuaderlo a lasciare queste vecchie mura dello studio, questa stretta, impraticabile strada che è Borgo degli Albizi, questo palazzo così mal tenuto, così délabré, col portone pieno di fiaschi di vino, di tricicli, di lampadari, di scaldabagni, sporco di paglia da tutte le parti. Mai prese in esame nemmeno la possibilità di un trasloco: l’attaccamento suo a questo studio, a questa stanza dove ora io sto scrivendo, era risolutissimo.”
Quando il babbo scriveva questi toccanti ricordi io avevo da poco compiuto i miei primi quindici anni di sonnambula, e Calamandrei non c’era più dal 17 settembre 1956, cioè da poco più di un anno. Era ben lontano ormai il febbrile periodo pre-costituente delle prime due lettere. Nei primi anni Cinquanta il loro lavoro era consistito soprattutto nello sforzo di mettere in atto la maggior parte degli articoli della neonata Costituzione, e di farla applicare anche alle leggi precedenti alla sua nascita, contro ogni tentativo di continuità tra fascismo e Italia repubblicana.
Questa terza lettera del gennaio 1958 dunque, con la dicitura “riservata”, è la risposta a una richiesta da parte di Pippo di un’opinione sul programma elettorale del PSI alle elezioni politiche di quell’anno: varie frasi sono sottolineate a lapis, probabilmente dal ricevente. Dopo la scissione del 1947 del Partito d’Azione e vicissitudini varie, Codignola nel 1957 aveva deciso di portare la sua minoranza nel Partito Socialista. In occasione delle elezioni era uscito un opuscolo dalla copertina rossa col programma, Il P.S.I. agli elettori, sul quale però a quanto pare esprimeva dubbi e critiche che il babbo dichiara in apertura di non condividere, sembrandogli invece il testo “chiaro e succinto”.
A questa premessa seguono tuttavia invece molte osservazioni decise e stringate: andava infatti affermata “anzitutto” la contrarietà a qualunque riforma costituzionale, perché, scrive, la costituzione era prima di tutto da attuare e solo dopo eventualmente da modificare (ricordo che Calamandrei la chiamava l’Incompiuta, e mi ci volle qualche anno in più per capire la battuta – tipica peraltro!). Poi bisognava chiarire “in senso restrittivo” i limiti dei poteri del capo dello Stato; rimandare l’attuazione delle Regioni, forse “inopportune” e “probabilmente del tutto impopolari” alla fine del programma; e reinserire sedici giudici della Corte costituzionale. Infine, non tacere sulla scuola (peraltro cavallo di battaglia di Pippo), né sull’urgenza della legge sindacale e sullo sciopero, e anche sul sistema tributario: “che deve rispettare realmente la progressività e deve offrire al contribuente un contenzioso serio e non buffonesco come l’attuale”. E qui riconosco la voce del babbo, molto più che nella sua scrittura di dieci anni prima. Più sicuro di sé, più vigoroso – ma anche meno ingenuo, e niente retorico. Infine un cenno ai rapporti fra Chiesa e Stato e il saluto: “Affettuosamente / tuo Paolo”. Da vecchi amici insomma, pur senza lasciar niente di taciuto.
Cos’è in questa lettera che ha “agito” facendo riemergere la sua voce? forse l’aggettivo “buffonesco”, inappellabile ma anche leggero, e che tuttavia intimorisce, com’era lui. “He is a lion!”, disse di lui settantenne, uscendo con un sorriso esausto dalla sala operatoria dopo sette ore il chirurgo di Boston Grillo (che loro chiamavano Grilow). E’ una voce la sua che a volte traspare per me quando dalla radio emanano i quartetti quintetti sinfonie sonate opere del divino fanciullo Wolfgango Amedeo Mozart, che lui ascoltava moltissimo, sempre:
Fonès
Voci mentali, voci care
di coloro che sono morti, o sono
perduti per noi come se fossero morti.
A volte parlano in mezzo ai nostri sogni,
a volte le sente il nostro cervello in mezzo a un pensiero.
E con la loro eco ritornano per un istante
gli echi della prima poesia della nostra vita,
come una musica lontana, la notte, che svanisce.
Questa mia traduzione da Cavafis risale all’inizio del 2000, quando nessuno era ancora morto, e dunque non la traducevo perché ci sentissi qualcosa di personale, ma solo perché è una poesia bellissima. Un punto cruciale, non vorrei annoiare con troppi dettagli, comunque, una crux, era stata la traduzione, nell’incipit:’Idanikès fonès ki ảgapemènes, dell’aggettivo ’idanikès, che sia Pontani che Risi-Dalmàti che Crocetti traducono con “ideali”: “Voci ideali e care …”; “Ideali amate voci … “; “Voci ideali e amate …”.
Come sarebbe, voci ideali? Mi sono scervellata sul senso della parola in greco moderno, aiutandomi almeno riguardo all’alfabeto con i ricordi del greco classico (una nèmesi contrappasso del nostro infastidito rifiuto di insegnarlo alla mamma che conoscendo il greco demotico voleva imparare quello classico). Finché ho trovato: “mentali”. Le voci degli scomparsi non sono ideali, che non vuol dire niente: sono mentali, sono voci della, o meglio nella, mente.
Di “voce mentale” parla con mia sorpresa un breve scritto di V.S. Naipaul nella traduzione di Franca Cavagnoli col titolo Leggere e scrivere, del 2000. Lo scrittore vi narra con stupefacente semplicità il difficile e faticoso percorso alla ricerca della propria voce narrante, il problema numero uno di ogni scrittore. La trova grazie a una sua traduzione in inglese, fatta per sé stesso in un periodo di giovanile smarrimento e indigenza, del Lazarillo de Tormes: “Per un verso, scrive Naipaul, la voce era quella di mio padre, dei suoi racconti sulla vita di campagna della nostra comunità. Per l’altro verso era quella dell’anonimo Lazarillo, giunta fin dalla Spagna della metà del Cinquecento. (…) Quella voce mi funzionava. Non era propriamente la mia, ma non mi sentivo a disagio. Era, in effetti, la voce narrante che tanto mi ero industriato a trovare. Ben presto mi divenne familiare, una voce mentale.”
Il misterioso Lazarillo de Tormes, di cui non esiste manoscritto e nemmeno si conosce l’autore, archetipo della scrittura pícara, recentemente riproposto con l’ottima curatela di Francisco Rico nella traduzione di Angelo Valastro Canale, è la storia di un ragazzetto che cresce nella grande Spagna imperiale, emarginato e sbandato tra Salamanca e Toledo ai tempi di Carlo V. E’ una lettera a una autorità e insieme una sorta di verbale pieno “di umorismo e di umanità” (Rico), e anche modernissimo, tanto che il critico Massimo Raffaeli (“Il Manifesto” 19.4.2020) ne ravvisa l’influsso, oltre che nel filone picaresco da Moll Flanders a Oliver Twist al Voyage di Céline, anche nel film messicano di Buñuel Los olvidados.
Anche qualcos’altro però ha illuminato per me, questo breve scritto. Nato in una comunità di immigrati dall’India in una piccola isola a piantagione, Trinidad, il piccolo Naipaul non era né trinidadiano né inglese (la sua lingua e cultura scolastica) e però nemmeno più indiano. Viveva, dice, come altri pochi indiani, “in una specie di limbo”. Per la strada, scrive, “non c’era nessuno come noi”. Questa cosa la conosco bene. E anche questa: “Così mi sentivo alle medie e mi sentii per molti anni ancora, ma non mi era mai venuto in mente di dirlo. Non avrei mai pensato di averne il diritto”.
Introdotto alla bellezza della letteratura dalle appassionate letture ad alta voce del padre autodidatta, ottiene una borsa per Oxford. Ma solo a gran fatica e depressioni, a poco a poco riesce a capire quale sia, oltre alla sua voce, il suo materiale: è “la strada cittadina con la sua comunità mista dalla quale noi ci eravamo tenuti in disparte, e la vita di campagna prima di allora, assieme agli usi e alle abitudini di un’India rimasta viva nel ricordo”. La sua vita nel limbo ma nell’isola, insomma, e una India viva nel ricordo: ma non nel suo ricordo personale, che era nato a Trinidad, bensì in quello dei grandi, naturalmente. Forse qualcosa del genere mi guida adesso scrivendo questi pensieri sparsi.
7.
E con Cavafis siamo tornati fra gli Alessandrini. Che a partire proprio dal novembre del ’56, due mesi dopo che se ne era andato Calamandrei, approdarono da noi, cacciati dall’Egitto e con i beni confiscati da Nasser, senza più l’argenteria né il Club né la dolce vita oriental-coloniale, gli amici e gli affetti: ma solo con “gli occhi per piangere”. “Nous leurs avons tout enseigné! Ils ont tout appris par nous autres! Qu’est ce qu’ils croient pouvoir faire tout seuls?!” Questa frase, che riguardava les Arabes, la ricordo come fosse ora, chissà perché, pronunciata con impotente, disperata spavalderia da un caro zio Émile, fra le tante in quei giorni e mesi di discussioni politiche a voce altissima e di agitazione generale.
Alcuni decidevano di raggiungere Parigi, altri Madrid o Londra, altri Israele, e fra questi i miei due preferiti, la cugina della mamma Stella e suo marito Raoul Attias: lei piccola ma con una bella bocca dipinta di rosso vivo, l’eterna sigaretta fra le labbra, le ciglia nere lunghe e arcuate divise dal rimmel accuratamente distribuito, le sopracciglia nette e ben ridisegnate con la matita, la vita stretta dalla cintura e la gonna a campana. Stella aveva gli occhi stellati e un sorriso nonchalant e insouciant (“je ne vais pas me faire des soucis!”) e chissà forse nella tragedia non le dispiaceva il vento di novità: Eretz Israel.
Quanto a Raoul, è curioso come certe fisionomie si stampino della memoria da ragazzi: alto e peso, con una voce tonante che usciva dalle grosse labbra ebraiche, gridava al mio apparire come fosse un miracolo, riempiendomi di gioia: “Eccola la basusa! Cosa fa questa basusa?” Basusa significa, diceva, ochetta in arabo, ma non sono mai riuscita a verificarlo per l’impossibilità di decifrare la parte Arabo-Italiano del vocabolario. Forse è invece judesmo, o giudeospagnolo o ladino, la lingua dei sefarditi nel Mediterraneo, quella di Elias Canetti insomma, quella riemersa da una infinità di tempo nella voce della mamma quando si avvicinava ai cento anni. Come che sia, questo è rimasto per me il più dolce e istintivo vezzeggiativo con i bimbi piccoli, che ormai amo con tutto il cuore. Per un certo tempo i parenti stavano con noi nelle nostre case, ma “Quién bien se quiere, en poco lugar cave!”, chi si vuol bene sta in poco posto, diceva la mamma nel suo ladino o judesmo ritrovato nei proverbi.
E di tutto ciò non si parlava con nessuno, non ci veniva in mente, non pensavamo di poterlo fare, come dice Naipaul.
Insomma, noi sempre altrove, fin da piccola, con le canzoncine francesi Ainsi font font font, les petites marionnettes … ainsi font font font … un petit tour et puis s’en vont!, roteando le mani. E poi, una malinconia … una malinconia … come nella meravigliosa, lentissima Nana, la ninna nanna nelle Siete canciones populares di Manuel De Falla del 1915, Duérmete niño, duerme;-/- duerme, mi alma, / duérmete, lucerito / de la mañana … Quanto a quelle italiane, di ninne nanne, a parte la sola Coscine di pollo che mi cantava una vecchia tata, le ho scoperte da grande, con un amico che sembrava nato per diventare un fantastico chansonnier, ma non lo era: vecchie canzoni classiche napoletane, o francesi genere Charles Trenet. Mi cantava una ninnananna maremmana, Cade l’uliva non cade la foglia … le tue bellezze non cadono mai … E tu se’ come l’erba tenerina …che più che tu cresci più doventi carina … (…! mamma! …).
So bene che queste mie note a margine di una storia che non c’è sono le classiche lungaggini degli ebrei, i quali per secoli hanno commentato un testo in una lingua sommersa, priva di vocali, costruendo una impressionante mole di ipotesi di interpretazione che vanno a formare un secondo libro, più grande ancora del primo. Ma in fondo l’aria del tempo sta anche in certe musiche, non solo nel PanArabismo, no?
Per esempio l’idea che senza un uomo una donna non vale niente (poveretto! sentivo dire quando, spessissimo, a tavola eravamo più femmine che maschi, – come il gallo della Checca! Poverino, con tutte queste donne …). Ecco, questa idea, non avrà poi forse a che fare con quelle micidiali canzonette da Jacques Brel con Ne me quitte pas (laisse-moi devenir l’ombre de ton ombre … l’ombre de ta main … l’ombre de ton chien …) a Gilbert Bécaud con Les feuilles mortes, alla Sagan di Bonjour tristesse (Depuis … qu’on est ensemble … tu viens … chaque matin … me donner ta … première caresse … Bonjour, tristesse!). Ma perché mai la tristezza, che razza di buongiorno, così, all’alba?!
Comunque, sentivo blandamente, pur pensando che non mi riguardava, che anche fra gli ebrei c’erano gli ebrei di prima categoria, quelli di seconda e quelli di terza. Tanto per cominciare, e Yeoshua con suo padre sefardita lo racconta benissimo, anche in Israele gli ashkenazi si sono sempre sentiti superiori ai sefarditi mediterranei e mediorientali, anche se nativi spagnoli di quattro secoli fa: e dunque anche loro europei. I sefarditi, anche quando con la Spagna non hanno mai avuto alcun contatto, individuano ancor oggi con orgoglio la loro origine nella Sefarad, la Spagna. Anzi, per questo motivo sono affetti da un senso di perdita: la loro è una identità spagnola virtuale, che mischia nella memoria, come nella Spagna del Siglo de Oro, cristiani, musulmani e ebrei.
Di qui la nostalgia dei canti spagnoli che li nutrono, come la Nana di cui sopra. “L’esistenza inconscia dell’altro nell’identità sefardita ha dato all’ebreo sefardita un cuore forse più pesante e più triste, ma di sicuro lo ha reso più tollerante”, disse Abraham Yehoshua nel 2015 all’Ambasciata di Spagna, al Festival Sefarad in occasione della promulgazione della tanto attesa Legge del Ritorno da parte del Re spagnolo Don Felipe.
Ma c’era anche un’altra identità virtuale dei miei ebrei: la borghesia. Un giovane studioso, Dario Miccoli, ha pubblicato da Routledge nel 2015 Histories of the Jews of Egypt 1880-1950 (sono le date dei miei), con un sottotitolo che fa centro: An Imagined Bourgeoisie. A partire dal loro arrivo al Cairo e in Alessandria alla fine dell’Ottocento fino a Nasser, le storie di questa diaspora in Egitto sono connotate da un immaginario di sé stessi come borghesi levantini cosmopoliti, una sorta di élite particolare (e anche alquanto classista), all’incrocio fra Europa e Medioriente: un’isola super partes in mezzo ai progetti imperialisti o nazionalisti in competizione fra loro.
Quando volli tornare in Alessandria negli anni ’90, non ci andare, mi diceva con veemenza lo zio Émile mescolando varie lingue in un’unica frase, come tutti loro, non c’è più niente! Que vas-tu faire? Cosa vai a vedere? Al massimo vai al Museo greco-romano, il resto … è tutto sparito. Il n’y a plus rien!
Imparo da un breve scritto autobiografico del simpaticissimo Cesare Cases (Cosa fai in giro?) che Benjamin, Bloch e Gershom Scholem teorizzavano l’incompatibilità di borghesia e spirito ebraico. E tuttavia condivido invece pienamente con Cases e con Natalia Ginzburg il “segreto di Pulcinella” che negli anni trenta e dopo, essere ebrei significava semplicemente “un modo di essere borghesi”. E anche fra gli ebrei italiani c’erano quelli di prima e di seconda, a seconda del livello sociale. Quando poi, dice Cases, cominciarono a arrivare i primi profughi dalla Germania, si aggiunsero quelli di terza, “abbastanza invisi alle prime due come stranieri di origini incerte e complicate, cui bisognava attribuire qualche colpa misteriosa – anche se non quelle imputate dai nazisti – per togliersi dalla mente l’incubo di poter mai subire un destino analogo”. Ecco, negli anni cinquanta e sessanta la guerra era finita, la Shoah pure, e … ancora profughi? … Negli anni cinquanta? … Negli anni sessanta? E dal Medioriente?
Secondo me, anche i miei – e specialmente quelli che si erano fermati in Italia – temevano oscuramente di essere diventati di terza.
Eccoci così alla quarta e ultima lettera del babbo a Pippo, del 21 febbraio 1962, su carta intestata allo studio di via Lamarmora (ora via La Pira) n.14. Sono acclusi alla lettera “un foglio truffaldino” e una lettera di Don Lorenzo Milani. Credo che la lettera di Don Lorenzo sia inedita: ed è una bellissima lettera (“che mi pare molto espressiva e esatta”, commenta il babbo) di cui non potremo a meno di riportare qualche stralcio. Il “foglio truffaldino”, come lo definisce il babbo, consiste in due fogli acclusi come in un palinsesto alla lettera di don Milani: uno è il regolamento per partecipare al “Concorso a premi P.E.R.I.S.” della ditta milanese “Plastics Esecutions Reproductions Image Systems” (sic!), ditta di riproduzioni fotografiche “in plastic system”, cioè ingrandimenti fotografici plastificati. Chi ordina, e paga, un tale ingrandimento, parteciperà nel gennaio 1963 all’estrazione a sorte di un premio fra: televisori, lavatrici, cucine a gas, enciclopedie, lucidatrici a 9 spazzole, cronometri in Oro, giradischi a valigia, frullatori-macinacaffè, aspirapolvere: ma con la spedizione a carico dei vincitori.
Il secondo è un contrattino della suddetta ditta, diciamo così, con l’ordine della riproduzione fotografica ingrandita e plastificata, e la clausola: “nessuna ordinazione e per alcun motivo potrà essere annullata, salvo quelle fatte da minorenni, analfabeti e indigenti”. E’ il numero 3848, stipulato il 17 febbraio ‘962, da Salti Marisa, sarta di Baldracca nel comune di Vicchio nel Mugello: poche case con il Monte Giovi all’orizzonte, al cosiddetto Mulino di Baldracca, non distante dalla frazione di Barbiana e dalla chiesa di Sant’Andrea dove don Lorenzo fu parroco fino al 1967. Dietro, prati a pascolo, a sinistra il bosco, e non lontana la sua visionaria Scuola nonché, nel piccolo cimitero raggiunto dalla mulattiera, la sua tomba. L’ignara sarta Marisa Salti firmava qui l’ordine di ben 2 saggi-prova di ingrandimenti, per un totale di 20.000 lire, ovvero più di 600 euro.
“Caro avvocato, scrive don Lorenzo, le accludo un esemplare dei fogli che alcune mie parrocchiane hanno stupidamente firmato. Altri 7 o 8 (di questo e altro popolo vicino) ne ho mandati all’avv. Nelli. Altre al maresciallo di Vicchio e un’altra ancora a Marco Ramat. A questi tre perché studino cosa si può fare immediatamente per questi disgraziati che hanno tutti firmato per 20 o 30 o anche 50.000 lire. A lei lo mando perché mi dica cosa si potrebbe proporre a qualche deputato sul piano legislativo per proteggere gli sprovveduti da questi truffatori che sanno truffare senza intaccare il codice”.
E il babbo di rimando a Pippo: “ … sistemi truffaldini di questo genere hanno trovato sinora un’incredibile indulgenza nella magistratura; credo anch’io che occorrerebbe una legge speciale. … la questione potrebbe interessare addirittura il partito.”. Ignoro se poi il PSI abbia fatto propria la battaglia, ma leggiamo ancora l’accorato racconto di Don Milani: “Donne che fanno cappelli per 40 lire l’ora, che risparmiano 100 lire d’automobile per tornare dal mercato a piedi e cariche per 7 km. di salita, abituate al risparmio più rigido per comprare al bambino un paio di scarpe da 1.000 lire una volta l’anno non hanno certo voluto ordinare 5 ingrandimenti fotografici per 50.000 lire”. I cappelli che facevano le donne erano probabilmente quelli per le antiche industrie di cappelli di paglia che erano rinate dopo la guerra, con treccia a undici capi e sopraccucita; 40 lire corrispondono a circa 2 euro, 100 lire a meno di 6, 1.000 lire circa 60 e 50.000 lire circa 3.000.
“Hanno firmato”, si sdegna don Milani con un crescendo, un climax come si dice, veramente manzoniano, “perché questi tali hanno detto loro che non avrebbero speso neanche una lira. E hanno firmato senza leggere perché sanno leggere a fatica oppure sanno leggere ma non intendono, oppure intendono, ma non sono abituate a pensare, a badarci, a difendersi.”
La legge, suggerisce il parroco, potrebbe legare la validità di una firma di cambiali o simili, da parte di chi non ha titolo di studio superiore, a una controfirma di tre giorni successiva. Oppure, si accalora, “pena di morte con tortura a chi parte dalla città verso la montagna col preciso scopo di spillare quattrini ai montanari profittando del loro basso livello culturale … Avete studiato per millenni leggi adatte per fregare i poveri a favore dei ricchi, possibile che con la stessa tecnica non ci sia verso di fare viceversa?”. La lettera conclude con un distinguo fra chi firma in casa, a cui va data una presunzione di ragione, e quei contadini furbi che vanno a firmar cambiali nelle botteghe. “Ci scriva presto qualcosa, ci rimandi il foglio che le accludo e torni presto a trovarci, suo Lorenzo Milani”.
Torni presto a trovarci… in quei mesi mi stavo iscrivendo, sempre come una sonnambula, a Lettere: poteva portarmi! Poteva dirmelo! Comunque, immagino, toccato dall’ardore del prete e senza certo prendersela per quella seconda persona plurale un po’ provocatoria (“avete studiato per millenni leggi adatte per fregare i poveri …”), il babbo fu con lui e dalla parte degli obiettori di coscienza, difendendo La Pira nel febbraio 1963, con Giorgio Della Pergola (ma non era un nostro vicino ebreo?), nel procedimento penale a suo carico di fronte alla Corte Costituzionale: che lo rimandò al Tribunale di Firenze.
In quel caso il reato (istigazione a delinquere e apologia di reato, perché contro l’obbligo della leva) era stata la proiezione organizzata da La Pira il 18 novembre ’61 – nonostante il divieto della Commissione censura e senza la licenza della Questura – del film di Autant Lara con il fascinoso e bel tenebroso che ci piaceva tanto Laurent Terzieff Tu ne tuera point, in italiano Non uccidere (quinto comandamento): proiezione che fu poi bloccata al cinema Quattro fontane di Roma, dove erano corsi tutti gli intellettuali scrittori e artisti italiani del momento. La questione si ripropose due anni dopo al processo a Don Milani per la lettera aperta ai cappellani militari che avevano definito l’obiezione di coscienza “insulto alla patria” e “espressione di viltà”. Ma il parroco morì prima della sentenza (colpevole).
Curiosamente, non sapevo che la mamma di don Lorenzo, Alice Weiss, era una ebrea boema cugina di Edoardo Weiss e che dunque conosceva il lavoro di Freud, nonché avere studiato l’inglese con Joyce allora insegnante alla Berlitz School di Trieste. La sua nonna paterna inoltre era Laura Comparetti, figlia del filologo Domenico e della pedagogista Elena Raffalovich: mamma, nonna e bisnonna di alta qualità dunque, tutte italiane di confine …Che c’entra? Secondo me c’entra.
I suoi erano ambedue “agnostici”: ma Lorenzo si era convertito nel 1943, e fu cresimato il 13 giugno dal cardinale Elia Dalla Costa. Che era il cardinale antifascista al quale si dovette forse la liberazione del babbo dal carcere nazista alla Fortezza da Basso alla fine di quel 1943, proprio quando don Lorenzo entrava nel seminario di Cestello in Oltrarno. Curiose coincidenze! Dalla Costa, quando nel 1938 il “messo infernale” Hitler era “passato a volo” da Firenze “tra un alalà di scherani”, come dice Montale ne La primavera hitleriana, aveva fatto lasciare chiuse le finestre del palazzo arcivescovile: perché non accettava, disse, di venerare “altre croci (a uncino) che non quella di Cristo”. E nel 1947 fu lui a ordinare sacerdote don Lorenzo.
Forse se fossi andata alle lezioni aperte di don Milani in quel 1961quando non sapevo scegliere fra la danza classica e l’università, forse, chissà, non avrei fatto Lettere, verso cui pendeva la bilancia per via del successo del mio tema della maturità che si concludeva con una citazione dai Malavoglia: “Il mare è amaro e il marinaio muore in mare”, credo un vecchio proverbio. E però anni dopo avrei perso la bellezza di un simile ma più sublime gioco di labiali nel Mottetto montaliano dall’incipit perentorio che dice tutto ma non dice niente, per poi aprirsi a quella terribile dolcezza allitterante: “Lo sai, debbo riperderti e non posso. / Come un tiro aggiustato mi sommuove / ogni opera, ogni grido / e anche lo spiro / salino che straripa / dai moli e fa l’oscura primavera / di Sottoripa. …”.
Il 22 dicembre 1961, due giorni dopo il mio diciannovesimo compleanno, moriva il cardinale Elia Dalla Costa.
Mah.
Mi accorgo dunque con questo andar postillando, che il babbo, pur se laico e “agnostico” era legato da stima e amicizia a una generazione di quei cattolici di sinistra che muove dai padri costituenti La Pira e Dossetti, e comprende don Milani, padre Balducci alla Badia fiesolana, il giudice Meucci … Di tutti loro, ricordo una caratteristica comune: il sorriso. Erano sempre lieti e sorridenti, senza esitazioni, sia con gli sconosciuti come me, che anche parlando fra loro, magari anche di cose tristi e serie. Era fiducia in sé stessi? Negli altri? Nella Provvidenza?
Non so, ma certo che i miei ebrei invece portavano in sé dal quindicesimo secolo il sentimiento trágico de la vida, per dirla con Unamuno: il senso tragico della vita degli spagnoli. Un senso tragico, e pure melodrammatico come nei film di Almodóvar, anche se accompagnato dall’umorismo: come in certe stramberie della mamma, pronta però a ritrarsi se non veniva capita al volo.
Io stessa scrivendo qui di alcune, minime, delle tante battaglie italiane del babbo, sento sbiadire, deboli deboli, le forze dei flashes memoriali di lei, la sua Alessandria e i suoi Alessandrini, e quel modo che avevano le fanciulle, e lei una volta ci provò ma fu bloccata dalla nostra irrisione di bambine, di ballare muovendo le braccia e le mani … Come le ballerine spagnole che rivelano solo a un certo punto un suono di castagnette, le castañuelas, le nacchere nascoste nei palmi: ed ecco che il movimento sinuoso si propaga in tutto il corpo. Così immagino per esempio che ballasse il flamenco la Argentinita, che collaborava con Garcia Lorca nella diffusione del cante jondo popolare gitano-andaluso, quando lo cantava con duende accompagnata al piano da Federico: questo aveva nel sangue la mamma.
E dopo qualche tempo, i rifugiati partirono tutti: chi era già in America, come lo zio noto matematico Jacob Gattegno a New York, chi come la cugina Maggie a Wimbledon vicino a Londra, chi come la cugina Gaby in una grande appartamento semivuoto a Parigi, dove faceva i suoi complicati solitari con due degli innumerevoli mazzi di carte che tutte loro si portavano dietro nei loro vari spostamenti, astraendosi ogni tanto davanti al solitario e poi lasciando nei portacenere il bocchino d’avorio macchiato di rossetto con la sigaretta fumatale sigarette fumate a metà.
E chi come la sorellina minore, la più allegra e leggera, Maggie Haym, con Charles e il suo commercio in avorio, per Madrid, e chi come la bella Nessya con il caro Émile Amariglio, o come Noemi detta Mema dal viso intelligente aristocratico con Guido Tagliacozzo, per Milano, chi infine come Stella e Raoul Attias, o il cuginetto Albert Béhar, detto Berto, in Israele.
Armi e bagagli, e con loro tutti i loro figli e figlie piccoli …
Adieu!
10.
Ecco dunque per chiudere – visto che lo abbiamo nominato – Bid Adieu, undicesima composizione di Chamber Music, raccoltina di James Joyce del 1907: la sola poesia con una melodia musicale scritta da lui:
Bid adieu adieu adieu
Bid adieu to girlish days
Happy love is come to woo
Thee and woo thy girlish ways –
The zone that doth become thee fair
The snood upon thy yellow hair.
When tou hast heard his name upon
The bugles of the cherubin
Begin thou softly to unzone
Thy girlish bosom unto him
And softly to undo the snood
That is the sign of maidenhood
Bid adieu adieu adieu
Bid adieu to girlish days …
(Dai l’addio Adieu Adieu Dai l’addio ai giorni della fanciullezza E’ arrivato il grande amore a corteggiare Te e a corteggiare i tuoi costumi di fanciulla – La cintura che si addice alla tua bellezza Il nodo sui tuoi capelli biondi. Quando senti il suo nome da Le trombe del cherubino Incomincia dolcemente a allentare Il tuo seno di fanciulla verso di lui E dolcemente a sciogliere il nodo Che è il segno della verginità. Dai l’addio Adieu Adieu Dai l’addio ai giorni della fanciullezza … Trad. mia)
Con la sua bella voce tenorile, Joyce pronunciava Adieu come adioo (rima: to woo) secondo Edmund Pendleton, cui si deve l’arrangiamento musicale dell’aria. Lo snood era una specie di nodo che teneva una reticella per i capelli delle fanciulle in fiore nella Scozia elisabettiana: una volta sciolto col matrimonio, dava alle vergini la condizione di donne maritate.
Laura Barile
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