A casa mia, fra l’aia e il resto del giardino, avevo arrangiato una barriera di canne e rete per impedire ai due cagnolini di finire sotto i pini, alla portata della processionaria che li infesta. La notte di vigilia di Pasqua attraversavo di corsa il giardino sotto un gran temporale, non mi sono accorto che il vento aveva abbattuto la rete, ci sono inciampato e ho fatto un madornale capitombolo, fratturandomi rovinosamente il femore. Se l’omino che scivola sulla buccia di banana è comico, figuratevi l’omino impigliato nella rete anti-processionaria. Così sono rientrato da veterano nel servizio ospedaliero: dal pronto soccorso all’intervento all’avvio alla fisioterapia, necessaria per reimparare a camminare, cioè, diceva un pedagogo tedesco, a cadere da una gamba all’altra. Ogni volta si scopre qualcosa di inimmaginato. Voi magari sapete che cos’è la sostituzione di un femore. Io non ne avevo un’idea. Ha più a che fare con la fucina di Efesto, o una vasca di mattatoio, un piazzale di rottamazione o un concerto futurista rumorista di Luigi Russolo, che con l’eleganza della chirurgia. Avete fatto l’epidurale, rinunciato alla sedazione, anzi chiesto di poter guardare la macelleria nel suo svolgersi. Non si può, vi dicono, ma siccome c’è solo un tendaggio a separarvi dalla vostra metà espropriata, sentite oltre un’ora di frastuono di ferraglia: vere mazzate di martello, trapani, seghe e frese e scalpelli e puzza di bruciato. Alla fine, quando vi hanno ricucito e rimesso alla luce, vi chiedete come sia possibile che tutto quello sferrare non abbia sbriciolato la vostra metà inferiore, e invece no, e dopo poco perfino il dolore lancinante che vi dava l’osso rotto cede a uno quasi calmo e riposante. Gli ortopedici sono visti dagli altri chirurghi appunto con il sussiego con cui gli déi e le dee dell’Olimpo vedevano i sudati fabbri di Efesto-Vulcano nelle viscere dell’Etna, fra mantici incudini martelli e tenaglie. Gli ortopedici replicano con la perfezione finale dei frutti delle loro mazzate, come la rete d’oro che immobilizzò nel suo clou l’amplesso adultero di Ares e Afrodite nel letto del tradito Efesto e ne fece gli zimbelli degli dei olimpii, e così sia del mio nuovo femore di titanio e porcellane che mi riporti nelle guerre del mondo al riparo dall’azzardo del giardino. Ieri poi un pezzo del New York Times gettava l’allarme sul pesante rincaro delle protesi di femore provocato dal rialzo delle tariffe voluto da Trump sui prodotti cinesi. Chiederò, forse anch’io ho un grosso osso cinese nell’anca destra. Se mi ritroveranno un giorno in qualche ghiacciaio del Similaun avrò molte cose su cui fornire spiegazioni.
Alla vigilia dell’operazione, ennesima per i miei ultimi anni, nel letto sussultorio anti-decubito che ricorda la pantera rosa, mi sono ricordato del mio amico Zatiar, colonnello peshmerga, che nella notte precedente la prima giornata della controffensiva su Mosul, scorsa su un freddo e desolato campo di macerie, si rase la barba a secco perché un comandante dev’essere sempre in ordine in battaglia. All’alba, quando cominciò l’avanzata, era roseo e fresco come un giovanotto e io ero verde di sonno e grigio di freddo. Così, con movimenti lenti e scrupolosi da orologiaio, ho versato dell’acqua minerale in un bicchierino di plastica, ho spalmato della schiuma sulle guance e sul mento, e mi sono sbarbato. Era ancora notte, c’era solo una luce azzurrina, mi sono versato l’acqua addosso, ma quando sono venuti a prendermi ero in ordine. Non ci avranno, Zatiar.
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