I libri di una grande autrice custodiscono tutti un passaggio segreto che ti accompagna in uno spazio di specchi, di riverberi, di scambio. È quello che succede con la raccolta La scuola ci salverà di Dacia Maraini. Il libro, che esce oggi, giovedì 8 aprile, per Solferino editore, si compone di scritti — articoli, ricordi, racconti — che ricostruiscono un viaggio tra i banchi condiviso nel tempo e interrotto solo a causa della pandemia. Ma la sintesi di un impegno durato decenni si dimostra subito capace di fare un salto rispetto al semplice sommarsi di tasselli. Anzi: parte proprio da uno scarto, da una rivelazione. Mentre domanda ai lettori e alle lettrici «che cosa sta succedendo alla scuola?», con l’intento di animare una comunità che trovi presto risposte, la scrittrice non teme di interrogare innanzitutto sé stessa. «Qualche volta mi chiedo se il fatto di avere perso un figlio al settimo mese non influisca sulla mia voglia di incontrare, parlare, confrontarmi con i ragazzi. Una stupida abitudine storica alla cura materna?».
Limpida e determinata nel suo desiderio di conoscere e riconoscersi, Maraini si presenta sulla soglia degli istituti scolastici d’Italia: ogni volta «vogliosa di abbracciare idealmente i giovani». Come fosse il dono di Perdu, «quel figlio che non ho potuto vedere crescere», già protagonista di Corpo felice, romanzo del 2018 (Rizzoli), e tornato a sorpresa nell’incipit di questo saggio.
Riflessione dopo riflessione, incontro dopo incontro, sono i bambini e le bambine a cucire la narrazione con le loro voci. La sensazione è quella di sfogliare un diario di classe collettivo, tra memoria e attualità. All’appello rispondono tanto le ragazze e i ragazzi incontrati durante il giro di visite in ogni regione, quanto la stessa Dacia a 6 anni, imbacuccata con mantellina e «cappellaccio di lana di pecora intrecciata» e accompagnata a scuola dalla mamma — qualche volta anche da papà Fosco, sugli sci — in una lontanissima Sapporo innevata. Su tutto e tutti l’immagine di copertina: una studentessa in T-shirt bianca prende il volo in un cielo sereno grazie a un libro aperto sulla schiena in forma d’ali. Uno zainetto leggero e un messaggio semplice: qualunque ripartenza, oggi più che mai, non dovrà far scivolare la scuola giù dalla piramide delle priorità nazionali. Perché non è la Dad, la didattica a distanza che ha svuotato le aule dal marzo 2020, l’origine dei problemi del nostro sistema educativo. Le lezioni da remoto — tormento di insegnanti, alunni, genitori — hanno acuito le difficoltà di comunicazione e i ritardi nei programmi; hanno approfondito i divari tra istituti più o meno attrezzati; hanno accelerato la dispersione dove già esisteva. Tuttavia, come scrive Dacia Maraini con apprensione risalendo la sequenza dei suoi interventi per il Corriere della Sera, «io riscontro come allora, nei confronti del sistema scolastico, una triste inerzia, un silenzio condiviso, uno sconcerto e una mancanza di fiducia nel futuro che ogni volta mi sorprendono e mi avviliscono».
Proprio adesso, nella crisi, qualcosa sta forse nascendo. Lo abbiamo intravisto in questi mesi segnando su una mappa ideale le infinite, spesso minuscole iniziative di protesta: pacifiche, mai ideologiche, appassionate, finalmente capaci di saldare in una linea orizzontale tutti i mondi dell’istruzione. In nome di questo risveglio, sprona la scrittrice, alla scuola «servono fiducia, entusiasmo, amore per il grande potere della conoscenza. Serve un investimento etico ed emotivo» oltre che economico. Non sarà un dibattito in più a salvarci, sembra suggerire, perché i dibattiti finiscono per seppellire gli slanci sotto montagne di parole e polvere. Più efficace è guardare le mani che si alzano, mani che vogliono raccontare. Come quelle di Magda, una ragazzina magra dal faccino triste. «Mi dice che è nata in Italia da genitori marocchini e che lei non si sente del tutto italiana. Sembra che questo la amareggi. Le racconto la mia storia di bambina italiana che a un anno è andata in Giappone, ha vissuto in mezzo a bambini giapponesi, parlando giapponese; a dieci è rientrata in Italia e ha dovuto cambiare lingua e abitudini e non è stato facile». Che cosa l’ha aiutata in quel balzo tra emisferi? I libri, i compagni di classe, infine la consapevolezza che «due patrie non ti dividono, ti arricchiscono». E poi c’è il caso di Tumana Lamin, ragazza saharawi di 9 anni giunta in Italia per farsi curare da un’anemia e ospitata dalla famiglia Berni di Castiglioncello. Tumana studia con profitto, vuole diventare medico perché ha visto che cosa medici bravi possono fare alle vite degli altri. Nessuno sembra aver nulla da eccepire, racconta Maraini, finché la giovane Lamin non diventa maggiorenne e viene richiamata dal padre a occupare il suo posto al servizio della famiglia, in Marocco, nella tendopoli di Auserd. Impossibile non chiedersi, di fronte a un destino come questo, «fino a che punto si può e si deve intervenire perché una ragazza venga sottratta agli usi e costumi di un popolo che pure si rispetta».
Sono queste le storie, gli interrogativi che l’autrice raccoglie girando per le scuole e puntuale ripropone negli spazi dei giornali che ospitano le sue rubriche. Gli stranieri che diventano capri espiatori invece di rivelarsi leve per ragionare di una nuova cittadinanza, i mutamenti sociali che gli insegnanti armati di «passione e talento» sanno intercettare molto meglio dei decreti ufficiali, la chiamata che gli studenti rivolgono agli intellettuali affinché «si sporchino le mani» come diceva Sartre. «Nella sfiducia verso gli specialisti della politica questi ragazzi chiedono una partecipazione alla cosa pubblica da parte di tutti, soprattutto di chi ha accesso all’ascolto pubblico. È una domanda insensata?». Sembra quasi di vederla avanzare lungo le file dei banchi, Dacia Maraini, mai in cattedra. Lo sguardo luminoso, più interessata ad ascoltare che a dare lezione. Fino allo stupore davanti a «una ragazzina dalla faccia di bambina» che mette a soqquadro i venerdì delle città di tutto il mondo prima che la pandemia congeli le manifestazioni. «Evidentemente Greta è stata la miccia che ha acceso il fuoco, ma il fuoco stava covando. Io che frequento le scuole l’ho scritto varie volte: sotto la superficie di un evidente disinteresse politico, sotto la tanto criticata apatia, c’era del fuoco che aveva solo bisogno di una scintilla. La scintilla è venuta da una bambina con le trecce che ha indovinato le parole giuste».
Greta che parla alle Nazioni Unite, Greta che accusa i potenti e pretende soluzioni subito, in tempo per la sua generazione derubata del futuro. Greta, oggi appena diciottenne, appare così lontana da Dacia bambina e poi più grande ma sempre perduta nei romanzi. «Maraini cosa fai? Sei distratta come al solito», la riprendono a volte le insegnanti della Santissima Annunziata, a Firenze. «Io semplicemente leggo. Ho sempre un libro sotto il banco e leggo…». Le unisce però la stessa tenacia, la stessa volontà di non rassegnarsi. Di cercare sé stesse, di aggrapparsi al meglio del presente, che spesso è proprio la scuola — e a volte solo la scuola — a poter offrire. In uno dei tre racconti che chiudono il volume di Solferino viene descritto un professore tra tanti, un professore «che non si curava della disciplina, lasciava uscire chi voleva, preoccupato di spiegare la sua lezione nel miglior modo possibile. Quei pochi che rimanevano in classe si ammucchiavano attorno alla cattedra e lui era felice di averli vicini».
Agli studenti che rimangono accesi, anche a telecamere spente, e ai professori che non si scoraggiano, anche al buio delle notti senza luna, è dedicato questo libro con le ali: le ali della memoria di una ragazza che leggeva tra Sapporo, Firenze, Palermo, Roma e le ali mai chiuse di un’intellettuale innamorata delle parole, dell’immaginazione, del dialogo.
2 Comments
Tra i banchi trovi sicuramente il futuro, come spiega nella sua ultima pubblicazione “ la scuola ci salverà “ appena uscita la scrittrice Dacia Maraini, ma quest’ultimo va cercato con la preparazione,con l’ascolto, con la motivazione, con l’aiuto ad imparare ed a rispettare norme e regole. Tutto questo si ottiene, secondo me ,preparando e selezionando una classe di insegnanti/e all’altezza della situazione. Non è certamente semplice scegliere gli insegnante/i più idonei, ma bisogna provarci; ad esempio premiando i migliori in base ai risultati ottenuti e giudicati buoni dalla maggioranza degli addetti ai lavori e degli utenti. Buon weekend a coloro che leggono. Antonio De Matteo Milano
Tra i banchi ho appreso che esistono le parole polisemiche. Polisemiche deriva dal greco poly (molti) semos (segni) che significa “dai molti significati. Ora provo ad usarne una.
Con una parola si può definire dettagliatamente il nostro primo ministro attuale? Ci provo.
Mario parla piano divinamente, occupa un piano di palazzo Chigi e culturalmente è su un altro piano rispetto ai suoi ministri. Buona domenica a chi legge. Antonio De Matteo MI