La Mole Adriana, Castel Sant’Angelo, apparteneva agli itinerari della mia adolescenza romana. Tuttavia ero un uomo adulto quando mi accorsi che la statua dell’arcangelo Michele che lo sovrasta, “l’Angelo di Castello”, non stava sfoderando la spada ma rinfoderandola, dopo aver debellato una pestilenza – quella del 590: la statua attuale è più tarda di molti secoli. L’ambivalenza di un gesto, di una positura, è affascinante: una dichiarazione di guerra che può essere la sanzione di una pace e viceversa. Alla vigilia della cosiddetta ripartenza sono finalmente andato a vedere Firenze deserta: avevo una ragione di lavoro, ero autorizzato. Avevo in mente la “Città ideale” rinascimentale, quella celebre del dipinto custodito a Urbino, con le sue architetture esemplari e l’esercizio virtuoso di prospettiva. La tavola, che ha due sorelle, una a Baltimora e una a Berlino, ha fatto arrovellare gli studiosi sull’ “enigma” dell’autore: Leon Battista Alberti, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini, Giuliano da Sangallo, Melozzo da Forlì, o un “Pittore dell’Italia centrale”, o forse addirittura Piero della Francesca, di cui è conservata là accanto la Flagellazione, anch’essa enigmatica per antonomasia, non per l’autore – è firmata – ma per il soggetto. La Città ideale fu dipinta probabilmente attorno al 1490. A colpire specialmente è che nella sua scena – 68 centimetri di altezza per 240, un formato che somiglia alla fotografia panoramica dei nostri smartphone – non figura nemmeno una creatura umana. La Città ideale degli umanisti, “a misura d’uomo e fatta per l’uomo”, è vuota di uomini e di donne. Ci sono, unica animazione, due tortore, su un cornicione. Un po’ di vegetazione sui davanzali mostra che è stata abitata, ma l’impressione che conta è quella: che la manifestazione più creativa del genio umano, il culmine della civilizzazione, la città perfetta, è deserta. Chi la guardi con occhio ingenuo può chiedersi se sia stata abbandonata da coloro che l’abitavano, per qualche minaccia, un nemico, una peste, o se aspetti, tutta nuova, coloro per i quali è stata edificata. Se venga dopo qualcosa, o prima. Dopo la bomba al neutrone, o prima che il pubblico entri e prenda posto e gli attori vengano in scena e la recita cominci. “Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium”, così lamenta Dante nella Vita Nova, riprendendo Geremia per dire Firenze spogliata dalla morte di Beatrice. “Come sta solitaria la città un tempo piena di popolo! È divenuta come una vedova, la grande fra le nazioni”. Ho visto e fotografato, turista domestico dal privilegio inaudito, Firenze deserta, i suoi luoghi canonici, Santa Maria Novella, San Lorenzo, la Basilica di San Marco, quella dell’Angelico, il Battistero, Santa Maria del Fiore, la Cupola, Orsanmichele, piazza della Signoria e il Palazzo Vecchio, la Loggia dei Lanzi, gli Uffizi, il Ponte Vecchio, Palazzo Pitti… Vuoti: tranne una camionetta e una pattuglia di militari sotto il campanile di Giotto. La Città ideale. Nel dipinto di Urbino i palazzi hanno delle finestre e delle porte aperte, e io, arrivato a Palazzo Vecchio, ho trovato spalancato il suo portone, benché non si vedesse anima viva né fuori né nel primo cortile. E anche qui veniva da farsi la stessa domanda, se si fosse al dopo di qualcosa, o al prima, a una vigilia o a un’indomani. Se la città “sola, come vedova”, fosse stata disertata dai suoi o li stesse aspettando. Aspettasse i suoi abitanti, quelli che la meritano, che merita. Mai abbiamo assistito a questo. Città svuotate dai bombardamenti sì, ma gli umani erano negli scantinati e gli edifici ridotti in macerie: qui sono i palazzi, le basiliche, i monumenti a mostrarsi soli, magnifici, spogliati e immersi nel silenzio. Si prova un disagio, come scoprendo che nel proprio giardino è sbocciato e fiorito un fiore splendido e si è stati così distratti da non dargli neanche un’occhiata. A Firenze l’ambiguità estetica e morale, più che in ogni altra città tranne Venezia, ha anche un’ambiguità sociologica. Perché la Firenze storica è andata molto oltre nella diserzione dei suoi cittadini fuorusciti, i fiorentini antichi o avventizi che si sono delocalizzati per fare delle loro case B&B per stranieri e scolaresche, e ora si scopre vuota di fiorentini e di ospiti, e fa i conti con l’ultima imprevista puntata del vivere di rendita sui secoli andati.
La ripartenza stenterà un po’ a ingranare, poi probabilmente, salve ricadute, tutto tornerà, se non come prima (questo è ormai impossibile), quasi come prima. Le strade deserte torneranno affollate: il vuoto e il silenzio sono stati possibili, il frastuono e la ressa anche, è il diradamento la cosa difficile, la discrezione. La misura – la “misura d’uomo”.
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Un profondo inchino alla sensibilità di Adriano Sofri.