Cari amici,
su Tuttolibri di sabato scorso questa gratificante (per me) recensione di Massimiliano Panarari. Il libro è sempre Quel signore di Scandicci (quarant’anni di strisce di Bobo).
Per chi se lo fosse perso, a questi link è possibile rivedere l’incontro tra me, Dacia Maraini e Luca Raffaelli, “Amore a fumetti”.
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Ciao,
Sergio
L’alter ego di Staino comparve nel ’79 su Linus, proseguì sull’Unità per prendere in giro il Partito. Inquieto come il suo inventore, pieno di dubbi pur anelando a delle certezze, ha raccontato il Paese
QUEL SIGNORE DI SCANDICCI
AUTORE: SERGIO STAINO
EDITORE: RIZZOLI LIZARD
GENERE: FUMETTI
DATA PUBBLICAZIONE: 2020
PAGINE: 400
PREZZO: 24 €
MASSIMILIANO PANARARI PUBBLICATO IL12 Dicembre 2020Se si vogliono comprendere le aspirazioni, gli slanci, le generosità, le illusioni, i travagli e i disincanti della parte migliore della sinistra italiana ci sono due strade. Una, più pensierosa e che richiede tempi prolungati, è quella di dedicarsi ai saggi (alcuni davvero preziosi) che, nel corso dei decenni successivi al 1989, si sono esercitati nel tentativo di comprendere cosa rimanesse delle famiglie nazionali del progressismo dopo lo schianto della narrazione costitutiva (tale anche per coloro che si definivano in termini alternativi o antagonistici rispetto ad essa).
E i lockdown e semilockdown di questi mesi, peraltro, forniscono parecchie finestre temporali per farlo. L’altra, altrettanto efficace, ma più veloce e, a proposito di confinamenti che si prolungano, con il plusvalore del rallegrare l’intelligenza e lo spirito, è quella di pigliare e mettersi sul comodino Quel signore di Scandicci di Sergio Staino. Ovvero l’antologia (ultra) quarantennale delle opere, avventure, disavventure e pensieri di Bobo, l’alter ego del suo creatore, che fece la propria comparsa il 10 ottobre del ‘79 sulle pagine di Linus. La piccola Ilaria – la figlia, e futura presenza fissa nelle strisce a fumetti – aveva allora quattro anni. E, seppure indirettamente, era stata un’amorevole causa scatenante della fuoriuscita del papà dall’iperestremistico Partito comunista d’Italia marxista-leninista. Un fattore di ritorno alla realtà, che fa sterzare Staino verso il benedetto riformismo o, forse e meglio ancora, come dice lui stesso, verso il buon senso (e, non di rado c’è una coincidenza tra i due). Nonché una fonte di ispirazione, perché – come scrive nella prefazione Dacia Maraini – «è proprio nel suo rapporto con i figli e prima di tutto con Ilaria, una bambina a cui non si può non volere bene, che Bobo-Staino cresce o almeno cerca di capire come va il mondo. E per far questo adopera lo strumento che conosce meglio: il disegno». Attraverso cui il Nostro compone delle vignette che valgono degli aforismi krausiani, tenendo insieme vita pubblica e vita privata (e, d’altronde, non è forse proprio per la sua generazione che il privato è eminentemente politico?).
Prima che ci abituassimo a chiamare così i graphic novel, dunque, c’era anche Bobo. Con la sua famiglia biologica e quella allargata, composta dalle amiche – più o meno – femministe della moglie Bibi (lo sguardo complementare e conflittuale di genere), e dagli amici espressione delle varie anime della galassia delle sinistre. Più l’inseparabile Molotov: nomen omen, una sorta di compendio dello stalinista impenitente e del comunista trinariciuto, l’incarnazione dell’ortodossia che arrivava praticamente per direttissima dalla Rivoluzione d’ottobre, con il quale Bobo finisce a volte per confliggere, pur sentendo in qualche modo il «richiamo della foresta» rossa, anzi rossissima.
Quarant’anni di storia nazionale attraversati talvolta a grandi falcate, talaltra a passi lenti e cogitabondi, in un miscuglio di entusiasmi e dubbi cartesiani. Esposti nei testi che intervallano le sezioni di questa raccolta dallo stesso Staino, come quando rievoca il combinato disposto di stupefazione ed eccitazione di fronte alla richiesta del neodirettore de l’Unità Emanuele Macaluso di collaborare: «non riuscivo a capacitarmi di questo insistente desiderio. Come poteva un disegnatore satirico, normalmente usato per dileggiare i nemici di classe, essere accettato sulle pagine di un organo ufficiale del Partito comunista per prendere in giro i dirigenti dello stesso?».
Bobo è un incrocio tra Zeno Cosini, Martin Eden e un (anti)eroe – toscanissimo, va da sé – del comunismo all’italiana. Giustappunto inquieto come il suo inventore, dotato di autoironia e intriso di scetticismo pur anelando a delle certezze. Che diventano sempre meno al passare del tempo, col segno grafico che cambia al mutare del paesaggio sociopolitico circostante, mentre i figli crescono e lo smartphone arriva perfino nella tasca del suo Bobo. E mentre cambia pelle quella «Cosa» (si usa il sostantivo rigorosamente nell’accezione di Nanni Moretti) che è stato il Pci, il quale tra Firenze e la limitrofa Scandicci ha rappresentato una comunità assoluta e totale, capace di vivere a lungo di una connessione sentimentale profonda con il suo popolo. Precisamente ciò che ha vissuto Bobo, senza rinunciare però mai, come il suo maieuta, a una certa (salutare) qual dose di scetticismo e alla capacità di mettersi costantemente in discussione. Come raccontano queste pagine che documentano più di un quarantennio di strepitosa e ironica politica a vignette. Un lungo e straordinario romanzo grafico, spesso più reale (e realista) della realtà, e un baedeker ilare e brillante per sintonizzarsi sulle speranze e i patemi d’animo di tutta una parte dell’opinione pubblica italiana. Oltre che, di questi tempi, un’ottima strenna natalizia.
E per apprezzare tutto quello che Bobo (uno, nessuno e centomila) significa, bastano – più di tutte quelle precedenti – queste poche considerazioni: «Lo storico del futuro che, all’interno della sua calotta antiradiazioni, voglia capire che cosa è successo a una generazione italiana, oltre ai molti rispettabili documenti che si troverà a sfogliare, dovrà tener presente anche Bobo, forse più che dei libri di Toni Negri, dei discorsi di Berlinguer, o delle annate di Lotta Continua». Parola di Umberto Eco
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