Il segretario, prima di mandarlo via, gli volle fare una domanda secca: “ma come hai fatto a vendere tutte queste copie?”
“Ho parlato con la gente, gli ho spiegato che noi li difendiamo dalle prepotenze dello Stato, della Mafia e dei grandi proprietari terrieri. E loro si sono fidati di quello che gli ho detto.”
Il segretario annuì, gli strinse la mano e gli diede appuntamento la mattina seguente, Pio (La Torre) si avviò verso la porta, ma prima di uscire si rivolse ancora al dirigente: Sai, non c’è bisogno di conoscere l’italiano per organizzare la lotta, basta capire la gente, il loro problemi”
La citazione sentimentale prima che politica non distolga dalle domande di senso come di “gestione del senso” che mi sono fatta continuamente durante questa durissima campagna elettorale da candidata del Partito Democratico, nel collegio Palermo, circoscrizione Sicilia 1, dunque la stessa sui cui agiva Pio.
Mi sono detta: io la gente la capisco, sono parte di loro, vengo dalla periferia, lavoro nella periferia, ma quella stessa gente, la mia gente, non capisce me, parlo, parlo, parlo, ma è come se non sentisse nemmeno, tanta e tale è la diffidenza. Persino mio fratello, mia madre, i miei amici, per dire.
Non ci hanno creduto affatto che sarei stata capace di difenderli dalle prepotenze dello stato, della mafia e dei grandi mostri della globalizzazione, i nuovi padroni. No, non bastava conoscere l’italiano e nemmeno capirli. Per essere creduti bisognava essere credibili e non lo siamo più.
Uno spettro s’aggira per il mondo: la sconfitta della sinistra e s’è detto. Una sconfitta che va affrontata, metabolizzata, riconosciuta, indagata e discussa. È una sconfitta che riguarda questo tempo, perché lo attraversa, che riguarda l’Italia, perché c’è in Italia, e che riguarda il partito di sinistra, perché è la sconfitta del Pd, o di Leu, o di qualunque altra forza piccola o grande che sia che si connota come sinistra. È una sconfitta che viene da lontano ma che ha avuto accelerazioni. Ciascuno dei livelli non sia alibi all’altro.
C’è un vento mondiale, è vero, ma pensa globale agisci locale, si diceva non molto tempo fa. Non lo so se sia una crisi di risposta ai problemi, certo non è una crisi di analisi dei problemi, noti e stranoti, detti e ridetti: crisi del lavoro, crisi dei corpi sociali, crisi dei sistemi e dunque delle relazioni che ci stanno in mezzo. È anche una crisi di organizzazione e gestione, parola che ripeto, sembra banale ma non lo è. Un partito o è organizzazione, una linea politica o è organizzata o non è.
Le questioni sono tante e tutte importanti. La riflessione riguarda l’assetto del mondo o il rapportarsi con l’assenza di un assetto del mondo. Se la politica è lo strumento per disegnare quell’assetto, capiamo bene che poche righe basteranno solo a piantare bandierine qua e là per iniziare a scavare per trovare acqua più che a traguardare nuove direzioni. È necessario perdere il mondo per riguadagnarlo nuovamente, scriveva Husserl, e è egualmente necessario, perdere il nostro mondo di sinistra, per intero, per riguadagnarlo.
Il mio orizzonte di pensiero mi consente di parlare adesso non del mondo ma di quello che mi è più vicino e che conosco meglio. Il Pd, queste elezioni, il paese, il sud. E insieme a quello che conosco meglio interrogarmi su quello che in questo momento conosco meno e mi interroga: dove voglio stare?
Dalla parte degli ultimi, degli oppressi, per difenderli “dalla prepotenza dello stato, della mafia e dei proprietari terrieri”? Non ho trovato molto di diverso dai tempi di Pio, andando per giro a Palermo per cercar voti: la condizione marginale la si vive e osserva a Palermo o al sud oggi come sempre e non è che le domande siano diverse.
Di nuovo c’è che la mia lingua di candidata di sinistra era afona perché era come se rappresentassi senza esserlo una delle “prepotenze” a cui non dare fiducia. E non solo tra gli ultimi o tra gli oppressi, anche nel mio ceto medio sperso, non solo economicamente ma anche culturalmente. La difficoltà sta nel fatto che lo sapevo. Prima, durante e dopo.
La difficoltà adesso sta nel tenere insieme il “prenderla larga”, questa discussione, e il rimanere costantemente con l’orecchio attaccato per terra. Domande ampie e domande brevi, il poema della sinistra e il distico elegiaco che disegna le cose concrete, le opere e i giorni. “Famo a capirci” dicono a Roma.
Il socialismo è morto, evviva il socialismo? Quali proletari di tutto il mondo dovrebbero unirsi oggi a fare una battaglia di classe se il significato del lavoro si è dissolto in mille varianti? Quale classe? In quale struttura? E il lavoro? È un diritto? È un posto? È una condizione? È una protezione? È il luogo per liberare la persona umana? O per incatenarlo? In quale spazio? In quale tempo? E in quale luogo? Il poema della sinistra. Le domande di senso.
Dal voto è uscito un sistema che non so definire tripolare, a me sembra bipolare, più passano i giorni e più me ne convinco: uno conservativo e populista, perché destra lepenista e populismo grillino finiscono col rappresentare e accogliere simili sentimenti, pur con segno diverso: le diffidenze senza soluzioni reali.
I miraggi irraggiungibili a colui che vaga nel deserto in balia di percezioni proprie o indotte: le flat tax, i redditi di cittadinanza, i rimpatri, per come sono formulati rimangono miraggi, che però funzionano se danno sollievo temporaneo, una morfina al dolore del presente. Un magma populista/popolare occupa tutto quello spazio non nel merito ma nel metodo, ha interpretato più che i problemi la diffidenza.
Sentimento semplice da cavalcare in un tempo rappresentato da una complessità difficile da districare persino a intelletti ben più fini del mio, figuriamoci per vite marginalizzate, in un tempo che finora ha distrutto prima di “mettere in protezione”. È il modello di conservatorismo regressivo, chiamiamolo sovranismo, o forza anti sistema, o anti élite, o come ci pare, rappresentato dal populismo è in questo momento confortante e vincente per delle classi sociali impaurite e impoverite non tanto economicamente, ma nelle reti di prossimità reali e valoriali.
Poema e distico vanno scritti, è un invito di riflessione ampia lanciato a chi vuol raccoglierlo per l’elaborazione e la costruzione dell’altro campo di questo bipolarismo di fatto: quello di un riformismo dialogante che metta il paese, i pezzi di paese e le persone che lo compongono tra i binari della libertà e della responsabilità. Che poi è il mondo di valori dell’occidente, il bisogno della conoscenza e del progresso come motore, l’orizzonte del futuro e non dell’adesso, purché governati con l’etica. Un’etica anch’essa illuminista e illuminata, dei diritti, della società aperta, della solidarietà.
Il nostro modello riformista, che va subito rimesso in campo, come il bimbo che si rimette sulla bici dopo esser caduto, e che sicuramente conservatore non è, non si attarda nel nazionalismo perché guarda all’Europa, non per negare identità, ma per allargare sguardo e condividere problemi e soluzioni, usa la tecnologia per non esserne usato, non la teme e cerca di farne struttura governata della globalizzazione, interroga le responsabilità, libera il lavoro, che sia opportunità per la persona, e dunque deve costruire tali opportunità per la vita di ciascuno.
Dobbiamo recuperare il terreno perso per quel che riguarda le tecnologie della comunicazione che creano oggi un vero e proprio spazio antropologico, quello della Rete, in cui “le sfide si moltiplicano e toccano valori spirituali”, come ha ben scritto Antonio Spadaro su un numero di Civiltà Cattolica.
Lo ribadisco da non credente perché è un terreno su cui ci muoviamo da goffi, non da esperti pensanti. Non solo dunque non abbiamo uno spazio di progetto di riferimento di una porzione di popolo, non abbiamo nemmeno un luogo, quando il luogo è quello lì e non lo governiamo con armi autonome, che conservino valori umani e spirituali. E se il problema non sono i dati rubati ma il grado di codifica autonoma del paese dei messaggi multiformi, veri o falsi, che la complessità sempre più complessa del mondo bombarda sui nostri simili e su di noi, è infame parlare di “utili idioti analfabeti”. Una sinistra si batte per l’affrancamento dall’ignoranza, per dare strumenti, soccorso, anche in questo campo, non giudizi.
Un riformismo progressista partecipato, trova i modi della partecipazione, interrogando nella partecipazione alla responsabilità. Riformismo progressista partecipato per non sfociare in dirigismo riformista che viene rigettato, e è ciò che è accaduto, perché non compreso, distante, nel merito, nella lingua e nel metodo, “non se lo son nemmeno letto”, e hanno fatto bene, mi verrebbe da dire.
Un riformismo partecipato e accompagnato, che non dia per scontata l’autonomia delle singole parti ma aiuta a costruirla, che non dia per scontato che tutti sappiano, che tutti “nascano imparati”, ma che insegna se c’è da insegnare e impara se c’è da imparare, che cerca alleanze e non rotture. Sennò fallisce.
È dunque l’invito a una messa in gioco, individuale e collettiva, esige uno sforzo che tanti, compresi noi stessi, forse non siamo in grado di accogliere adesso, ma con questi tanti dobbiamo entrare in relazione per capire quale scialuppa di salvataggio lanciare, o, attenzione, avere lanciata, affinché questa occasione la si colga.
Un modello che comunque l’aiuto lo metta in conto sempre e con attenzione alla qualità prima che alla quantità, con un welfare e un sistema d’istruzione life long learning che non siano gabbie ma pedane per saltare, luoghi per togliere ostacoli, non per metterli. La povertà si combatte, non si alimenta. E così l’ignoranza. E così la schiavitù di stati di marginalità indotti da formazione non efficace.
Un riformismo che si metta in testa e in pace col giustizialismo, certo, col garantismo certo, ma non abbia timore a dare un nome, una condanna e una pena alla corruzione, in qualunque livello essa abiti. Non lasciamo che l’onestà rimanga confinata nella macchietta grillina e nemmeno nella privata resa dei conti leghista. La lotta alla corruzione torni a essere affare di stato e finisca di essere diatriba politica.
La questione morale, immensa, è del paese non della politica ma politicamente va affrontata e risolta. Torni a essere affare di stato, con gli strumenti della legge e della giustizia giusta, sennò lo stato, e la politica che gira intorno, rimarrà sempre quello delle prepotenze non capite, perché variamente giusto o diversamente ingiusto.
Non so nemmeno fino a che punto e quanti se la sentano di accogliere questa posizione, io personalmente non ne vedo altre, attardarmi sui nomi mi sembra sterile quanto vano. Binari faticosi, esigono un impegno da chiedere a ciascun singolo e a ciascuna parte: di conoscenza, di scienza, di studio, di pensiero, di autonomia, ma si può fare.
Chiama a un lavoro nuovo e alla responsabilità i corpi intermedi, li stana dai corporativismi regressivi per rilanciarli nella sfida della corporazione che migliora se stessa e il mondo con cui si relaziona.
Insomma un sistema culturale e ideale opposto al populismo, come opposto è il senso della vita che rappresenta. È un campo che io vedo come una frontiera libera più che come un centro circondato da muri. E la declinazione più ovvia è che se il Pd vuol sopravvivere e rappresentare tutto ciò deve tenersi alla larga da Grillo e Salvini. Se non lo farà, altri raccoglieranno la sfida e si chiamerà con un altro nome.
Questo è quel che avverto, in forma confusa e a saltare, ma se qualcuno ha altri fogli da scrivere e altre parole si faccia avanti.
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Che bella compagna-